domenica 6 marzo 2016

I PERICOLI LIBICI E UNA SPEDIZIONE CHE SARA' DI GUERRA

 
                         Tripoli colonia 
Fancamente, finché  non accadrà, sono incredulo all'idea che un collezionista attento di sondaggi come Renzino si vada ad impelagare in una cosa così impopolare come una spedizione in Libia, paese che non sta combinato meglio della Siria, anche se il conflitto civile non è arrivato ancora a quei livelli di cruenza. 
Bernard Henry Levi, e Pierluigi Battista da noi, furono tra i principali sostenitori dell'intervento contro Gheddafi, dittatore odioso e oppressivo con la sua gente, sicuramente non reticente nell'uso della repressione anche sanguinaria.
Però i rivoltosi si sono rivelati non angeli liberatori, ma diavoli diversi. E la Libia è nel più assoluto caos.
Per noi italiani un disastro, sia perché la sponda libica è diventata un trampolino facilissimo per gli imbarchi clandestini, sia per i nostri interessi, soprattutto energetici, in quella terra. 
Da ultimo, a rendere più grave la situazione, l'approdo in Libia di quelli dell'Isis, o Daesh che dir si voglia. 
Insomma, una situazione degenerata ed esplosiva veramente a tiro di missile da casa nostra. 
RIportare l'ordine da quelle parti è quindi cosa buona e giusta, sia per loro che per noi. 
Ma come ottenere un così ambizioso risultato è tutto altro problema.
Intanto, non ho ben compreso perché, tra le parti contendenti, noi sembra si sia subito scartato come possibile interlocutore il generale Haftar, che, in mezzo a tanti difetti (peraltro comuni a un po' tutte le fazioni in campo ) due pregi ce li ha : è dichiarato nemico dell'Isis ed è ben visto dall'egiziano Al Sisi, che ha ripreso il controllo dell'Egitto e sicuramente rappresenta un male minore da quelle parti (al di là dei segreti non commendevoli della morte dell'italiano Regeni).
Paolo Mieli, sul Corriere, dedica all'argomento l'editoriale odierno, con considerazioni critiche sul passato e giustamente preoccupate sul presente e l'immediato futuro.
Buona Lettura



La missione e i suoi pericoli
di Paolo Mieli


Risultati immagini per tripoli oggi 
            Tripoli oggi

Per una sola azione, nei suoi due anni di governo, Matteo Renzi ha ricevuto consensi pressoché unanimi, anche dai suoi più aspri oppositori: l’indugio prima dell’intervento militare in Libia. La preparazione di questo passo è stata paziente, circospetta, prudente, addirittura flemmatica. E adesso si dovrà, nel caso, procedere passando per un dibattito con annesso voto in Parlamento. Brucia ancora il ricordo di come fummo trascinati nella campagna — imposta da Francia e Gran Bretagna — iniziata il 19 marzo del 2011 per l’abbattimento del regime di Gheddafi. Un’azione condotta sotto le insegne delle Nazioni Unite e Tzvetan Todorov fu il primo a mettere in guardia sul fatto che da quelle parti la legittimità onusiana non sarebbe stata «sinonimo di legalità». Aveva ragione
Il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Martinelli, denunciò immediatamente che i bombardamenti Nato sulla capitale libica provocavano dozzine di morti tra i civili e una quantità impressionante di aborti da traumi per le esplosioni. Poi fummo costretti a registrare che il consenso al tiranno era più forte di quel che avevamo pensato talché le sue milizie combattevano con una imprevista determinazione.
Nei sette mesi che intercorsero tra l’inizio dell’intervento armato (marzo 2011) e l’ uccisione di Gheddafi (ottobre di quello stesso anno) abbiamo dovuto prendere atto del fatto che, come aveva avvertito lo studioso dell’Atlantic Council Karim Mezran, in Libia non ci sono angeli ma «differenti tipi di diavoli».

I miliziani di Gheddafi erano spietati. Ma anche i «buoni» non scherzavano. In estate l’Onu dovette emettere un comunicato ufficiale in cui si affermava che i rivoltosi di Bengasi avevano commesso crimini di guerra e violato ripetutamente i diritti umani. Amnesty International stilò un rapporto di ventuno pagine sugli «abusi dei ribelli». I quali ribelli, sconvolti dalle faide intestine, giunsero a uccidere il loro generale Abdel Fattah Younes, peraltro ex ministro di Gheddafi. Poi quando i «nostri» in agosto finalmente entrarono a Tripoli si scatenò un’imbarazzante «caccia ai neri» che i «liberatori» sostenevano essere mercenari al soldo del despota. Fu quindi una lunga serie di linciaggi e uccisioni a freddo. Talvolta stragi. Tutto questo, ripetiamo, prima che Gheddafi fosse scovato e venisse ucciso in un modo barbaro e mai del tutto chiarito.
In seguito le cose andarono anche peggio. Attacchi di brigate salafite a chiese di Bengasi, persecuzione di copti, attentati contro chiunque cercasse di riportare il Paese alla normalità, persino all’indirizzo di Hossam El-Badry, l’allenatore della più importante squadra di calcio. Nel settembre del 2012 a Bengasi venne ucciso da ultras islamici l’ambasciatore statunitense Chris Stevens nel clima surriscaldato da manifestazioni contro il film Innocence of Muslim . Iniziò poi la stagione dei rapimenti che, come abbiamo avuto occasione di constatare con amarezza, non si è ancora conclusa. Il Paese implose. Una fazione affiliata ai Fratelli musulmani si impossessò di Tripoli. Ma c’erano islamisti che scavalcavano questi «fratelli» in radicalità. Un commando di jihadisti attaccò l’hotel Corinthia dove risiedeva il primo ministro musulmano Omar al-Hasi provocando morti e feriti.
Il governo legittimato dalle elezioni del 2014 fu costretto a riparare a Tobruk. Islamisti che si richiamano al califfo al Baghdadi si insediarono a Sirte e successivamente sono giunti a Sabratha ai confini con la Tunisia dove nei giorni scorsi sono stati uccisi i due nostri connazionali Piano e Failla. L’uomo forte del governo di Tobruk, il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, assai benvoluto dall’Egitto di al Sisi, tentò dapprima di resistere prendendo in ostaggio il Parlamento di Tripoli e sequestrando venti deputati; poi fece bombardare una nave turca sospettata di trasportare razzi per le milizie del califfato. Altre tribù (centoquaranta!) presero possesso della parte del Paese, soprattutto il Fezzan, che sfuggiva al controllo delle fazioni di maggior rilievo. «La Libia ci esploderà in faccia», fu la previsione del presidente del Ciad, Idriss Déby.
Per evitare che si realizzasse la profezia di Déby, noi occidentali abbiamo faticosamente elaborato un piano che prevede la formazione di un governo di unità nazionale (escluso Haftar) che dia una patente di legittimità a un nostro intervento contro l’Isis. Un piano che — come ci ha rinfacciato Ali Ramadan Abuzaakouk ministro dei Fratelli musulmani a Tripoli in una minacciosa intervista concessa al Corriere — è stato messo a punto dall’inviato dell’Onu Bernardino León il quale non ha dato prova di imparzialità accettando un’offerta di lavoro degli Emirati Arabi con un compenso per cui non patirà la fame: cinquantamila dollari al mese. Tale progetto è stato successivamente ridefinito dal nuovo delegato delle Nazioni Unite, Martin Kobler, ispirato, secondo Abuzaakouk, da una visione non dissimile — nella sua perniciosità — da quella del predecessore.
Sotto la guida di Kobler, le compagini di Tobruk e di Tripoli sono adesso impegnate a dar vita ad un unico governo che nella sua prima versione ha provocato ironie per il suo essere pletorico. Governo che non si sa dove avrà sede (in una fase iniziale a Tripoli) e che al termine di una laboriosissima gestazione dovrebbe limitarsi a schiacciare il pulsante della luce verde al nostro intervento. Un intervento che, peraltro, in forme appena dissimulate e in proporzioni modeste, è già in atto. Già questo è un modo di procedere che desta perplessità …
In ogni caso, prima di imbarcarci in questa impresa, è bene fermarci a riflettere ancora su due o tre punti. Primo: dalla caduta del muro di Berlino (1989) sono trascorsi ventisette anni nel corso dei quali l’Occidente ha combattuto numerose guerre che, eccezion fatta per quella balcanica, non hanno dato i risultati sperati. Nella maggior parte dei casi, anzi, hanno provocato autentiche catastrofi. E la Libia, come abbiamo provato a tratteggiare in estrema sintesi, è il peggior rovaio tra quelli in cui potremmo andarci ad infilare. Si può fare qualcosa di diverso perché la storia non si ripeta? Secondo: andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto; il che non farà che peggiorare i nostri rapporti con il Cairo già resi molto difficili dopo l’uccisione di Giulio Regeni. Un obiettivo intralcio alla nostra politica delle alleanze. Terzo: nessuno di noi ha fin qui reso pubblica un’idea condivisa di quale debba essere la meta di questo tragitto da compiere in armi. La divisione della Libia in tre o quattro Stati? Perfetto, ma allora perché non coinvolgere il nascituro governo libico in questo in modo che se ne possano conoscere da subito eventuali obiezioni? Da ultimo: all’Italia, a quanto si apprende, sarà assegnato il comando dell’operazione. È un grande onore. Anche se non guasterebbe un certo understatement nell’accogliere questo prestigioso incarico. E una coraggiosa valutazione delle conseguenze che esso porta con sé.
Auspicheremmo infine che la missione di guerra venisse definita come tale. Rinunciamo per una volta a quei neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari. Chiamare le cose con il loro nome è una forma di assunzione di responsabilità. La prima. Forse la più importante.

Nessun commento:

Posta un commento