mercoledì 8 giugno 2016

L'ASTENSIONISMO DI MILANO E' DIVERSO DA QUELLO ROMANO

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Non sono un sostenitore della Costituzione più bella del mondo ( a sta baggianata sembra non crederci più nemmeno l'inventore della definizione, quel Benigni che pure sarà bene che spieghi un po' il suo mutato pensiero, ché al momento non sta facendo bella figura) , sono d'accordo sul fatto che nel nostro sistema dei correttivi tesi a rafforzare l'esecutivo siano utili. Dirò di più, sono sempre stato un presidenzialista ! o, in difetto, un fautore del premierato di stile britannico. Quindi non condivido la difesa a spada tratta del parlamentarismo della Carta costituente italica, fatta invece, insieme a tanti altri costituzionalisti (molti, all'opposto, sono stati arruolati da Renzi, appunto perché nel mondo c'è spazio per tutti), da Valerio Onida.
Però su una cosa sono assolutamente d'accordo, e la vado scrivendo da un po'.
Per governare, avere un potere adeguato è una condizione necessaria ma NON sufficiente, se si opera all'interno di una democrazia (se invece parliamo di altri regimi, ovvio che nulla quaestio).  Ci vuole anche un adeguato CONSENSO.
Tanto più se si vogliono imprimere e guidare svolte di cambiamento importanti. Altrimenti si compromette il senso di appartenenza ad una comunità (che peraltro da noi manca, ma certo così facendo il problema lo acuiamo, non lo risolviamo).
La riforma costituzionale che Renzi ha apparecchiato è frutto non di compromessi alti e condivisi dalla maggioranza del Parlamento, come, ci ricorda Onida, avvenne per la Carta in vigore dal 1948, ma di colpi di fiducia, con maggioranze variabili a seconda della bisogna (oltretutto con la composizione "porcella" del Parlamento, con tutte le riserve, anche costituzionali, del caso), compromessi al ribasso.
Il risultato non è splendido, ancorché alcune direzioni siano condivisibili. Ma tralasciamo questo, che fa parte del merito, e torniamo al problema del consenso.
Onida ricorda, propriamente, stagioni oscure dell'Italia, come gli anni del terrorismo, dove fu buona cosa la tenuta democratica di tutte le forze parlamentari e l'adozione di provvedimenti anche duri fu resa possibile proprio da un consenso che andava oltre "l'esecutivo".
A me preoccupa questa rassegnazione - in alcuni casi si tratta di soddisfazione, in un'ottica speranzosa di arrivare ad una sorta di oligarchia dei migliori...piuttosto demenziale nell'auspicio, ché è tutto da vedere che restino i "migliori" ad andare a votare, e i peggiori a disertare le urne - all'astensionismo.
Le "democrazie mature" le definiscono. Non sarà il caso di disaffezione alla democrazia punto ?? Al prevalere dell'idea che "tanto non serve a nulla", che aveva ragione Mark Twain quando scriveva "se il voto contasse veramente, ce lo avrebbero tolto" ?
Anche qui, ripeto riflessioni non originali : un conto è vivere in un sistema comunitario che funziona discretamente bene, e dove il prevalere di un candidato rispetto ad un altro non è che cambi radicalmente, essendo entrambi degni di fiducia, ben diverso lo scenario opposto.
Ecco, succede ora, a Milano e a Roma.  Il capoluogo milanese viene descritto come una realtà che funziona piuttosto bene (il meglio non è mai nato), e i due candidati, Sala e Parisi, sono entrambi dei "moderati". Io sarò contento se vincerà il secondo, per ragioni di bandiera, ma il fatto che il Sindaco, alternativamente, sarà Sala e non una come la Balzani, a me va bene lo stesso.  A quel punto ci sta anche il milanese che non va a votare, fiducioso e sereno che Sala o Parisi alla fine vadano bene entrambi, la città non sarà rivoluzionata, le cose buone saranno preservate.
Eccolo il caso dell'astensione "matura" !!

Ben diverso è il caso di Roma, dove la città è allo sfacelo - trasporti e pulizia, in primis, poi c'è la gente che ripete il mantra della sicurezza, ma francamente, e per fortuna, lo avverto come più emotivo che reale - e non andare a votare significa soprattutto : NON MI FIDO DI NESSUNO DI QUESTI ! NON SERVE A NULLA".
Ecco, questo è un buon viatico per una crisi VERA della democrazia e per dare spazio a leader "forti", come quelli delle destre ungheresi e austriache, per fare degli esempi concreti ed attuali.
Gli amici del PD pensano che da noi l'uomo forte potrebbe essere il loro renzino, e quindi sotto sotto una deriva di quel tipo gli andrebbe bene.
Se i ballottaggi rivelassero che il tripolarismo è sfavorevole alle loro aspirazioni, con l'alleanza "contro" dei 5Stelle e del centro destra, vedrete che l'Italicum, in relazione al quale oggi renzi dice "non lo cambierò nemmeno morto", tornerà in discussione.
E di corsa.





 

Il sistema parlamentare garanzia di democrazia

Mettere mano alla Costituzione può essere fatto solo senza dimenticare lo spirito dei nostri costituenti

di Valerio Onida

 
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Caro direttore,ha sicuramente ragione Michele Salvati («Perché la riforma riguarda tutti ed è solo il primo passo», nel Corriere del 30 maggio) quando dice che la riforma costituzionale «è problema troppo serio per essere affidato ai soli costituzionalisti», ed è piuttosto «un problema storico-politico».

Ma quale problema? Quello di passare (finalmente, dice Salvati) a una «seconda Repubblica», e quindi di distaccarci decisamente dai caratteri fondamentali della Repubblica nata con il referendum del 1946 e con la Costituente? Questa, dal mio (e non credo solo mio) punto di vista non è una prospettiva allettante, è piuttosto una minaccia. Sono almeno venticinque anni che taluno vagheggia una «seconda Repubblica», e i prodromi e le tendenze che si sono visti o intravisti sono tutt’altro che rassicuranti. Salvati muove anch’egli, come altri fautori delle «grandi riforme», dall’idea che il nostro sistema costituzionale sia caratterizzato da un eccesso di poteri di freno e da una endemica debolezza dell’esecutivo, visto invece come unico potere chiamato a decidere; e che ciò sia storicamente dovuto alla scelta di settanta anni fa di voler «imbrigliare un partito anti-sistema» (il partito comunista) che si temeva potesse ottenere la maggioranza elettorale. Ma davvero si pensa che se il partito comunista degli anni Quaranta del Novecento avesse conquistato la maggioranza elettorale nel Paese il bicameralismo (per dirne una) avrebbe costituito un freno efficace a rischi di abbandono del terreno della democrazia liberale? Davvero si pensa che le forze di ispirazione schiettamente democratica che diedero vita alla Costituzione, se non ci fosse stato il partito comunista, avrebbero scelto un diverso sistema istituzionale fortemente accentrato e basato sui poteri dell’esecutivo, abbandonando il classico terreno delle democrazie di massa europee, cioè il parlamentarismo?

In realtà il sistema parlamentare, assicurando la consonanza di legislativo e esecutivo (perché il Governo non ha altra legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della maggioranza parlamentare), è quello meglio in grado di consentire ad una maggioranza di realizzare i propri programmi, non solo in via amministrativa, ma anche promuovendo e guidando la formazione delle leggi che esprimono e traducono il suo indirizzo politico. O si dovrebbe preferire un sistema all’americana, dove il Presidente dura in carica quattro anni, ma ogni due anni entrambe le Camere si rinnovano (una per intero, l’altra per un terzo), e se la maggioranza del Parlamento non è d’accordo col Presidente questi non ha strumenti, (né la questione di fiducia, né il potere di scioglimento anticipato delle Camere) per tradurre il suo programma in leggi e in decisioni di spesa (il bilancio dello Stato infatti dipende dal Parlamento)?

Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.

Ma, si dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con efficacia: solo un Governo (anzi, un capo del governo), che possa per tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrà governare con efficacia. Qui si svela il vero sogno dei fautori delle «grandi riforme»: il sogno (o per altri, come noi, l’incubo) dell’«uomo solo al comando». La realtà è che il sistema costituzionale è in grado di offrire ed offre la possibilità di costruire e attuare processi decisionali efficienti, ma perché essi possano operare ci vogliono delle condizioni politiche: è la politica, bellezza, viene da dire. Al di fuori di queste, le istituzioni, di per sé, possono solo offrire strade di impoverimento della democrazia rappresentativa (occorre un unico «vincitore», e non importa quale consenso abbia dietro di sé); oppure la scorciatoia di torsioni di tipo autoritario. È questo che alla fine vogliamo?

Dire «condizioni politiche», in democrazia, vuol dire necessità che si riescano a promuovere, costruire, mantenere soluzioni sufficientemente condivise. Che non vuol dire solo, si badi, dar vita e tenere unita una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa intorno agli obiettivi cui le decisioni politiche tendono. Ciò è certo auspicabile, e il ruolo costituzionale dei partiti (intesi come strumenti di partecipazione politica, e non come puri gruppi di potere) è appunto questo. Ma la condivisione in politica ha molti aspetti.

C’è anche, ci può essere anche, una condivisione più ampia o talora perfino diversa da quella che dà vita alle maggioranze di governo. Nel 1970 la legge sul divorzio fu varata in Parlamento sulla base di un consenso (poi confermato dagli elettori) diverso da quello su cui si fondava la maggioranza di governo dell’epoca. Più in generale, il confronto fra maggioranza e opposizioni non può reggersi solo su una aprioristica contrapposizione a tutto tondo e senza eccezioni. Può e deve contemplare piani diversi anche di condivisione e di confronto: senza che su ogni tema o sottotema la dialettica si traduca sempre e necessariamente in uno scontro senza quartiere, in cui ognuno è chiamato non tanto a sostenere le proprie idee quanto a reggere un gioco delle parti; senza che ogni convergenza al di fuori dei confini della maggioranza del momento debba spregiativamente qualificarsi come forma di negativo «consociativismo» (anche la comunità politica è fatta di con-soci).

Il «miracolo» dell’elaborazione ampiamente condivisa e dell’approvazione pressoché unanime della Costituzione del 1947 (in una congiuntura politica che negli ultimi mesi della Costituente vide fra l’altro la spaccatura della maggioranza di governo, e il passaggio ad una diversa alleanza, quella centrista) si spiega proprio come il risultato prezioso voluto e raggiunto da una classe politica che capì fino in fondo il senso dell’operazione costituente e le ragioni di unità che stavano a base della Costituzione.

Ma, per venire a vicende a noi più vicine, qualcuno forse può pensare che la democrazia italiana sarebbe uscita complessivamente indenne dagli anni dello stragismo (da piazza Fontana alla stazione di Bologna) e dagli anni della sfida del partito armato (fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro), se non vi fosse stata una capacità delle forze politiche allora dominanti, di maggioranza e di opposizione, di cercare e trovare terreni di convergenza e di intesa sull’essenziale?

Mettere mano alla Costituzione, lo si dovrebbe fare sempre e solo in questo spirito. Questa è la «politica» degna del nome, non quella contro cui sempre più italiani sembrano oggi concepire solo fastidio e disprezzo, quella fatta, secondo l’immagine oggi purtroppo accreditata anche dall’alto, di «poltrone» da possibilmente sopprimere per ridurne i «costi».

1 commento:

  1. Che il problema sicurezza a Roma sia più una questione di pancia o meno ? Ormai, come ho avuto modo qui di dire, a Roma ci vado il minimo indispensabile e ogni volta non vedo l'ora ti tornarmene a Monterotondo dove da molti anni risiedo. Non è tanto, lo ammetto, per una questione di sicurezza personale quanto per come Roma è ridotta. Il degrado è generale e lo sporco regna, ovviamente più nelle periferie dove è più accentuato il fenomeno dell'astensionismo dall'urna.
    Ho l'impressione che la "ggente" delle periferie abbia davvero fatto suo l'aforisma di Mark Twain. Anche Voltaire però, disse, e vado a memoria, "Quello che si fa per denaro è fatto male" e la politica, nelle istituzioni, dal governo centrale fino al comune/i e i municipi romani raramente si attiva se non c'è un tornaconto economico o di potere.

    E se a Roma il PD resiste in soltanto due municipi su quindici e se l'elettore che paga le tasse deve avere una voce in capitolo allora è evidente che la politica tutto ha fatto tranne che governare il territorio.

    Penso che l'astensionismo sia proprio figlio del "chi ce metti, ce metti, so tutti uguali" che non è la frase d'un politico illuminato ma della cittadinanza disillusa e disgustata che ha perso la speranza di veder cambiare il paese e la città e che percepisce la politica come un'entità a se stante e avulsa dalle cose della vita dell'uomo della strada.

    La politica, soprattutto del PD, a Roma è stata bocciata senza appello in e da tredici municipi su quindici. I due che resistono sono centrali e dunque più fortunati e non ci abitano tanto gli operai e non ci sono accampamenti rom che invece uno trova in periferia. Un PD ormai elitario e avulso dai problemi delle masse è destinato a essere esautorato, e temo dai grillini, e non è detto che sarebbe un male.

    Chiedo scusa per la prolissità e le troppe divagazioni.

    Leno

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