giovedì 30 giugno 2016

MIELI : LASCIAR "BRUCIARE" I PAESI EUROSCETTICI

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Interessante, ancorché non pienamente condivisibile, il lungo (l'uomo non ha il dono della sintesi) editoriale dell'ex direttore del Corriere della Sera, Polo Mieli dedicato anch'esso alla questione europea, particolarmente alla ribalta causa trauma Brexit.
Se non ho capito male, applicando la lezione di Yellowstone, Mieli suggerisce - non esplicitamente, ma in che modo si realizzerebbe la sua auspicata difesa delle "istituzioni europee" -  di lasciar "bruciare" i vari populismi fino alle estreme conseguenze, lasciando che i paesi più malmostosi e ribelli escano senza fare troppo per tenerli. Fin troppo facile pensare alla Grecia, o anche ai casi recenti di Austria e Ungheria, ma vi viene da pensare all'Olanda...
E se le fiamme vincessero anche in Francia ?
Siamo sicuri che, restando nella metafora del direttore, ci sarebbe ancora un "parco" a quel punto ?
Ma magari ho capito male il pensiero di Mieli.
Giudicate voi e buona lettura


Il Corriere della Sera - Digital Edition

Il parco di yellowstone, una lezione per
l’ Europa

di Paolo Mieli

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L’ Europa è in fiamme come il parco di Yellowstone, ai confini tra Wyoming, Montana e Idaho, ventotto anni fa.
Nella grande riserva naturale ai bordi delle Rocky Mountains, la combustione si scatenò, a causa di un fulmine, il 14 giugno del 1988. Era già accaduto nelle settimane, nei mesi, negli anni precedenti e ogni volta i forestali avevano compiuto sforzi sovrumani per domare le vampe che però poi si riaccendevano in qualche cespuglio a poca distanza. E si doveva sempre ricominciare daccapo. Quel giorno invece, anche in considerazione del fatto che l’estate si annunciava come la più secca da oltre un secolo e i venti soffiavano fino a ottanta miglia l’ora, le autorità decisero di lasciar fare alla natura; natura che, come aveva fatto per migliaia di anni, avrebbe eliminato le eccedenze rinsecchite di sottobosco, principale causa della diffusione dei fuochi. I guardiani si sarebbero limitati a difendere gli esseri umani, le strutture e gli alberi che avevano dato prova di essere più resistenti. Gli animali avrebbero dovuto cavarsela da soli. E l’incendio durò per oltre due mesi che parvero interminabili.

In Europa stiamo all’estate di Yellowstone, ma senza averne ancora appresa la lezione. Ci allarmiamo ogni volta che si manifestano le fiamme antisistema come se fosse un caso a sé: ne studiamo le cause specifiche e proponiamo soluzioni «locali».

C i rallegriamo poi oltre misura di successi ad ogni evidenza effimeri come quando, alle Regionali francesi del dicembre scorso, Marine Le Pen ha perso il Pas-de-Calais e Marion Maréchal Le Pen non è riuscita a conquistare la Provenza. Senza valutare a fondo quanto quelle vittorie siano state ottenute solo grazie al ritiro (nel ballottaggio) dei candidati socialisti a vantaggio di quelli della destra moderata. E quanto strutturalmente il Front National abbia ancora il vento nelle vele. Manifestiamo compiacimento per il fatto che alle Presidenziali austriache di maggio il verde Alexander Van der Bellen sia riuscito a strappare la prestigiosa carica di capo dello Stato a Norbert Hofer senza ben comprendere cosa significhi la circostanza che lo scarto tra i due sia stato di poco più di 31 mila voti. E trascuriamo come si trattasse di una piccola vicenda locale il fatto che il 13 marzo in Germania, nel Baden Württemberg, Alternative für Deutschland di Frauke Petry abbia scavalcato la Spd. Si tratta, invece, di una serie di eventi di portata storica: i grandi partiti del Dopoguerra europeo — conservatori o democristiani, socialdemocratici o laburisti — da qualche tempo vengono ovunque assediati e sconfitti. E talvolta, come è accaduto per il Pasok greco, travolti.
Qualcosa di simile lo abbiamo avuto sotto gli occhi a Torino con l’esito più imprevedibile e significativo delle recenti Amministrative italiane: lì il sindaco uscente Piero Fassino, pur avendo — per riconoscimento unanime — ben governato, è stato sconfitto solo perché identificato come esponente dell’establishment (e ha dovuto pure sentirsi rinfacciare un’inesistente mancanza di attenzione ai «nuovi esclusi»). Per non parlare della Gran Bretagna dove nel referendum Brexit è stata l’Europa (anche lì assieme ai partiti tradizionali) a far le spese della rivolta antisistema.

Dobbiamo perciò fermarci a riflettere prima di manifestare compiacimento per il fatto che in Spagna, nel marasma di un Paese reso ormai cronicamente ingovernabile, domenica scorsa il partito democristiano e quello socialista abbiano resistito agli antisistema. Per dare un seguito a questo risultato adesso potrebbero essere costretti a coalizzarsi tra loro, ciò che avrebbe l’esito di offrire nuove chance agli antagonisti di entrambi. Ed è questo uno dei grandi problemi dei tempi attuali. La soluzione di buon senso sembra essere dappertutto il ricorso alla Grosse Koalition, ossia un’alleanza tra i partiti eredi delle tradizione storiche, di centrodestra e di centrosinistra, del Novecento. Ma, per essere virtuose, tali coalizioni — proprio come la prima, quella tedesca del 1966 — dovrebbero per loro natura essere a termine. Possono durare, al massimo, una legislatura. Nel senso che il loro esito dovrebbe essere una competizione nelle urne tra i due partner precedentemente coalizzati. E invece accade che, per effetto dell’improvvisato abbraccio, uno dei due soggetti politici rimanga regolarmente stritolato, che la coalizione divenga via via meno grande (perché regolarmente perde pezzi lungo il cammino) e che alle elezioni successive ne tragga vantaggio chi da quella alleanza è rimasto fuori.
Difendere dalle fiamme della rivolta contro l’establishment europeo i tronchi, anche i più robusti, dei partiti socialdemocratici e conservatori, legandoli assieme non si è rivelato da nessuna parte un buon investimento. Uniti, quei fusti e quei ceppi bruciano meglio.

Oltretutto sono i socialdemocratici a uscire più danneggiati da quel genere di esperienza: perché il loro elettorato è quello che più subisce il fascino dei movimenti antisistema; perché i loro elettori sono più ricettivi alle indicazioni dei gruppi dirigenti e leali con essi (si conoscono molti casi di progressisti disposti, per far fronte contro un nemico comune, a convergere su un candidato di destra, ma pressoché nessun caso di comportamenti analoghi a parti invertite); per il fatto che hanno una base elettorale particolarmente insofferente alle politiche di austerità proprie delle grandi coalizioni in particolare, come è ovvio che sia, in tempo di crisi. Peggio: tali politiche di rigore appaiono alla base dei partiti di sinistra come forme di subalternità politica e soprattutto culturale alla destra. Al «liberismo», come usano dire. E proprio per questo sono destinate ad accrescere delusione e rabbia.
Ed è qui che dovrebbe intervenire la lezione di Yellowstone. Se i fuochi della ribellione non si spegneranno da soli per via di una pioggia provvidenziale, sarebbe saggio darci carico di «difendere le strutture del parco» (vale a dire le istituzioni dei singoli Stati nonché dell’Europa tutta) e lasciare che i tronchi-partito affrontino le fiamme nel loro ambiente naturale, il quale provvederà a bonificarne i sottoboschi. Le piccole e grandi burocrazie.

La sorpresa alla fine di quell’estate del 1988 fu che risultò distrutto solo il 36 per cento delle foreste. Il 64% di quella riserva naturale sopravvisse. L’ecosistema ne uscì rinvigorito da una nuova vegetazione che rigenerò l’intero parco. La difesa delle strutture ebbe successo maggiore delle volte precedenti in cui ci si era impegnati spasmodicamente a combattere fuoco per fuoco. Rimasero uccisi purtroppo degli animali: sei orsi, nove bisonti e 367 alci (su un totale di 93 mila che si misero in salvo da sé). Le loro carcasse furono lasciate sul terreno perché anche in quel caso la natura facesse il suo corso e se ne nutrissero orsi, coyote e aquile. In quei tre mesi a Yellowstone si parlò con rammarico dell’allora vicepresidente George Bush (senior) costretto a interrompere una vacanza e a rinunciare all’amata pesca. Nei giorni del fuoco perse la vita un solo essere umano. Per la caduta di un albero.

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