martedì 12 luglio 2016

GALLI DELLA LOGGIA DENUNCIA LA VIGLIACCHERIA DEL DOPO DACCA . FARA' LA FINE DELLA FALLACI ?

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Qualche giorno fa era stato il bravo Giovanni Belardelli, un liberale di razza, a ricordare come nel problema terroristico la componente religiosa c'entrava eccome (http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2016/07/convincersi-della-natura.html) .
Ieri sull'argomento è tornato Galli della Loggia, biasimando la narrazione progressista (chissà quanto dettata da una qual certa pavidità) successiva ai drammatici fatti di Dacca. Alle solite, la difesa dell' Islam "vero" da quello falsamente strumentalizzato da Isis e aficianados.
Se fai notare che la strumentalizzazione è estremamente favorita dal testo letterale del Corano, ti dicono che lo stesso va contestualizzato, il che potrebbe andar bene con due obiezioni :
1) chi la fa questa contestualizzazione ? ogni Imam può interpretare i versetti a modo suo, non essendoci alcuna autorità centrale superiore e riconosciuta (come è il Papa romano, per i cattolici).
2) Resta che il libro sacro dei musulmani ha questo tipo di testi, laddove il Vangelo, anche per questo autenticamente rivoluzionario ai tempi e dopo, NO.
Chiudo con una cosa su cui mi ha fatto riflettere l'amica Barbara Alessandrini, preziosa referente de L'Opinione : per la vittima di un balordo da strada, uso alla violenza da stadio condita con frasi razziste, si è scomodata la Boldrini e qualche altro esponente politico di quella razza. Per i nostri morti, torturati dai terroristi perché ignari del Corano, lo Stato ha tenuto un basso profilo, sempre impegnato, come detto, a non urtare le sensibilità altrui.
Le nostre, di italiani normali, possono attendere.
Chissà se Galli della Loggia farà la fine della Fallaci.




Le parole che l’islam non dice

di Ernesto Galli della Loggia

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Chissà se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non potevano certo farsi illusioni.

Verso la memoria di quelle vittime però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità. Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi.
Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese, quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatamente dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è arrivata certamente a pensarlo.

Invece è andata proprio così. Anche questa volta è andata così. Per la strage di Dacca, come in tante altre occasioni da anni. E non certo solo da noi. Da anni infatti terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica occidentale si sente puntualmente ripetere che la loro religione non c’entra nulla.
Il più delle volte con l’argomento (evidentemente reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani, proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a che dividere.

Le cose stanno ben altrimenti. «I jihadisti — ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale — prendono a riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro rivelazione ma oggi non hanno più senso». Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad «avere senso» e quali invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della violenza?

Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto tale intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo nell’accusa di islamofobia — fa qualche differenza o no se nel testo fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento contro coloro che non credono?
Non ha significato forse proprio questo la possibilità nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto costantemente uno spazio di contraddizione, di obiezione nei confronti della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come sostengono gli instancabili promotori delle tante occasioni di «dialogo interreligioso» che si organizzano dovunque tranne però, chissà perché, nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significato ben diversi.

In realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema specifico tutto suo con la violenza.
Ne è prova non piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigurazione simbolica avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il sacrificio del primogenito richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo, la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da impedire di credere che essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal potentissimo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti. Così come ancora oggi — per menzionare un altro ambito fondamentale — l’ambiente familiare islamico appare dominato da un tratto gerarchico-comunitario e da un’arcaica fissità di ruoli maschile e femminile, l’uno e l’altro ispirati dai precetti religiosi. Ora, sarà pure tutto ciò fonte preziosa di protezione e solidarietà per l’individuo, sarà pure benefico elemento di coesione del gruppo, ma di certo una tale struttura familiare sembra fatta apposta per essere una continua palestra di costrizione, di repressione e alla fine di violenza. Non è davvero singolare — almeno all’apparenza e a quel che è dato di sapere: ma in caso contrario perché non ci è dato di sapere? — che le banali osservazioni appena fatte non siano oggetto di alcuna discussione nelle società islamiche, che di fronte a ciò che sta accadendo non ci si chieda se per caso la tradizione religiosa, sia pure al di là di ogni sua intenzione, non sia implicata per qualche verso nei comportamenti di non pochi dei suoi adepti? Come mai i processi di analisi storico-culturale che si sono così largamente sviluppati nei Paesi cristiani e altrove, nel mondo islamico invece sembrano non avere alcun corso, almeno pubblico? Che cos’è che lo impedisce?
Perché ancora oggi nei Paesi islamici non si traduce quasi nulla della letteratura scientifica mondiale riguardante la società, la religione, la psiche, il sesso, la storia? Perché questa ferrea cortina d’ignoranza calata sul futuro di quei popoli?

Con queste e analoghe domande, se volessimo realmente onorare i morti di Dacca, non dovremmo stancarci di incalzare il mondo islamico. Ripetutamente, insistentemente, ogni volta che chiunque prenda la parola in qualche modo a suo nome.

Così come, per parlare infine di politica, dovremmo una buona volta porre anche il problema dell’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita è il vero cuore della violenza terroristica islamista perché ne è di gran lunga il maggiore finanziatore. Da anni tutti gli osservatori lo dicono e lo scrivono, sicché la cosa è in pratica di dominio pubblico. I soldi per le armi e le bombe destinati a seminare strage da Bombay a Parigi vengono quasi sempre da Riad. Ma egualmente da Riad proviene il fiume di soldi con cui negli ultimi decenni l’élite saudita ha acquistato in mezzo mondo (ma di preferenza in Occidente, naturalmente) partecipazioni azionarie, interi quartieri residenziali, proprietà e attività di ogni tipo. Trascurando nel modo più assoluto qualunque solidarietà islamica — ai disperati, spessissimo musulmani, che ogni giorno tentano la traversata del Mediterraneo, da loro non è mai arrivato un centesimo — ma curandosi solo di arricchirsi sempre di più e di mutare a proprio favore la bilancia del potere economico mondiale.

Ma perché, mi chiedo, non si possono immaginare nei confronti dell’Arabia Saudita e dei suoi dirigenti misure di sanzione, diciamo pure di rappresaglia, volte a colpire gli interessi di cui sopra? Proprio l’idea che agli occidentali interessi più il denaro di qualsiasi altra cosa è tra le cause di quel disprezzo culturale che ha non poco a che fare con lo scatenamento della violenza specialmente contro di essi. Quale migliore occasione, allora, per dimostrare che le cose non stanno proprio così, che ci sono anche per noi cose più importanti del denaro?

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