mercoledì 31 agosto 2016

MA COS'E' IL POPULISMO ? IL CONTRIBUTO DI LUCA RICOLFI

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Tornato dalle vacanze, sono andato a controllare se anche Ricolfi avesse finito le sue - era un po' che non lo trovavo sul Sole 24 ore - e sono stato premiato.
Quella che segue è una riflessione sul Populismo, cosa significhi questa parola, le ragioni del suo successo, che ritengo assolutamente da leggere.
Per esempio, trovo interessante il rilievo che l'acuto professore fa in merito al fatto che il Populismo sia nato molto prima delle due cause che generalmente vengono indicate come generatrici principali del fenomeno : crisi economica e immigrazione incontrollata. Non c'è dubbio che questi due elementi abbiano dato e diano un contributo potente, però resta che anche in paesi dove essi sono meno avvertibili, il populismo attecchisce ugualmente : vengono fatti gli esempi di Svizzera e Norvegia, in Europa (entrambi non sono paesi UE, e, per inciso, non mi sembra soffrano particolarmente...) , o dell'America dove è scoppiato il fenomeno Trump.  Ci deve essere qualcosìaltro, riflette Ricolfi, e ipotizza altri due fattori : globalizzazione, con una concorrenza spietata, proveniente da paesi non zavorrati dai costi enormi del welfare e delle tutele sindacali ( al netto degli eccessi, purtroppo diventati esorbitanti, si tratta di giuste tutele, ma indubbiamente costose, con i vantaggi che sappiamo per le economie emergenti, cinesi in testa), che ha fatto pesantemente arretrare le condizioni delle classi medie e il loro potere d'acquisto, e la crescente nausea per la retorica politically correct.
Gli americani che vivono a New York, che leggono il NY Times, o il Washington Post, NON SONO l'America, ma una parte, importante ed influente ma non numerosa, della stessa. Per loro Trump è un folle e non comprendono come solo sia stato mai possibile che lo "scorrettissimo" miliardario partecipi alla corsa per la presidenza. Eppure è così, e se Hillary Clinton non sta attenta, e non convince non l'elettorato progressista, i liberal, che la voteranno compatti ma che non bastano per vincere - nemmeno si avvicinano - ma quello afro e ispano americano (i voti che hanno eletto Obama, per intenderci) , potrebbero uscire amarissime sorprese.
Buona Lettura



Il vento populista che soffia sul mondo




Di populismo e di partiti populisti si è ricominciato a parlare, in Europa, circa 30 anni fa, allorché Jean Marie Le Pen, un deputato che proveniva dal movimento di Poujade, scosse la Francia con i successi del suo Front National, capace di raccogliere l’11,2% del consenso dell’elettorato francese alle elezioni europee del 1984. Da allora i partiti populisti o descritti come tali si sono moltiplicati sulla scena europea, attecchendo nelle realtà più diverse, dal felice e civilissimo nord scandinavo giù giù fino ai paesi mediterranei, dai paesi dell’Europa occidentale a quelli dell’Europa orientale. Così il populismo è diventato uno dei fenomeni più attentamente monitorati dai media e uno dei temi più aspramente dibattuti dagli studiosi di scienza politica.
Quello del populismo, tuttavia, rimane uno dei grandi puzzle irrisolti delle scienze sociali. Non vi è accordo, infatti, né sulla definizione del fenomeno (che cosa è il populismo?) né sulla sua spiegazione (perché si è diffuso il populismo?).
Alcuni studiosi si ostinano a riservare l’etichetta populista ai soli movimenti di destra, con la curiosa conseguenza per cui l’italiano Movimento Cinque Stelle non sarebbe populista. Altri usano il termine in modo più ampio, fino ad includervi i movimenti radicali anti-austerity, tipo Podemos (Spagna) o Syriza (Grecia). Altri vedono tratti populisti ogniqualvolta il “racconto” di un partito o movimento poggia sulla contrapposizione fra la grande maggioranza del popolo e l’establishment politico-finanziario.
Una sola cosa appare relativamente certa: comunque decidiamo di fissare i confini del populismo, sta il fatto che le sue manifestazioni si sono moltiplicate negli ultimi anni. Nel Parlamento europeo, ad esempio, il peso dei partiti nettamente euro-critici o euro-scettici è quasi raddoppiato fra il 2009 e il 2014, passando dal 16,1 al 28,1%. E il peso dei partiti classici, di destra, sinistra e centro, è sceso, per la prima volta da quando esiste il Parlamento Europeo, sotto la soglia del 70%.
Ma il segno più chiaro della forza delle istanze populiste lo hanno dato due eventi successivi alle elezioni del 2014, entrambi avvenuti pochi mesi fa.
Alle elezioni presidenziali austriache (maggio 2016) la metà dei cittadini ha scelto il candidato populista Norbert Hofer, proveniente dal medesimo partito di Haider, di orientamenti xenofobi e nazionalisti. Le elezioni saranno ripetute a ottobre a causa delle molte irregolarità riscontrate ma, comunque vadano, resta il fatto che metà degli austriaci non ha avuto problemi a votare un candidato come Hofer, e nessuno dei due grandi partiti tradizionali austriaci (socialisti e popolari) è riuscito ad arrivare al ballottaggio (lo sfidante di Hofer è stato espresso dal piccolo partito dei Verdi).
L’altro evento che ha mostrato plasticamente la forza del vento populista è stato il referendum britannico sulla permanenza in Europa. La vittoria della Brexit ha mostrato in modo inoppugnabile che anche in un paese di tradizioni liberali, anzi in un paese che è stato la culla del liberalismo, le istanze nazionaliste e xenofobe possono oggi avere un seguito straordinario, impensabile anche solo qualche anno fa.
Perché?
Qui i pareri si dividono.
Le risposte più frequenti richiamano l’attenzione sulle due debolezze fondamentali della Ue: la sua incapacità di governare la crisi economica, la sua incapacità di fronteggiare l’ondata migratoria. La prima spiegazione è la più gettonata a sinistra, e punta il dito contro le politiche di austerità; la seconda è la più gettonata a destra, e punta il dito contro le politiche di accoglienza. Così, comunque la si rigiri, resta il fatto che sul banco degli accusati salgono l’Europa, le sue istituzioni (Commissione e Consiglio), la sua Banca Centrale.
Questa lettura dell’esplosione dei movimenti populisti non è del tutto priva di fondamento. L’analisi statistica, sempre difficilissima quando si hanno a disposizione poche osservazioni (i paesi dell’Unione), fornisce un certo supporto a questa lettura. Se, ad esempio, come indicatore di forza dei movimenti populisti prendiamo l’aumento del consenso ai raggruppamenti anti-Europa nel Parlamento Europeo fra il 2009 e il 2014, effettivamente troviamo che il cocktail “gravità della crisi + paura dello straniero” risulta una determinante fondamentale dell’avanzata dei movimenti populisti. Vista con queste lenti, la marea populista appare, innanzitutto, figlia della crisi, delle politiche di austerità, e più in generale delle inadeguatezze delle élite che governano l’Europa.
E tuttavia ci sono molte cose che, in questa spiegazione, non funzionano.
La prima è che il populismo è cominciato a proliferare in Europa fin dalla metà degli anni ’80, ossia più di 20 anni prima della crisi. La seconda è che i movimenti populisti, sia prima sia durante la crisi, hanno riportato grandi successi in due paesi, la Svizzera e la Norvegia, che sono sempre rimasti al di fuori dell’Unione Europea.
Il Partito del Progresso norvegese, una formazione nettamente xenofoba, è nato nel 1973, e alle elezioni nazionali del 2005 è diventato la seconda forza politica del paese. Quanto alla Svizzera, un partito come l’UDC (Unione Democratica di Centro) è diventato una forza populista da almeno un quarto di secolo, ossia dai tempi (1992) della campagna contro l’adesione allo spazio economico europeo. Svizzera e Norvegia sono del tutto libere dal detestato giogo europeo, sia in materia economico-sociale sia in materia di immigrazione. Dopo il piccolo Lussemburgo, sono i due paesi più ricchi del mondo occidentale. La crisi li ha appena sfiorati e l’Europa non ha interferito. Almeno lì, il populismo deve avere altre radici.
Ma la prova regina dell’inadeguatezza delle spiegazioni che considerano l’Europa e le sue classi dirigenti responsabili uniche, o principali, dell’avanzata dei movimenti populisti sta oltre Oceano, negli Stati Uniti d’America. Lì c’è un candidato alla Presidenza, Donald Trump, che incontra le simpatie di vasti settori dell’opinione pubblica (al punto che nessuno ne esclude la sua elezione a Presidente), e sul cui populismo nessuno ha dubbi.
Che ci azzecca l’Europa con il successo di Trump? Che cosa c’entrano le politiche di austerità, visto che Obama ha fatto tutto il contrario, inondando l’economia americana di dollari e (quasi) raddoppiando il debito pubblico?
Se si vuole capire il populismo, anche quello europeo, sono queste le domande cui si deve provare a rispondere. Perché se riusciamo a capire che cosa sta succedendo in America, probabilmente riusciremo a capire meglio anche che cosa sta succedendo o potrebbe succedere a casa nostra.
A me pare che, ridotta ai suoi minimi termini, la storia sia questa. Fino al 2008, anno della elezione di Obama ma anche anno del fallimento di Lehman Brothers, nonostante gli economisti progressisti (alla Stiglitz) si fossero sforzati in tutti i modi di convincere gli americani che la crescita del reddito pro-capite della famiglia media si fosse ormai arrestata, e che solo l’1% degli straricchi fosse riuscito ad arricchirsi ancora di più, la gente non credeva a questo genere di diagnosi. E non ci credeva per il buon motivo che alla stagnazione del potere di acquisto si accompagnava una spettacolare corsa del valore degli immobili, che rendeva credibili speranze e illusioni della “società di proprietari”, ovvero l’idea – cara ai repubblicani di Bush figlio – che tutti potessero diventare possessori di ricchezza. Poi è arrivata la crisi, che ha fatto intendere agli americani che quelle erano appunto illusioni. Ma con la crisi è arrivato anche Obama, con il suo carico di promesse, solo in parte mantenute. Ed ecco che, a questo punto della storia, si fa avanti un signore – il suo nome è Trump, Donald Trump – che racconta un’altra storia.
Trump dice che dal 2000 il reddito della famiglia americana media è addirittura diminuito. E chi c’era negli ultimi anni? Obama… Dunque è tempo di voltare pagina, per riaccendere la speranza. Paradossale: solo ora che le usa Trump, le diagnosi catastrofistiche degli economisti progressisti, a suo tempo rivolte al cattivo Bush (e prima ancora Reagan), vengono prese sul serio dagli elettori americani. Che però le mettono in carico a Obama, ossia non a chi ha governato negli ultimi 15, 20, o 30 anni (più o meno metà per uno: democratici e repubblicani), ma all’ultimo della serie, l’uscente Obama.
La storia però non è tutta qui.
C’è anche il capitolo del politicamente scorretto. A metà degli americani il politicamente corretto dei benpensanti liberal, alla Hillary Clinton, è venuto a noia. Preferiscono il politicamente scorretto di Donald Trump (e di Clint Eastwood). Perché? Che cosa è successo?
Due cose, a quel che riesco a capire. La prima è che la globalizzazione ha lasciato indietro un sacco di gente, soprattutto nelle periferie e nelle campagne, in America come in Europa. La seconda è che, soprattutto in America, ma anche in diversi civilissimi paesi del Nord Europa, il politicamente corretto si è spinto un po’ troppo in là. Talora ha oltrepassato la barriera del ridicolo.
Quasi sempre ha oltrepassato quella del senso comune, del sentire della gente normale, che fatica a sbarcare il lunario, e i costi dell’accoglienza li paga in prima persona sotto forma di insicurezza e concorrenza sul mercato del lavoro.
Le due cose insieme, una globalizzazione che beneficia alcuni ma impoverisce altri, un’élite che si compiace dei propri buoni sentimenti e letteralmente non vede i drammi di chi è stato spazzato via dalla mondializzazione, hanno creato un mix esplosivo. Finché c’era la crescita, il gioco era a somma positiva: potevi anche pensare che i miglioramenti del vicino non fossero, necesariamente, peggioramenti tuoi.
Ora il gioco rischia di essere a somma zero: se qualcuno va avanti, dev’esserci per forza qualcun altro che va indietro. La gente lo ha capito, ma non perché qualche evento straordinario lo abbia suggerito, ma per il mero scorrere del tempo. Quindici anni non sono bastati a sconfiggere il terrorismo islamico (Torri gemelle, 2001), 10 anni non sono bastati a uscire dalla crisi (mutui subprime, 2007). Di qui la tentazione di ridurre l’interdipendenza con il resto del mondo, che l’isolazionismo di Trump intercetta perfettamente.
Di qui, anche, il fastidio per la cultura liberal e progressista, magistralmente impersonata da Hillary Clinton. Chi è baciato dai benefici della globalizzazione, soprattutto i ceti istruiti e metropolitani che vivono sulle due coste americane, possono a buon diritto baloccarsi con i problemi post-materialisti e post-moderni dei diritti civili, dei matrimoni gay, dell’integrazione delle minoranze, dell’accoglienza degli immigrati, della discriminazione linguistica. Ma per chi ha capito solo ora di non avere futuro, per gli abitanti del profondo sud e dell’America interna, il divario fra i loro problemi e quelli con che soli paiono interessare le élite e i “ceti medi riflessivi” (copyright Paul Ginsborg) è diventato troppo ampio. O troppo doloroso. Per questo non inorridiscono di fronte a Trump.

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