martedì 9 agosto 2016

NOZZE OMOSESSUALI SI', POLIGAMIA NO. QUANDO (SE) LA LIBERTA' DIVENTA DISCRIMINAZIONE

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Omosessualità sì, unioni civili, anzi, matrimoni tra gay, pure.  Però la poligamia no.
La libertà individuale, trionfante nei casi di omosessualità - e pazienza se per i figli delle coppie gay ancora le pronunce su costi e benefici siano alquanto ondivaghe (al momento gli psicologi propendono per un saldo positivo, mentre più negativi sembrano essere i pediatri, ma ovviamente ci sono eccezioni folte e motivate in entrambi gli schieramenti) , prevalendo la tesi che ancora non ci sono studi scientifici validi ed approfonditi per una pronuncia ragionevolmente certa sul tema - cede alle ragioni della morale, travestita da anti discriminazione, nel caso di matrimoni con più spose ( o più mariti, anche se nelle società dove la poligamia si applica non ve ne sono esempi).
Luigi Manconi, sul Corriere della Sera, ci spiega che qualcosa della tradizione va salvaguardato ed è il numero DUE ( mo' non stiamo a guardare che nella realtà , specie occidentale, gli apporti "esterni" accompagnano non piccola parte del sodalizio coniugale, quando proprio non lo fanno esplodere).
Magari Gay, però due.
E non c'è consenso adulto che tenga, o tradizione culturale diversa che spiegherebbe l'arcano.
Non si può, perché sicuramente , in questo modo, si consumerebbe una discriminazione contro le donne.  Ma se vale il reciproco (una donna sposata con più uomini ) ? Manconi non ci casca, ben sapendo che l'argomento è sofistico, visto che la cosa non si realizza (finora, non bisogna disperare ; visto con i toy boy come vanno forte le signore, recuperando il gap che vuole i maschi concedersi il lusso di compagna assai più giovani ?) , e continua a battere sul tasto discriminatorio, parlando addirittura di diritti "non disponibili" e tirando in ballo niente meno che la schiavitù.
Dopodiché però gli tocca citare un caso nel quale i giudici amministrativi hanno dato il loro placet ad una situazione di fatto, legittimando il ricongiungimento familiare di DUE moglie al loro consorte. SI tratta evidentemente di musulmani, e anche di poligami, cioè di gente che commette un reato.
Per la nostra legge. Per la loro no, e hanno dei figli.
Il TAR ha deciso di tollerare.
Quindi, agli aspiranti poligami italiani, suggerirei di :
1) convertirsi
2) andare in un paese arabo e sposarsi
3) Tornare in Italia senza mogli
4) chiedere il ricongiungimento
Trafila lunga, ma l'amore è un motore potente, che infatti ha sostenuto e motivato le coppie eterologhe, quelle che comprano neonati all'estero (uteri in affitto) e fingono di averli partoriti qui...
Insomma, non bisogna disperare.
L'onorevole Manconi, per quanto di aperte vedute, è comunque un uomo del ventesimo secolo, nel futuro, il fare come ci pare allargherà sempre di più i propri irrestringibili confini...

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La poligamia non può essere
un diritto civile in Italia

Avere più mogli crea una disparità discriminante tra i sessi che lede principi non alienabili neanche dai suoi titolari

 
 

  
Hamza Piccardo, voce assai ascoltata dell’Islam italiano, composto da molti stranieri e da un numero significativo di nostri connazionali diventati musulmani, ha affermato: «Se è solo una questione di diritti civili, ebbene la poligamia è un diritto civile». E ancora: «non si capisce perché una relazione tra adulti edotti e consenzienti possa essere vietata, di più, stigmatizzata, di più, aborrita». Piccardo sbaglia di grosso, sin dalla premessa: la poligamia non è affatto «una questione di diritti civili». La poligamia, per contenuto morale e per struttura del vincolo, si fonda — e non può che fondarsi — su una condizione di disparità, che viene riprodotta e perpetuata. Comunque la si voglia argomentare e manipolare fino a immaginare il suo rovesciamento speculare (più uomini sposati con una sola donna), si tratta in ogni caso di un rapporto fondato su uno stato di diseguaglianza. Piccardo, che non è uno sprovveduto, ritiene che quella condizione diseguale possa essere sanata dal fatto che essa sia consapevolmente accettata e condivisa da adulti consenzienti. Ma è proprio qui che il ragionamento mostra tutta la sua debolezza.

La parità tra i sessi e la tutela della dignità contro ogni discriminazione, costituiscono un diritto fondamentale della persona, che è (proprio per questo) non disponibile. Ovvero, un diritto non alienabile (e non limitabile, modificabile o cedibile) persino da parte del suo stesso titolare. Un diritto, cioè, sottratto ad ogni potere dispositivo: fosse anche quello del suo stesso beneficiario. Ed è il medesimo principio che non consente il lavoro schiavistico o il commercio degli organi o ogni altra forma di degradazione della dignità personale, anche qualora vi fosse il consenso dei diretti interessati (consenso che, non a caso, per tali reati non esclude la punibilità).




Questa discussione è di cruciale importanza perché consente di tracciare un discrimine limpido tra quanto — delle tradizioni, delle confessioni e delle culture di diversa origine — è accettabile all’interno del nostro ordinamento giuridico e della nostra vita sociale e quanto, al contrario, deve essere rifiutato. Personalmente, sono favorevole alla più ampia capacità di accoglienza e inclusione di stili di vita e forme di relazione, di riti religiosi e costumi culturali i più diversi, ma con il limite insuperabile rappresentato dalla intangibilità dei diritti fondamentali. Di conseguenza, il relativismo culturale, che è manifestazione propria di una concezione liberale della società, non può accettare l’esclusione delle ragazze dall’istruzione scolastica o la loro subordinazione ai maschi, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili (peraltro non esclusivamente né principalmente derivate da una lettura del Corano). In quest’ultimo caso, è chiaro che la tradizione religiosa o etnica non può in alcun modo compromettere l’affermazione del diritto umano alla piena integrità fisica. Poi, evidentemente, si tratta di combinare tali irrinunciabili valori, protetti giuridicamente, con intelligenti politiche pubbliche. È un’impresa ardua, assai ardua, ma va tentata. E non si tratta nemmeno di una novità.
Nel lontano 1987 Lehsen Bouzid, operaio marocchino di un’azienda di Anzola Emilia, fa giungere in Italia — in virtù del ricongiungimento familiare previsto dalla legge — le sue due mogli, dalle quali aveva avuto numerosi figli. Il ministero dell’Interno respinge la domanda di «permesso di soggiorno per motivi di famiglia»: ma il ricorso al Tar consente infine alle due donne di risiedere in Italia in ragione della «gravità e irreparabilità sotto l’aspetto sociale, economico e familiare» del caso considerato, accogliendo la tesi dell’avvocato. Ovvero che non si trattasse di ottenere dallo Stato italiano «un riconoscimento formale e giuridico della condizione familiare delle ricorrenti, bensì semplicemente una non discriminazione». E ciò in virtù degli articoli della Costituzione italiana che tutelano «le confessioni religiose diverse dalla cattolica» e le forme di relazione e le strutture giuridiche che ne conseguono. Si può dire che, in sostanza, la decisione del Tar ha affermato la prevalenza del valore dell’unità del nucleo familiare rispetto alla norma penale italiana che vieta la bigamia. Insomma, il Tar non riconosce, certo, un disvalore, come quello insito nella poligamia, ma si limita a porre rimedio a uno stato di necessità, secondo il principio del «male minore» (la tutela di tutti i figli di quella relazione poligamica). Ma, sia chiaro, si tratta di una soluzione, pure opportuna in quel caso, che lungi dal risolvere definitivamente il problema, ne rivela la drammatica complessità. A conferma del fatto che la convivenza tra etnie confessioni e culture, non solo inevitabile ma potenzialmente assai remunerativa sotto tutti i profili, può essere assai faticosa.

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