venerdì 28 ottobre 2016

SI AVVICINA L'ELECTION DAY AMERICANO. FUGNOLI "VEDE" IL DOPO VOTO

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Mancano ormai pochi giorni all'Election Day del nuovo presidente americano. In passato seguivo con grande interesse le elezioni, un po' perché mi appassionava un sistema imperfetto ma diretto nella scelta del "comandante in capo", e poi parlavamo del leader della Nazione più forte dell'Occidente, ai tempi della guerra fredda (adesso sta tornando un po' fresca, grazie all' "intraprendenza" di Putin ma anche a certe leggerezze yankee).
Ho esultato per l'elezione di Reagan, non mi è dispiaciuto Clinton, ancorché trovai ingiusta la mancata rielezione di Bush padre, non sono stato tra gli esaltati obamisti, oggi per lo più delusi.
Queste elezioni però proprio non mi prendono. Il candidato pseudo repubblicano - pseudo perché il suo stesso partito pare sconfessarlo - è francamente soggetto di cui non mi fiderei, e poi, da europeo, decisamente troppo protezionista e pure simpatizzante dell' orso russo !  Certo, dire che la Clinton, quasi settantenne, algida e frigida, scaldi i cuori... Però è una tosta, e se i problemi di salute, che evidentemente ha, sono gestibili, credo sarà un osso duro per tanti, dopo le tante incertezze obamiane.
Di seguito, l'analisi del dopo-voto, soprattutto in funzione economica finanziaria, da parte del bravo Alessandro Fugnoli, che opportunamente ci spiega anche come funzionano un po' i sondaggi...
Buona Lettura




DIECI GIORNI

  

Mare mosso in arrivo

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Le leggi, diceva Churchill, sono come le salsicce, è meglio non sapere come vengono prodotte. Anche i sondaggi di opinione non sono sempre prodotti genuini. Il sondaggista, che ha un’azienda da mandare avanti, è portato a produrre un risultato che piaccia al committente, che così lo sceglierà di nuovo la prossima volta.

Ed ecco che tutti i sondaggi commissionati dalle grandi testate americane, tutte clintoniane, danno la Clinton già comodamente insediata alla Casa Bianca, mentre quelli commissionati dai siti trumpiani e da Fox danno a Trump qualche possibilità. Non sappiamo se ad essere poco oggettivi siano gli uni, gli altri o tutti quanti. Quello che sappiamo è che è quasi impossibile essere oggettivi quando si deve indovinare se chi dice che andrà a votare ci andrà sul serio o se chi dice di essere indeciso pende più da una parte o dall’altra.

In America tutto è poi reso più complicato dal fatto che, per votare, bisogna prima registrarsi come repubblicano, democratico o indipendente, salvo il diritto di cambiare poi idea all’ultimo momento. Molti sondaggisti, quando costruiscono il campione degli intervistati (in genere un migliaio su più di 200 milioni di potenziali elettori) partono dagli elettori già registrati, ma in alcuni stati ci si può registrare anche nel giorno del voto. In una situazione fluida, in cui la dispersione e la volatilità dei sondaggi sono sui massimi storici (ieri sono usciti contemporaneamente un +14 per la Clinton e un +1 per Trump) e in cui il voto popolare (one man one vote) assomiglia solo vagamente al voto elettorale finale, maggioritario su base statale (winner takes all), è bene prendere tutto con prudenza. È anche lecito pensare che ci siano ancora scandali tenuti nel cassetto che potrebbero essere tirati fuori e fatti esplodere contro l’avversario negli ultimissimi giorni, in modo da mandare tutti a votare sull’onda dell’emotività.

I mercati, tranquilli come se si dovesse votare per il rinnovo dei consigli scolastici di una contea sperduta, hanno abbracciato lo scenario della continuità, ovvero dello sbadiglio, con Clinton presidente al posto di Obama e almeno un ramo del Congresso ancora sotto controllo repubblicano. Non solo non c’è nessun premio per il rischio rappresentato dai due scenari di coda (Trump presidente o Clinton che conquista anche il Congresso) ma non c’è nemmeno la considerazione che l’America, nei prossimi anni, attraverserà comunque una mutazione genetica.

Più o meno ogni mezzo secolo l’America cambia pelle. È successo dopo la guerra civile, con il New Deal e poi ancora nel 1963. Dopo la guerra civile si impose vincitrice la coalizione repubblicana degli industriali del nord e delle campagne del Midwest. La Grande Depressione segnò la fine di questa egemonia e l’emergere della coalizione rooseveltiana dei vinti, dei non protetti e dei poveri (il sud bianco e nero, la classe operaia sindacalizzata, i cattolici irlandesi, polacchi e italiani, gli ebrei). La coalizione del New Deal aveva la sua origine lontana in Tammany Hall, il partito-macchina che praticava il voto di scambio promuovendo a stato (polizia, pompieri) le bande irregolari degli immigrati (si riveda Gangs of New York di Scorsese, splendido sunto di storia politica americana), ma ci aggiungeva una buona dose di anticapitalismo.

Ancora con Eisenhower (il repubblicano conservatore che lasciò intatto il welfare) e Kennedy l’America era culturalmente abbastanza omogenea. Poi, nel 1963 (si legga Coming Apart di Murray), il paese inizia a spaccarsi non più su linee economiche e di classe ma culturali (diritti civili, senso della famiglia, aborto, secolarismo, identità nazionale, distacco tra elites e popolo) e la frattura diventa sempre più evidente fino ai giorni nostri.

Con le presidenziali di quest’anno si intravede all’orizzonte una nuova America in cui i perdenti (gli evangelici che hanno ormai perso la guerra culturale contro il secolarismo, la classe operaia, i ceti medi bianchi supertassati, l’America jacksoniana e individualista del Secondo Emendamento) si rifugiano in un partito repubblicano (da cui si sono ormai distaccate le elites) destinato a rimanere minoritario ma che sta faticosamente ritrovando un’identità. Dall’altra parte si intravede un partito democratico che punta a diventare partito unico della nazione con una coalizione in apparenza simile a quella del New Deal, ma in realtà profondamente diversa. Oggi infatti il big business (in particolare Silicon Valley e la Los Angeles dei media) e la finanza, al contrario degli anni Trenta, sono parte decisiva della coalizione democratica, che ha invece lasciato per strada gli operai (sostituiti con gli statali) e il sud jeffersoniano e jacksoniano.

Accanto a big business e statali sono naturalmente rimaste le minoranze etniche, presto maggioranze, cui nei prossimi anni si aggiungeranno i musulmani, che già Obama ha deciso di non conteggiare più come bianchi (in modo da indebolire ulteriormente questi ultimi) ma come mediorientali. In mezzo, terra di confine e di scontro tra repubblicani e democratici, le aree suburbane delle metropoli, un’area di conflitto ideologico ancor prima che economico.

Che interessi hanno in comune il big business, gli statali, i secolaristi e gli immigrati? Due cose, ovvero il big government e le frontiere spalancate. Su queste due strade agirà la Clinton ancora più di Obama. Una sconfitta di Trump (salvo sorprese) costituirà una sconfitta storica forse irreversibile per la coalizione repubblicana, ma non per questo la Clinton avrà vita facile a tenere insieme a lungo forze così eterogenee. Se ci riuscirà, sarà al prezzo di più sussidi, più welfare e più tasse (non per le imprese ma per le persone fisiche).

Se la meteora di Trump precipiterà con la stessa velocità con cui si è levata in volo il Congresso repubblicano uscirà ulteriormente diviso e indebolito e non sarà difficile, per la Clinton, conquistare qualche voto che permetta di spostare maggioranze e fare passare leggi di spesa. Il tutto, come si vede, porterà a un serio aumento del disavanzo. Di solito, in presenza di una politica fiscale espansiva, le banche centrali diventano più restrittive (guai per i bond). Se però la Yellen continuerà a fare passare la sua linea espansiva avremo una curva più ripida (di nuovo guai per i bond) e un dollaro più debole.

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