Mancano ormai pochi giorni all'Election Day del nuovo presidente americano. In passato seguivo con grande interesse le elezioni, un po' perché mi appassionava un sistema imperfetto ma diretto nella scelta del "comandante in capo", e poi parlavamo del leader della Nazione più forte dell'Occidente, ai tempi della guerra fredda (adesso sta tornando un po' fresca, grazie all' "intraprendenza" di Putin ma anche a certe leggerezze yankee).
Ho esultato per l'elezione di Reagan, non mi è dispiaciuto Clinton, ancorché trovai ingiusta la mancata rielezione di Bush padre, non sono stato tra gli esaltati obamisti, oggi per lo più delusi.
Queste elezioni però proprio non mi prendono. Il candidato pseudo repubblicano - pseudo perché il suo stesso partito pare sconfessarlo - è francamente soggetto di cui non mi fiderei, e poi, da europeo, decisamente troppo protezionista e pure simpatizzante dell' orso russo ! Certo, dire che la Clinton, quasi settantenne, algida e frigida, scaldi i cuori... Però è una tosta, e se i problemi di salute, che evidentemente ha, sono gestibili, credo sarà un osso duro per tanti, dopo le tante incertezze obamiane.
Di seguito, l'analisi del dopo-voto, soprattutto in funzione economica finanziaria, da parte del bravo Alessandro Fugnoli, che opportunamente ci spiega anche come funzionano un po' i sondaggi...
Buona Lettura
DIECI GIORNI
Mare mosso in arrivo
Le leggi, diceva Churchill, sono come le salsicce, è meglio
non sapere come vengono prodotte. Anche i sondaggi di opinione non sono sempre
prodotti genuini. Il sondaggista, che ha un’azienda da mandare avanti, è
portato a produrre un risultato che piaccia al committente, che così lo
sceglierà di nuovo la prossima volta.
Ed ecco che tutti i sondaggi commissionati dalle grandi
testate americane, tutte clintoniane, danno la Clinton già comodamente
insediata alla Casa Bianca, mentre quelli commissionati dai siti trumpiani e da
Fox danno a Trump qualche possibilità. Non sappiamo se ad essere poco oggettivi
siano gli uni, gli altri o tutti quanti. Quello che sappiamo è che è quasi
impossibile essere oggettivi quando si deve indovinare se chi dice che andrà a
votare ci andrà sul serio o se chi dice di essere indeciso pende più da una
parte o dall’altra.
In America tutto è poi reso più complicato dal fatto che, per
votare, bisogna prima registrarsi come repubblicano, democratico o
indipendente, salvo il diritto di cambiare poi idea all’ultimo momento. Molti
sondaggisti, quando costruiscono il campione degli intervistati (in genere un
migliaio su più di 200 milioni di potenziali elettori) partono dagli elettori
già registrati, ma in alcuni stati ci si può registrare anche nel giorno del
voto. In una situazione fluida, in cui la dispersione e la volatilità dei
sondaggi sono sui massimi storici (ieri sono usciti contemporaneamente un +14
per la Clinton
e un +1 per Trump) e in cui il voto popolare (one man one vote) assomiglia solo
vagamente al voto elettorale finale, maggioritario su base statale (winner
takes all), è bene prendere tutto con prudenza. È anche lecito pensare che ci
siano ancora scandali tenuti nel cassetto che potrebbero essere tirati fuori e
fatti esplodere contro l’avversario negli ultimissimi giorni, in modo da
mandare tutti a votare sull’onda dell’emotività.
I mercati, tranquilli come se si dovesse votare per il
rinnovo dei consigli scolastici di una contea sperduta, hanno abbracciato lo
scenario della continuità, ovvero dello sbadiglio, con Clinton presidente al posto
di Obama e almeno un ramo del Congresso ancora sotto controllo repubblicano.
Non solo non c’è nessun premio per il rischio rappresentato dai due scenari di
coda (Trump presidente o Clinton che conquista anche il Congresso) ma non c’è
nemmeno la considerazione che l’America, nei prossimi anni, attraverserà
comunque una mutazione genetica.
Più o meno ogni mezzo secolo l’America cambia pelle. È
successo dopo la guerra civile, con il New Deal e poi ancora nel 1963. Dopo la
guerra civile si impose vincitrice la coalizione repubblicana degli industriali
del nord e delle campagne del Midwest. La Grande Depressione
segnò la fine di questa egemonia e l’emergere della coalizione rooseveltiana
dei vinti, dei non protetti e dei poveri (il sud bianco e nero, la classe
operaia sindacalizzata, i cattolici irlandesi, polacchi e italiani, gli ebrei).
La coalizione del New Deal aveva la sua origine lontana in Tammany Hall, il
partito-macchina che praticava il voto di scambio promuovendo a stato (polizia,
pompieri) le bande irregolari degli immigrati (si riveda Gangs of New York di
Scorsese, splendido sunto di storia politica americana), ma ci aggiungeva una
buona dose di anticapitalismo.
Ancora con Eisenhower (il repubblicano conservatore che
lasciò intatto il welfare) e Kennedy l’America era culturalmente abbastanza
omogenea. Poi, nel 1963 (si legga Coming Apart di Murray), il paese inizia a
spaccarsi non più su linee economiche e di classe ma culturali (diritti civili,
senso della famiglia, aborto, secolarismo, identità nazionale, distacco tra
elites e popolo) e la frattura diventa sempre più evidente fino ai giorni
nostri.
Con le presidenziali di quest’anno si intravede all’orizzonte
una nuova America in cui i perdenti (gli evangelici che hanno ormai perso la
guerra culturale contro il secolarismo, la classe operaia, i ceti medi bianchi
supertassati, l’America jacksoniana e individualista del Secondo Emendamento)
si rifugiano in un partito repubblicano (da cui si sono ormai distaccate le
elites) destinato a rimanere minoritario ma che sta faticosamente ritrovando
un’identità. Dall’altra parte si intravede un partito democratico che punta a
diventare partito unico della nazione con una coalizione in apparenza simile a
quella del New Deal, ma in realtà profondamente diversa. Oggi infatti il big
business (in particolare Silicon Valley e la Los Angeles dei media)
e la finanza, al contrario degli anni Trenta, sono parte decisiva della
coalizione democratica, che ha invece lasciato per strada gli operai
(sostituiti con gli statali) e il sud jeffersoniano e jacksoniano.
Accanto a big business e statali sono naturalmente rimaste le
minoranze etniche, presto maggioranze, cui nei prossimi anni si aggiungeranno i
musulmani, che già Obama ha deciso di non conteggiare più come bianchi (in modo
da indebolire ulteriormente questi ultimi) ma come mediorientali. In mezzo,
terra di confine e di scontro tra repubblicani e democratici, le aree suburbane
delle metropoli, un’area di conflitto ideologico ancor prima che economico.
Che interessi hanno in comune il big business, gli statali, i
secolaristi e gli immigrati? Due cose, ovvero il big government e le frontiere
spalancate. Su queste due strade agirà la Clinton ancora più di Obama. Una sconfitta di
Trump (salvo sorprese) costituirà una sconfitta storica forse irreversibile per
la coalizione repubblicana, ma non per questo la Clinton avrà vita facile a
tenere insieme a lungo forze così eterogenee. Se ci riuscirà, sarà al prezzo di
più sussidi, più welfare e più tasse (non per le imprese ma per le persone
fisiche).
Se la meteora di Trump
precipiterà con la stessa velocità con cui si è levata in volo il Congresso
repubblicano uscirà ulteriormente diviso e indebolito e non sarà difficile, per
la Clinton ,
conquistare qualche voto che permetta di spostare maggioranze e fare passare
leggi di spesa. Il tutto, come si vede, porterà a un serio aumento del
disavanzo. Di solito, in presenza di una politica fiscale espansiva, le banche
centrali diventano più restrittive (guai per i bond). Se però la Yellen continuerà a fare
passare la sua linea espansiva avremo una curva più ripida (di nuovo guai per i
bond) e un dollaro più debole.
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