venerdì 4 novembre 2016

I MALUMORI DEI MERCATI FINANZIARI PER LE ELEZIONI AMERICANE. CHIUNQUE VINCA, SARA' UN INSUCCESSO

Risultati immagini per sondaggi elezioni usa 2016

Mancano ormai pochissimi giorni all'election day americano, ed è sorprendente come un candidato così apparentemente avversato da tutto l'apparato mediatico, finanziario e politico - compreso il suo partito !! - sia dato dai sondaggi ancora come possibile vincitore, scatenando l'agitazione quando non il panico dei mercati.
Parlo di Donald Trump, visto come l'Anticristo, l'uomo della fine del mondo.
In effetti, difficile per un italiano, che s'informa tramite quotidiani e tv TUTTE schierate esplicitamente per la Clinton, non condividere la preoccupazione per l'improbabile - ma possibile ! - evento, e confidare quindi che, dopo il nero pallido obamiano, alla Casa Bianca si registri un altro inedito : la prima presidentessa.
Sarà sempre il male minore, pensiamo quasi tutti.
A volte i presidenti imparano ad essere tali mentre esercitano il loro ruolo. Accadde con Reagan - tuttora uno dei presidenti più popolari della storia americana, ed è successo anche con altri.
Ma non è una regola matematica. Con Bush Jr. per esempio non è avvenuto, e nemmeno con Obama, che ha fatto bene, mi sembra, in campo economico (e non era facile, visto che si è beccato il dopo Lehman Brother's ) ma molto meno (per alcuni disastroso) in politica estera, cosa non da poco per la guida dell' Occidente e comunque per una Nazione per la quale i rapporti internazionali hanno anche una rilevantissima pregnanza economica.
Insomma, scommettere su Trump come voto di protesta e di rottura rispetto alla troppa paludata e cinica Clinton , non sembra una buona idea e spero che gli americani non la seguiranno.
Ciò posto, ecco un secondo articolo di Alessandro Fugnoli che conferma l'umore non serenissimo del primo, il che è una novità per il bravo osservatore di cose finanziarie ma non solo.
MI pare evidente che il "nostro" sia scontento dell'alternativa cui si trova di fronte l'America, anche lui perplesso molto su Trump ma affatto entusiasta anche nei confronti della democratica.
I motivi che elenca, qui concentrati sugli aspetti economici finanziari, in effetti non sono brillanti.
Prima di lasciarvi alla lettura del suo intervento, un'ultima osservazione.  Vedremo questi ultimi due mesi come andranno, però è un dato di fatto, al momento, che le borse, dopo il panico pre estate, si siano riprese tanto che sono ai livelli, buoni, del 2015.
Fugnoli lo spiega dicendo che in fondo in USA, Cina ed Europa in generale le cose stanno andando bene, e magari sui macro numeri, e tenendo conto del recente passato, sarà vero.
Però, io italiano, questi miglioramenti NON li vedo. E se allargo lo sguardo all'Europa, ancorché quasi tutti (la Grecia no, e nemmeno il Portogallo credo) stiano meglio di noi, le difficoltà, quando non proprio sofferenze, sono diffuse, basta guardare ai cugini francesi, che non ne vogliono sapere di cambiare il loro Stato i cui costi sono da tempo non più sostenibili.
Eppure, nonostante questo, alla fine la Borsa di Milano riesce mediamente a performare sui livelli delle altre.
Sappiamo che, da tempo, l'andamento borsistico è piuttosto slegato da quello della cd. economia reale, ma questo non mi pare una buona cosa.
Sicuramente, se non altro, è motivo di incertezza e di  irrazionalità, a dispetto dei guru della finanza, degli algoritmi e delle altre alchimie a cui affidiamo i nostri risparmi.
Buona Lettura






IL BIVIO


Due strade, entrambe difficili

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Ci siamo annoiati per sette mesi (l’SP 500 è sugli stessi livelli di aprile, che poi sono gli stessi di tutto il 2015 con l’eccezione di agosto) ma per i prossimi mesi e forse anni lo spettacolo è assicurato. Da una parte le politiche monetarie stanno per lasciare il posto di comando alle politiche fiscali, dall’altra le politiche fiscali stesse stanno per essere governate da homines novi non collaudati (Trump e il nuovo Congresso) o, in alternativa, da un sistema che sarà paralizzato da una crisi costituzionale che si preannuncia di ampie proporzioni.
Come sempre, la strada che percorrerà l’America sarà alla fine la strada che dopo qualche tempo percorreremo anche noi in Europa. È stato così con le politiche monetarie, sarà così anche con quelle fiscali.
Quanto i mercati siano pronti a questi nuovi scenari lo vedremo già a partire dalla settimana prossima.

Cominciamo con la politica. Se la Clinton sarà presidente non lo sarà con un margine di consenso tale da portarsi con sé anche il Congresso. Ora è vero che il potere condiviso (esecutivo ai democratici e legislativo ai repubblicani) piace ai mercati, ma è altrettanto vero che, questa volta, i due poteri non si ignoreranno, come è stato negli ultimi anni, ma combatteranno aspramente tra loro. Le possibili irregolarità legate alla Clinton Foundation, oltre al già noto filone dei documenti classificati, hanno una probabilità elevata di tradursi in messa in accusa e, in prospettiva, in una procedura di impeachment da parte del Congresso.

Obama ha tempo fino a fine gennaio per concedere il perdono presidenziale alla Clinton. Se Trump vincerà le elezioni il perdono non sarà particolarmente controverso. Se a vincerle sarà invece la Clinton, il perdono da parte di un presidente uscente come Obama sarà estremamente impopolare. La prassi infatti è che sia il presidente entrante, appena legittimato dal voto popolare, a perdonare quello uscente, non il contrario. Ford perdonò il suo predecessore Nixon, così come Putin perdonò Eltsin in Russia. La Clinton, una volta presidente, potrebbe anche perdonare se stessa, ma è facile immaginare il prezzo politico che si troverebbe a dover pagare. 

La vittoria di Trump, d’altro canto, aprirebbe una pagina certamente nuova, ma piena di incognite. C’è il precedente di Reagan, che vinse le elezioni del 1980 con uno spettacolare recupero nei sette giorni precedenti il voto. Reagan, durante la campagna elettorale, era stato criticato come un attorucolo improbabile, dalla pettinatura ancora più improbabile, che covava in sé, nei rari momenti di lucidità, paranoie guerrafondaie e istinti criptofascisti.

In realtà Reagan, pur lavorando solo mezza giornata e passando il resto del tempo a cavallo nel suo ranch, mise fine alla guerra fredda e portò l’America dalla stagflazione al boom economico. Certo, Reagan si avvalse della collaborazione ideologica e politica di altissimo livello dei neocon (democratici che si erano formati alla scuola filosofica di Leo Strauss prima di passare a un repubblicanesimo completamente rinnovato), ma i neocon, che produssero ottime cose sotto Reagan, ne produssero di molto discutibili sotto i due Bush.

Quello che spesso si dimentica è che Wall Street ci mise due anni prima di accettare Reagan. La borsa scese del 20 per cento dopo la sua elezione prima di salire del 145 per cento nei sei anni successivi. Il purgatorio dei primi due anni fu dovuto ai rialzi dei tassi da parte della Fed di Volcker non sufficientemente bilanciati dalle politiche fiscali espansive.

Trump avrebbe margini di manovra minori di quelli di Reagan. Si ritroverebbe a partire con un debito pubblico già alto e un rialzo dei tassi impatterebbe subito sul disavanzo. Quanto alla borsa, Reagan se la trovò a livelli stracciati, mentre oggi siamo sui massimi storici. Trump stesso, da più di un anno, lancia ammonimenti sulla borsa troppo alta.

Trump passa per uno spendaccione che farebbe esplodere, come capitò a Reagan, il disavanzo pubblico. Si trascurano però due cose. La prima è che Trump da una parte annuncia di volere abbassare le tasse ma dall’altra non smette di denunciare l’elevato livello di debito dell’America. La seconda è che Trump si è scelto il poco spettacolare Pence come vice non solo per assicurarsi il voto degli evangelici, ma anche perché a Pence, in Indiana, è riuscito di abbassare le tasse, aumentare le spese sociali e allo stesso tempo avere gli applausi delle agenzie di rating per il risanamento finanziario conseguito.

I mercati, a questo punto, si trovano di fronte a un bivio tra due strade entrambe difficili. Da una parte, con la Clinton, la continuazione delle   politiche monetarie attuali in versione sempre più stanca e l’impossibilità di attuare politiche fiscali seriamente espansive per l’opposizione del Congresso. Dall’altra un Trump a cui è difficile, se non impossibile prendere le misure e che dovrebbe faticare non poco per superare non solo la dura opposizione democratica, ma anche le divisioni tra repubblicani.

È inutile negarlo, i mercati azionari hanno più spazio per scendere che per salire, almeno nei prossimi mesi. I periodi di passaggio da un’amministrazione all’altra sono del resto sempre delicati, soprattutto quando le amministrazioni hanno avuto una lunga durata e hanno lasciato un segno. Reagan, Clinton, Bush figlio e Obama hanno tutti governato per due mandati. Se sono stati rieletti dopo il primo quadriennio è perché l’economia cominciava ad andare bene e perché una Fed compiacente, ogni volta, aveva tardato ad alzare i tassi e tollerato il formarsi di bolle. Sarà una combinazione, ma i crash di borsa del 1987, del 2000 e del 2008 sono capitati alla fine del secondo mandato di amministrazioni di successo, un successo fin troppo premiato dai mercati.

L’aspetto positivo è che questa volta non ci sono, almeno per adesso, elementi per pensare a correzioni pesanti. In questo particolare momento Stati Uniti, Europa e Cina vanno abbastanza bene, mentre le banche centrali di Europa, Giappone e Regno Unito si apprestano a ritirare dal mercato, nei prossimi 12 mesi, altri due trilioni di titoli. Anche se l’America dovesse fare in tempo a produrre mezzo trilione di disavanzo in più di espansione fiscale, l’effetto netto sarebbe comunque di un trilione e mezzo di titoli tolti dalla circolazione, con effetto benefico per il prezzo di tutti gli altri.

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