mercoledì 16 novembre 2016

RENZI ALZA LA VOCE CON BRUXELLES MA LO SPREAD SI AGITA. PESSIMO SEGNO

Risultati immagini per debito pubblico italiano

Renzino è un furbacchione e da un po' si è messo in aperta polemica con Bruxelles, mandando anche qualche messaggio di malumore deluso nei confronti di Germania, sempre troppo severa, e Francia, sempre troppo succube dell'altra.  Quando a suo tempo critiche anche meno aspre delle attuali vennero mosse dal Cavaliere e da Tremonti, in Italia i giornaloni sparavano a palle incatenate contro gli incoscienti che risiedevano a Palazzo Chigi.
Va detto che oltre alla preconcetta ostilità (odio viscerale in molti psicotici casi) nei confronti dell'uomo delle tv, ai tempi l'Unione Europea godeva di migliore stampa e in generale di un prevalente favore tra l'italica gente (altrove qualcuno si era svegliato prima).
Oggi, sparare su Bruxelles è come farlo sulla Croce Rossa. Per carità, Junker e soci se lo meritano, e con la crisi ci si è progressivamente accorti di quanti e quali gravi errori inficiano la costruzione europea.
Però battere i pugni sul tavolo con un debito pubblico superiore al 130% del PIL, ebbè ci vuole coraggio...
E infatti De Bortoli, ex direttore del Corsera, rimasto come editorialista, qualcosa oggi scrive al riguardo.
Prima di lasciarvi alla lettura, evidenzio il preoccupante rumore di risveglio dello spread.
Sono anni che scrivo che non fu Monti ma Draghi a salvarci la ghirba (a noi come ad altri, inguaiati col deficit) , e ancora oggi, se l'Italia ancora gioca coi decimali, cercando di trovare risorse per accattivanti bonus e rivendicando sforamenti di vario genere, lo può fare grazie all'ombrellone aperto dalla BCE.
Ecco, questa cosa non è fisiologica, non durerà per sempre.
E se continuiamo così, non sarà bello vedere cosa accadrà quando l'ombrello verrà chiuso, o anche solo ridimensionato.



Debito pubblico cattivo maestro

La nostra sottovalutazione dei conti in rosso è culturale, rispetto a Paesi stranieri che sono molto più attenti. Come se non ci appartenesse, come se lo avessero contratto altri, e il fatto che la titolarità sia in capo allo Stato suona assolutorio I giovani che lo ereditano esprimono il loro disagio andandosene

 
Il mondo è così pieno di debiti pubblici e privati (quasi due volte e mezzo il prodotto globale) che farne qualcuno in più non dovrebbe essere un dramma. Dipende da chi li fa però. Il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non sembra particolarmente preoccupato dall’indebitamento americano. La promessa riduzione delle tasse e il contemporaneo aumento delle spese d’investimento per infrastrutture potrebbero portarlo a «livelli italiani». La discussione sulla sua sostenibilità — e stiamo parlando della prima, anche se forse ancora per poco, economia al mondo — è comunque aperta. L’economista Martin Feldstein aveva suonato l’allarme per tempo: urgente un piano di rientro. Secondo il Congresso, il debito tendenziale americano, oggi al 105 per cento, in assenza di interventi, toccherebbe quota 141 nel 2046. Con Trump i calcoli vanno tutti rifatti. In peggio. I mercati guardano al nostro debito pubblico con una certa preoccupazione, come dimostrano le tensioni sullo spread degli ultimi giorni. Esagerano? Vediamo. Ci si può consolare sul fatto che il valore assoluto, oltre 2.212 miliardi, è persino sceso leggermente in settembre, ma è comunque cresciuto di 40 miliardi quest’anno. Solo poco più del 30 per cento dei titoli pubblici è collocato all’estero. Il debito implicito, che calcola anche i costi futuri di pensioni e sanità, ha progressioni inferiori a quelle di altri Paesi, Germania compresa. Il risparmio delle famiglie, immobili esclusi, è di quasi 4 mila miliardi.
Ma il rapporto del debito pubblico con il prodotto interno lordo è stato, nel 2015, del 132,7 per cento.
Cresce da nove anni, nonostante i ripetuti impegni del governo a ridurlo. La commissione Ue lo stima in salita anche quest’anno.
Le ultime rilevazioni Istat sul Pil (più 0,9 per cento su base annua) sono confortanti, ma non dobbiamo dimenticare che il Documento di economia e finanza (Def) di aprile lo prevedeva all’1,2 per cento. «Nonostante la crescita sia ancora insufficiente, il dato del debito è però stabilizzato — spiega il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini — e l’importante è dimostrare una tendenza solida, migliorare la qualità della spesa, più per investimenti, come previsto dalla legge di Bilancio. E soprattutto, realizzare tutte le riforme promesse».
Nannicini concorda su un’anomalia del tutto italiana: la sottovalutazione culturale del peso del debito. Il governo non è esente da critiche. Ma non solo il governo. Ne parliamo poco, a differenza degli stranieri che lo temono forse con pregiudizio eccessivo. È come se non ci appartenesse, come se lo avessero contratto altri. L’uso frequente dell’aggettivo storico è un modo elegante per liberarci di ogni responsabilità. Il fatto che la titolarità sia quasi tutta in capo allo Stato ha una funzione assolutoria per le amministrazioni locali. È irrilevante, nel dibattito politico e, forse, nella coscienza nazionale, se il debito è fatto per coprire spese correnti, come pensioni e stipendi, anziché investimenti. Il debito cattivo cattura consensi, quello buono no. Forse li fa perdere. I giovani che lo erediteranno tutto, buono e cattivo, esprimono il loro disagio andandosene. E non hanno torto.
 

Il costo del nostro debito è sceso al 3,1 per cento grazie alla politica monetaria della Banca centrale europea. Paghiamo tassi, in qualche caso negativi, che come grandi debitori non meritiamo affatto.
Scambiamo una condizione eccezionale, il quantitative easing, per una normalità acquisita. L’endemica irresponsabilità di molti centri di spesa e l’italica convinzione che vi sia sempre una torta da dividere alimentano i peggiori pregiudizi esteri, gonfiano gli appetiti degli speculatori.
Appena entrati nell’euro, godemmo di un inaspettato periodo di grazia sul versante del servizio del debito. Sprecato. Anziché sfruttare il risparmio sugli interessi per contenere il debito, lo si alimentò per finanziare la spesa corrente. La lezione si è dispersa nel conformismo delle spiegazioni di comodo. Oggi rischiamo di ripetere gli stessi errori.
Un po’ di flessibilità nei conti per irrobustire gli investimenti (anche per la ricostruzione post terremoto) è necessaria, la politica dei bonus quantomeno dubbia.
La linea accomodante della Bce avrà prima o poi un termine. E un eventuale rialzo dei tassi, magari anticipato dalle scelte fiscalmente espansive della presidenza Trump, potrebbe dischiudere scenari di fragilità sui mercati e riproporre il tema del rischio Italia.
Il ripetersi di condizioni simili a quelle del 2011 non è del tutto improbabile. Se dovesse accadere non avremmo nemmeno più la riserva di una riforma delle pensioni, che fu brutale ma efficace.
Ecco perché un segnale sull’importanza della gestione del debito sarebbe opportuno. L’avanzo primario, la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi, è attualmente in discesa, intorno all’1,5 per cento. Un impegno a mantenerlo non inferiore al 2 per cento dimostrerebbe a mercati infidi e partner sospettosi che, nel tentativo di riprendere seppur a fatica la strada della ripresa, non abbiamo perso il senso della misura, la nozione del rigore. In vista del referendum del 4 dicembre, avrebbe poi anche il non disprezzabile effetto di una misura precauzionale.

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