lunedì 14 novembre 2016

CASSESE SI DISPIACE PER TRUMP. IN ITALIA POTREBBE ANDARE PEGGIO.

Risultati immagini per LINCOLN E LA GUERRA CIVILE

Non vado d'accordo con Sabino Cassese, illustre giurista che discetta di sistemi politici sul Corriere della Sera ( giornale che ha perso il prezioso Ainis, approdato, ahimè, al concorrente Repubblica) e in particolare dissento con la sua difesa - diventata più timida ultimamente, forse perché nemmeno al "nostro" sorride l'idea di un grillino a Palazzo Chigi...- dell' Italicun renziano.
In vari articoli Cassese ci ha spiegato come fosse moderno e in fondo anche giusto che in democrazia alla fine governasse non la maggioranza ma la più "forte minoranza".
Chissà Tocqueville che mal di pancia nella tomba, lui che già temeva e metteva in guardia dai rischi della dittatura della maggioranza, all'idea che a comandare finisca una minoranza, ancorché meno debole delle altre concorrenti.
Adesso però è accaduto che, con questo sistema sia finito alla Casa Bianca un inquilino indigesto a molti, e agli intellettuali ancora di più : Donald Trump.
Apriti cielo ! I miserabili - definizione della Clinton, che forse gli è costata cara - al potere...
Ora, avevo scritto prima delle elezioni che non credevo mai che Trump ce la potesse fare : troppo "estremista", e negli USA non era mai accaduto che un candidato che disertasse completamente il centro vincesse. Anzi, i precedenti da me conosciuti, Goldwater (troppo di destra) e Mc Govern (troppo di sinistra), confermavano il contrario.
Ora non saprei se Trump è di "destra"...certo non è un liberale, né un liberista. Sicuramente non è uno di sinistra. Cavalca lo scontento popolare, specie della razza bianca.
La più forte minoranza stavolta ha battuto il cartello delle altre (ispanici, neri, gay, musulmani) che compattamente avevano fatto vincere Obama.  Ma questo è accaduto con il voto di un americano su 4 ( degli altri tre, uno ha votato la Clinton, gli altri due non hanno votato) , e questo, ancorché del tutto coerente, legittimo e possibile nel complicato sistema americano - tanto che da loro nessun addetto ai lavori, tra cui Obama e Clinton, contesta il risultato - stavolta fa storcere la bocca a molti americani che temono il radicalismo populista di Trump e a tutti gli europei "politically correct".  Ecco, il malumore di questi ultimi mi fa particolarmente godere, lo confesso. Leggere i commenti di Enrico Letta, della Boldrini e via via giù per li rami, è una goduria.
Cassese si lamenta di un metodo, quello americano, alquanto imperfetto, e però deve ammettere che sono più di 100 anni che lo osservano (noi ultimamente cambiamo leggi elettorali come calzini) , che alla fine disastri finora non ne ha portati, che l'alternanza è sempre stata garantita, e che già in passato è capitato che un presidente abbia vinto con meno voti dell'altro (cinque volte in questo secolo, conta. Nello scorso gli posso rammentare un precedente illustre : Lincoln).
Il problema a mio avviso stavolta si pone però in modo diverso - e accadde anche nel caso di Lincoln, e lì fini in tragedia, con una guerra civile...- proprio perché a vincere non è stato un candidato comunque in qualche modo con almeno un occhio al "centro" (come quasi sempre accade negli USA) ma appunto un "estremista", almeno a parole. Nel caso di Presidenti liberal, quando democratici, o liberali-conservatori (non troppo), quando repubblicani, alla fine, per la maggior parte degli americani, quelli che infatti NON vanno a votare, non fa troppo differenza. E quindi, se alla fine della fiera è di fatto una minoranza, "la più forte", o meno debole, che elegge il Presidente, non succede niente di catastrofico. Non fu così nel caso di Lincoln, che aveva come obiettivo quello di salvaguardare l'Unione e al contempo limitare le prerogative degli stati schiavisti (non pensava assolutamente ad abolire la schiavitù, voleva arginarla e creare i presupposti, nel lungo periodo, del suo superamento). Ebbene Lincoln non aveva affatto il consenso della maggioranza degli americani, fu il "meno debole" tra quattro candidati, e per lui votarono appunto meno di un americano su quattro. Questo non gli dava il consenso per una rivoluzione "pacifica" e infatti pensava di procedere gradualmente. Non bastò nemmeno quello, e ci fu la guerra civile, la guerra più sanguinosa che gli americani abbiano conosciuto tra tutte le numerose che pure hanno fatto (600.000 vittime, nella prima guerra mondiale morirono 116.000, nella seconda 400.000, in Vietnam 56.000 ).  Io non mi figuro scenari tragici, ma sono convinto che chi governa deve godere di un consenso VERO e REALE, altrimenti meglio si limiti ad amministrare, come in Italia si fa appunto da sempre.
Altra differenza, gentile Prof. Cassese : negli USA eleggono SIA il capo dell'Esecutivo, SIA il Congresso. In questo modo i cittadini hanno la possibilità di controbilanciare un eccesso di potere, e hanno anche le elezioni di medio termine, anche queste utili per mandare segnali all'inquilino della Casa Bianca e per cercare, eventualmente, di meglio bilanciare il sistema.
Il combinato congiunto della riforma monocamerale e della legge elettorale, in un sistema che resta parlamentare e non presidenziale, non produce questi bilanciamenti.






Trump e i paradossi del voto popolare

 
 
Il vincitore ha perduto le elezioni. Gli americani che hanno votato per Clinton sono più numerosi di quelli che hanno votato per Trump, ma quest’ultimo si insedierà come presidente. Clinton ha perso con il 47,7 per cento dei voti, Trump ha vinto con il 47,3 per cento dei voti. Alle precedenti elezioni, il candidato democratico (Obama) aveva distanziato quelli repubblicani (McCain e Romney) di 10 e poi 5 milioni di voti, mentre Trump ha avuto questa volta circa 600 mila voti meno di Clinton (i dati non sono ancora definitivi, perché gli Stati hanno meccanismi elettorali diversi e la macchina americana delle elezioni è molto imperfetta) e vinto con un numero di voti inferiore a quelli con cui i due precedenti candidati repubblicani avevano perso. La spiegazione di questi paradossi è che noi vediamo le elezioni presidenziali americane come un processo unitario, mentre esso è la conclusione di 50 diverse elezioni. Si vota per un cosiddetto collegio elettorale, che poi elegge il presidente e il suo vice. Ogni Stato ha un certo numero di voti elettorali, in proporzione alla popolazione. Chi ha più voti popolari prende tutti i voti elettorali dello Stato, per cui conviene vincere in grandi Stati con un piccolo margine, come ha fatto Trump in Florida, Pennsylvania e Wisconsin, piuttosto che in grandi Stati con molto maggior margine, come ha fatto Clinton in California e New York. I voti popolari consentono di costituire il cosiddetto collegio elettorale, composto di 538 persone, che è, in realtà, un processo, piuttosto che un organo collegiale.
Nel collegio elettorale, Trump può contare su 290 voti, Clinton solo su 228. I grandi elettori, che ne fanno parte, si riuniscono in dicembre nei singoli Stati e inviano al Senato i risultati delle votazioni, per la proclamazione del presidente e del vicepresidente in gennaio. Il contrasto tra volontà del popolo e modo in cui essa è interpretata ci deve far dubitare della bontà della democrazia? O far pensare che uno dei più antichi sistemi democratici del mondo sia fallito? Oppure far pensare che sia tempo di passare dalla democrazia indiretta (quella rappresentativa) a quella diretta? Il modo in cui i voti vengono trasformati in scelta del capo dello Stato risponde, negli Stati Uniti, all’esigenza di coniugare una pluralità di Stati con l’unità della federazione. La formula elettorale, nella sua attuale configurazione, ha più di un secolo di vita ed è stata sempre rispettata, a dispetto del fatto che la contraddizione tra volontà popolare e scelta del capo dello Stato (per cui il vincitore del voto popolare può non divenire presidente), si sia presentata ben cinque volte dal 1804, di cui una nel nostro secolo. Questo dimostra che le formule elettorali sono convenzioni di lunga durata, raggiunte tra Stato e popolo, che servono a tradurre i voti in scelte di persone e in seggi o cariche. La loro forza sta nella capacità di assicurare una guida alle nazioni, quella che si chiama governabilità, raccogliendo il consenso della società sia rispetto alla formula stessa, sia rispetto ai risultati che essa produce (il sollecito invito di Obama alla Casa Bianca del candidato contro il quale si era battuto ne è una prova).

Da ultimo, la democrazia, per lo più ritenuta come equivalente al governo della maggioranza, solo in pochi casi è fondata sulla maggioranza. Nel caso americano, su una popolazione di 325 milioni di persone, sono 251 milioni gli aventi diritto al voto, ma solo la metà ha partecipato alla votazione, per cui il 47,3 per cento dei voti ottenuti dal futuro presidente rappresenta solo un quarto della popolazione in età di voto. E nei singoli Stati tutti i voti elettorali vanno a chi vince in termini di voti popolari, anche se si tratta di un candidato che ha meno della maggioranza di tali voti. A questa intrinseca debolezza rappresentativa della democrazia americana supplisce l’alternanza al potere: dopo otto anni di presidenza democratica, inizia ora una presidenza repubblicana. Democrazia è anche rinnovamento della classe politica. Tre sono gli insegnamenti di questa vicenda. Primo: la democrazia è un sistema con molti limiti e largamente imperfetto, ma dobbiamo tenercelo perché non ne è stato sperimentato uno migliore. Secondo: la democrazia è fondata su convenzioni rispettate nel tempo, che non vengono messe in gioco continuamente (come le formule elettorali italiane). Terzo: la democrazia non è il governo della maggioranza, ma solo quello della più forte minoranza.

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