Quando ero bambino, avevo di Poste Italiane l'idea di un gigante buono che dava da lavoro a tutti.
Non ero lontano dal vero, visto che le poste pubbliche erano una delle potenti fabbriche di consenso della DC , garantendo assunzioni a rotta di collo.
Io sapevo solo che ci lavoravano le due sorelle di mio papà, e sia dai discorsi in famiglia che da quelli intercettati fuori, sentivo che veramente tanta. ma tanta gente lavorava alle POSTE !
Ovviamente non era l'unico carrozzone statale adibito a postificio, io sapevo di quello.
Crescendo, intuii che ce n'era un altro che si stava gonfiando a sua volta a dismisura, ed era la Scuola Italiana, che tra bidelli, segretari, direttori, presidi ma, SOPRATTUTTO, Professori, di ruolo e supplenti (un esercito quest'ultimo vasto tanto quanto il primo), era la risposta del PCI al clientelismo democristo.
E sì, perché erano i rossi ad aver preteso ed ottenuto il controllo dell'istruzione, lentamente ma decisamente, e dalla fine degli anni '60 in poi quello è diventato un autentico feudo, ideologico ed elettorale, della sinistra.
Figuriamoci, quando, nel tempo, quest'ultima ha conquistato anche il palazzo.
Il patto scellerato fu stretto allora, con la scuola per tutti, intesa non già, come sarebbe ineccepibile, l'assicurazione della possibilità di accesso allo studio, ma piuttosto la garanzia di diplomi per l'universo mondo studentesco e con una strizzatina d'occhio anche per la laurea. Intanto, per portarsi avanti, ci fu la liberalizzazione di accesso agli atenei, a prescindere dal tipo di diploma conseguito. E in fondo lo trovo pure giusto, visto che tanto ormai anche ai licei il pezzo di carta arrivava sicuro, a prescindere dall'effettiva preparazione degli studenti, perché negare agli altri uguale possibilità ?
Le stalle erano aperte, asini e buoi non andavano più distinti.
La solita differenza tra le due utopie : liberali, per l'uguaglianza dei punti di partenza, e i comunisti (allora erano fieri di chiamarsi così, oggi, per fortuna, non più) per quella dei punti di arrivo.
Na parla con giusta amarezza il professor Panebianco. prendendo spunto dall'ennesima entrata a gamba tesa di un tribunale amministrativo, in genere quello del Lazio (i ministeri stanno a Roma...), ad affossare ogni tentativo di razionalizzazione e miglioramento della cosa pubblica italica.
Stavolta si tratta della bocciatura del numero chiuso che l'università di Milano aveva introdotto per le materie umanistiche.
Roba che se ci fosse un governo vero e serio, quelle facoltà, tutte e principalmente lettere e giurisprudenza, dovrebbero essere chiuse per un un lustro, meglio due, in modo che l'esangue società riesca ad assorbire la pletora di giovani con la vocazione (vera o necessitata ) di fare i professori o gli avvocati.
Panebianco ci fa giù sempre più duro - non è il primo articolo in cui se la prende coi magistrati amministrativi - e mi sembra strano che non sia ancora arrivata qualche lettera piccata di lor signori al direttore del Corsera. Arriveranno.
Personalmente, sono desolatamente d'accordo con l'opinionista del giornalone, ricordando che parla di un mondo che conosce particolarmente da vicino, essendo Panebianco professore universitario a Bologna, ateneo dove è apprezzato ma anche sovente contestato da cd. studenti bazziccanti i centri sociali, fino a ieri in gran voga nel capoluogo felsineo (uno lo hanno sgomberato, con grande dolo dei radical chic sinistrorsi, che non perdono l'occasione per starnazzare).
Buona Lettura
Il patto che rovina la scuola
di Angelo Panebianco
La sentenza del Tar
del Lazio contro il numero chiuso nei corsi di laurea umanistici
dell’Università di Milano ci ricorda uno dei principali «misteri» italiani:
come mai nel nostro sistema educativo resistono, accanto a fannulloni e
incapaci, così tanti docenti di qualità? Quei docenti di qualità non dovrebbero
proprio esserci dal momento che da decenni (la sentenza del Tar è solo l’ultimo
episodio) un intero Paese, un’intera classe politica, e tutte le amministrazioni
coinvolte (funzionari del Ministero, Tar, eccetera) hanno sempre manifestato il
più completo disinteresse per la qualità dell’insegnamento.
Sul sistema
educativo pesa, dagli anni Settanta dello scorso secolo, un patto che
coinvolge, ancora oggi, la politica, l’amministrazione, quella parte dei
docenti che ha ottenuto benefici dall’esistenza del patto, e tanti utenti
(studenti e famiglie).
L’Università, grazie a certe sue guarentigie è stata
parzialmente al riparo dalle conseguenze peggiori di quel patto. Ma ne è stata
colpita anch’essa.
La nefasta «liberalizzazione degli accessi» della fine degli
anni Sessanta diede l’avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e
secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri. Il patto di cui parlo venne
tacitamente siglato fra la Democrazia Cristiana , allora al potere, e i
sindacati della scuola, e coinvolse anche il Partito comunista. Il patto venne
sottoscritto con il consenso tacito dell’opinione pubblica (disinteressata e
spesso complice quasi tutta la classe colta, gli intellettuali).
I termini del patto
erano i seguenti: la scuola ha un unico vero scopo, assorbire occupazione. Non
importa se gli insegnanti reclutati siano capaci o no, preparati o no. Importa
solo che siano tanti (il che significa, inevitabilmente, mal pagati). E neppure
importa che siano condannati a una lunga e umiliante esperienza di precariato.
Gli effetti di tutto ciò sulla qualità dell’ insegnamento erano, per i
contraenti del patto, irrilevanti. Anche perché l’assenso degli utenti,
famiglie e studenti, poteva essere ottenuto grazie al valore legale del titolo
di studio. Ciò che conta è il diploma, il pezzo di carta.
Non ha importanza che
dietro quel pezzo di carta ci sia o no una solida formazione. Per giunta,
contribuiva al mantenimento del patto un clima culturale nel quale il diritto
costituzionale allo studio era da molti interpretato come diritto al diploma.
Nell’età
post-democristiana le cose non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori
politici ma l’eredità che hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che
fare con i processi educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si
pensi all’ultima imbarcata di precari: l’importante era assumere docenti. Il
fatto che fossero competenti o no era irrilevante. E tanto peggio per il
congiuntivo.
Sappiamo, ad esempio,
da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda l’insegnamento
della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto, a tanti futuri
studenti universitari, l’ingresso nei corsi di laurea scientifici. La ragione
per cui tanti giovani si orientano verso le umanistiche (nonostante le minori
probabilità di occupazione post-laurea) anziché verso le scientifiche, ha a che
fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti questi anni, se ne è mai
preoccupato? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in questa occasione,
ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati». Mi dispiace ma
detto così non è vero. Occorrono più laureati (anzi, tanti di più) in materie
scientifiche. Ne occorrono di meno in materie umanistiche e quei «meno»
dovrebbero essere tutti di qualità elevata.
Il Tar del Lazio, in
fondo, si è uniformato a un antico andazzo. L’Università di Milano vuole il
numero chiuso per garantire la qualità dell’insegnamento? E perché mai dovremmo
preoccuparci di una cosa simile? Poi c’è, naturalmente, il paravento della
legge. Che però deve essere interpretata. I sistemi giuridici sufficientemente
flessibili da essere al servizio degli umani (a differenza di quelli che mettono
gli umani al proprio servizio) tengono conto degli stati di necessità. Per
rispettare quel rapporto studenti/docenti che è necessario per garantire la
qualità dell’insegnamento, l’Università di Milano ha optato per il numero
chiuso. Ma poiché la qualità dell’insegnamento non ha alcun valore agli occhi
di tanti, lo stato di necessità non è stato riconosciuto e accettato.
Non ci si deve
meravigliare se ci sono tanti diplomati e laureati ignoranti. Ciò che invece fa
meraviglia (è questo il vero mistero da risolvere) è il fatto che ci siano
anche, a dispetto dei santi, molti giovani bravi e preparati, nonché molti
docenti bravi e preparati. Sono questi ultimi «i singoli insegnanti
appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti » (Nuccio
Ordine, sul Corriere di ieri).
È tutto abbastanza
chiaro: la sentenza del Tar è figlia di una lunga tradizione nazionale. Resta
però la curiosità di sapere qualcosa su questi giudici del Tar del Lazio, da
molti anni impegnati, come ricordava ieri Aldo Grasso, a dire «no» a tanti
provvedimenti positivi. A differenza di ciò che capita nel caso di altre
istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale, abbiamo idee vaghe sui
criteri di reclutamento e sulla composizione. Tenuto conto dell’importanza assunta
dalle loro decisioni, ciò meriterebbe più attenzione.
Nessun commento:
Posta un commento