giovedì 7 novembre 2013

IL LIBRO DI FRANCESCO PICCOLO LETTO DA LUCA SOFRI : MEGLIO I RISCHI DEL CAMBIAMENTO CHE LA RESISTENZA INDIGNATA NEL PASSATO


Mi era capitato di leggere la presentazione del libro di Piccolo "IL DESIDERIO DI ESSERE COME TUTTI" e di essere rimasto tentato di acquistarlo. In sostanza, un romanzo autobiografico, pretesto per una riflessione su un ragazzo che diventa comunista a 14 anni, rimane di sinistra tutta la vita ma ad un certo punto viene assalito da una serie di dubbi, non tanto sull'ideale scelto, ma come è stato percorso e vissuto. Da lui, il protagonista, e dagli altri compagni di viaggio come lui. Peraltro, leggermi 40 anni di vita dal punto di vista degli ALTRI, che io di sinistra non sono, mi "perplimeva" pure !
Dopo aver letto la bella descrizione di Luca Sofri, il figlio di Adriano (triste destino : essere bravi ma restare tutta la vita figli di un genitore considerato "più bravo"...) mi sono deciso e domani acquisterò il libro.
Non solo la presentazione di Sofri ma anche gli stralci delle riflessioni contenute nel testo mi hanno persuaso.
La descrizione PERFETTA di persone che io conosco a decine, avendo sempre avuto, da liberale, numerosissimi rapporti con gente variamente di sinistra. Non gli "ultrà", dove era parlare linguaggi reciprocamente sconosciuti, ma una decente dialettica coi socialisti riformisti e un buon rapporto con i Liberal, e non perché ci separi solo una "e", ma perché non hanno una concezione dello Stato soverchiante, inconciliabale con una natura. la loro,  in cui il libertarismo ha suoi forti perché. Sono quelli che nella giustizia sono garantisti, e in assoluta nella vita diffidano dei posteri dei giacobini. Ma anche tra di loro, una certa incorreggibile tendenza a sentirsi i depositari del "giusto", c'è. Salvo incorrere in quello che leggerete appresso.
La nota di Sofri è lunga - e io l'ho anche accorciata ! - però fidatevi, vale la paena di leggere, per poi magari decidere , come me, di tentare l'acquisto del libro.

Una cosa lunga sul bel libro di Francesco Piccolo

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La mia fortuna – oppure sfortuna: dato che io quindi non ho materiale per scrivere un libro così bello – è stata un’educazione immeritata che mi ha regalato per tempo opinioni che Piccolo ha conquistato con grande fatica e vagabondaggio: la consapevolezza che il bene non stia per definizione da una parte, che l’essere minoranza è una sconfitta e non una vittoria, che possano convivere emozioni “superficiali” e individualismi con tensioni verso il bene comune e generosità, che criticare invece che costruire sia più facile ma perdente. Cose così, che nel libro di Piccolo si concretizzano in un’ammirazione per il Berlinguer costruttore del compromesso storico e di un’idea inclusiva di governo (ammirazione contrapposta a una critica, per quanto solidale, per l’arroccamento identitario a cui Berlinguer fu costretto dai fatti e dalla variabile imponderabile del sequestro Moro, arroccamento poi esaltato sventatamente dai suoi successori), in una diffidenza per la battaglia antiberlusconiana condotta con armi berlusconiane e sui piani del ridicolo invece che su quelli della concretezza: in un rifiuto di Piccolo per l’idea di una parte migliore e una peggiore del paese e soprattutto di una loro definizione esatta e preventiva
Ma l’intuizione migliore e più raffinata del libro di Piccolo è lo sdoganamento della condizione caratteriale della “superficialità” (è interessante che il libro di Baricco, così diverso e così altrettanto contemporaneo, parlasse dello stare sulla superficie delle cose), l’accettazione e nobilitazione di un atteggiamento sdrammatizzante e indulgente nei confronti della vita e del mondo che è oggi una condizione estesissima e quella su cui sarebbero possibili grandi investimenti costruttivi, se la sinistra ex progressista e di cambiamento non fosse diventata reazionaria: atteggiamento contrapposto all’indignazione permanente e alla sistematica espressione di disgusto e fastidio che molte persone di sinistra hanno assunto persino nei riguardi delle stesse cose che frequentano e fanno.
Dai pensieri di Piccolo e dalla loro evoluzione, si capisce che il terreno più fertile di cambiamento in meglio del mondo è dato dalle persone in cui prevale il curioso desiderio di un cambiamento piuttosto che la “resistenza” indignata nel passato. Che la presa di distanza dall’oggi e dalle maggioranze è stato ed è l’atteggiamento più complice nei confronti degli aspetti criticabili dell’oggi, una ritirata autoassolutoria ma ancora più colpevole: una consegna del presente e del futuro ai cialtroni, avvenuta nel momento in cui presente e cialtroni sono stati dichiarati identici, e non lo sono. Che stare nell’oggi, amandolo ed essendone affascinati in quanto tale, se non aiuta a renderlo migliore – e spesso lo fa – aiuta ad essere più felici.


Noi pensiamo sempre che c’è stato un passato miglio­re, in cui le persone si occupavano, tutte, di questioni im­portanti. Pensiamo che siano i nostri tempi a essere su­perficiali, perduti. È questa certezza che ha reso saldo il nostro istinto reazionario, in qualsiasi spazio di vita. Era meglio prima.
Gli uomini primitivi, quando arrivava la luce del gior­no, uscivano dalle caverne e rischiavano la vita contro ani­mali ferocissimi, per procurarsi cibo. Ma si è scoperto che uscivano dalle caverne e rischiavano la vita anche per pro­curarsi coralli per fare le collane. Rischiavano allo stesso modo, sia per la sopravvivenza sia per la vanità.
La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profon­dità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. È questo il problema in cui mi sono tro­vato alla mia nascita in quanto persona che sta nel mondo, e al quale non sono mai riuscito a dare risposta – rubavo la coca cola e contemporaneamente sentivo la grandezza di far parte dell’umanità. Gli esseri umani si preoccupano delle condizioni di vita nel mondo e cantano a squarciagola canzonette sotto la doccia. La sinistra, mi pare, ha impara­to a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficia­le, spensierata. Ed è cosí geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno piú che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del con­fine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che per­dono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni. La sinistra si deve occupare di procurare cibo per so­pravvivere e si deve occupare di procurare coralli per le collane. Se non fa entrambe le cose – come non ha fatto – diventa elitaria e dispregiativa.
Questi approcci ai nostri tempi e all’Italia sono stati e sono tuttora minoritari, a sinistra (il libro di Piccolo, della sinistra parla, raccontando mille storie affascinanti), sconfitti da intransigenze e aggressività, indoli reazionarie, faziosità e demagogie, rifiuti del cambiamento e della comunità, che prevalgono da molti anni: però mi chiedo se stia cambiando qualcosa, oggi che hanno somiglianze con alcune cose che dice il candidato favorito alla guida del PD e al governo; trovano ospitalità complice nel programma più identitariamente di sinistra della Rai; hanno sovrapposizioni con altre idee simili pubblicate e diffuse in questi anni su libri e siti web. Probabilmente saranno invece poco accolte sui quotidiani a cui Piccolo allude quando dice:
Da questa par­te, dalla parte degli antiberlusconiani, si sono posizionati “tutti gli altri”. E siamo tanti. Con pensieri molto diversi, ma costretti a stare tutti insieme. Stiamo tra di noi, comu­nichiamo tra di noi. Ci confermiamo le nostre ragioni, ci rassicuriamo su un assunto fondamentale su cui abbiamo molto bisogno di essere rassicurati: che il mondo miglio­ re è il nostro, assomiglia a noi e alla vita che viviamo, alle scelte che facciamo riguardo non soltanto a regole e leg­gi, ma anche a salute, cibo, educazione, linguaggio, libri, film, viaggi. Abbiamo pensatori di grande fama e carisma che stanno insieme a noi, ci rassicurano, dicono che siamo giusti e facciamo cose giuste; anche se il mondo sta andan­do da un’altra parte, anche se la gente in maggioranza vo­ ta da un’altra parte non ci dobbiamo preoccupare: stanno sbagliando e un giorno si ravvederanno, comprenderanno e torneranno. Abbiamo creato giornali su misura per noi, scrittori su misura per noi, film su misura per noi, eventi su misura per noi, e tutti ci comunicano compiaciuti che non stiamo sbagliando, che stiamo facendo tutto bene, che dobbiamo continuare cosí. Mai nessuno che metta in dubbio le nostre idee, si chieda se c’è qualcosa che non funziona, si chieda perché gli altri riescono a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra. Mai che andiamo a curiosare chi sono, cosa fanno, quali debo­lezze hanno, se nascondono una virtú che non riconoscia­mo. Siamo assolutamente sicuri che il mondo è diviso in due, quelli che stanno sbagliando tutto e quelli che stan­no facendo tutto bene, e per una coincidenza infelice la maggioranza continua a essere cieca e a guardare a quelli che sbagliano. Ma presto, molto presto, si ravvederanno.

A proposito dei giornali, Piccolo racconta molto bene la pigra ritualità del lavoro di molti commentatori di fatti correnti sui quotidiani – lui compreso -, una catena di montaggio di ovvietà che alla fine suona come un brusio di fondo insignificante.
Mi telefonavano e mi dicevano: una barca di immigrati clandestini è naufragata, ti va di scriverne? Lo chiedevano a me come ad altri per altri giornali. E io e gli altri scrive­vamo un articolo indignato e addolorato in cui dicevamo che era molto brutto che la barca fosse naufragata, che le barche sarebbe molto meglio che non naufragassero; che era molto brutto che gli immigrati non venissero accolti, che era molto brutto in generale che la gente nel mondo soffrisse di fame e di povertà e fosse costretta a prendere barche per andare a cercare fortuna in Paesi piú ricchi e che poi queste barche naufragassero. Poi ci chiamavano e ci dicevano che una donna era stata violentata in una città del Nord, noi scrivevamo che era molto brutto che le don­ne venissero violentate, e che non bisognava violentarle, e che era molto brutto in generale che ci fosse qualsiasi tipo di violenza, non solo nel Nord, ma anche nel Sud, e che tutte le persone, e in special modo le donne, doveva­no essere rispettate e amate. Ci eravamo perfino spinti a scrivere, alcuni di noi, che era molto brutto che Israele e Palestina fossero in guerra da cosí tanto tempo, e che bi­sognava trovare una soluzione; non avevamo idea quale, ma nessuno ne aveva idea, quindi il proposito era suffi­ciente; e poi pensavamo, scrivevamo, che in tutti i luoghi del mondo ci sarebbe stato bisogno di pace e non di guer­re. Scrivevamo che bisognava dare lavoro ai disoccupati, che la cultura era importante, e un sacco di altre cose che sono tutte lí, a testimoniare il mio (nostro) senso civile.
Non era compito nostro trovare soluzioni, però era com­pito nostro tenere desta l’indignazione. La richiesta dei giornali e il mio desiderio coincidevano alla perfezione: i giornali cercavano scrittori che dicessero le cose giuste che c’è bisogno di dire; io avevo cercato con tutte le forze di essere cosí; i lettori andavano ogni giorno in edicola e ve­devano confermato in pieno quello che pensavano. Tutti avevano già pensato questi pensieri, è vero, ma il motivo era molto semplice: dicevamo cose giuste. Ci sentivamo rassicurati, nonostante ritenessimo di vivere tempi parti­colarmente bui: almeno c’era una comunità che difendeva una fortezza dentro la quale non ci importava nemmeno troppo cosa custodissimo.

 Sofri afferma peraltro di non apprezzare il finale di Piccolo, che lui ritiene insincero, un po' paraculo, un autodafé ammiccante al lettore...

 Per quanto mi riguarda, tutti questi anni passati a in­seguire un me migliore, sono stati molto faticosi e hanno ottenuto poco o niente, nel tentare di indicare la respon­sabilità degli altri. Tanto valeva affrontare le cose dalla strada opposta: ammettere chi ero, da dove venivo – tutti i miei limiti; era questo il sollievo che avevo provato li­berandomi della purezza, come se la tensione a essere co­me i miei simili mi avesse debilitato, impegnando tutte le mie forze in uno sforzo gigantesco; e alla fine, non ci ero nemmeno riuscito.
È meglio rendersene conto: se come si è, e come si dovrebbe essere, non riescono a coincidere, allora la sin­cerità è piú fruttuosa del senso di giustizia. Perché ti fa cercare le cose che non funzionano in te, in qualche mo­do ti fa imparare ad accettarle e a conviverci – la since­rità ti fa vedere anche accanto a te quei cinque ragazzi abbarbicati addosso alla ragazza del cortometraggio fran­cese. Il senso di giustizia ti spinge di continuo a ignora­re i tuoi difetti fondanti e a tendere verso il bene. E chi non ha la propensione alla purezza, non ce la fa; o ce la fa inciampando di continuo, guardandosi di continuo al­lo specchio perché i vestiti che indossa non sono i suoi, sono quelli che vorrebbe indossare, quelli che desiderava. Ma non sono i suoi. 



Tra le storie che Piccolo recupera e racconta c’è un famoso romanzo di Dürrenmatt, La promessa: il protagonista si convince così tanto di una sua ipotesi – contro ogni evidenza e il parere di tutti – da diventare ossessionato dalla sua dimostrazione. Poi si scopre che aveva ragione lui, ma un incidente imprevisto ha reso impossibile che i fatti gli diano ragione: lui però ormai è impazzito e continuerà ad aspettare quei fatti, contro ogni possibilità realistica, incapace di assumere che la realtà abbia sovvertito la bontà delle sue ragioni.
Così dice di sentirsi Piccolo, rispetto all’Italia e alle sue aspettative per l’Italia: “C’è stato l’incidente, ma io non lo so. O meglio, lo so, me l’hanno raccontato, ma sono impazzito e continuo a dire che (la mia soluzione) verrà, io aspetto perché sono convinto che verrà”. Ed è un’altra ottima allegoria per raccontare l’apparentemente inconciliabile contraddizione tra il nostro lucido disincanto sulle prospettive di questo paese e la nostra imbattibile tendenza a volerle cambiare. È successo un incidente, lo sappiamo, ma siamo impazziti e aspettiamo convinti che un cambiamento in meglio arriverà. Probabilmente siamo più felici così, e l’attesa si autoavvera.

APPLAUSO 

 

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