mercoledì 11 dicembre 2013

DIETRO AI FORCONI C'è DI TUTTO, E DI BUONO TEMO POCO.

 
Questa cosa dei Forconi non mi convince, e i due editoriali letti oggi su La Stampa, uno di Michela Brambilla, l'altro di Stefano Lepre (in realtà entrambi i giornalisti non godono della mia simpatia, ma questo non vuol dire che non possano fornire spunti di utile riflessione) mi hanno aiutato a capire perché : lì dentro ci sta di tutto un po', ma di buono non tanto.
E quindi abbiamo quelli vessati da uno Stato che continua a tassarli come se i tempi non fossero quello che sono (aggravati da regolamenti e burocrazia sempre più asfissianti), che non riescono a stare appresso alle scadenze, che non sono solo quelle fiscali (che uno che non ce l'ha, non le paga, e poi si vede (con giudici che cominciano ad assolvere il mancato versamento dell'IVA) ma anche gli stipendi dei dipendenti, le rate del mutuo, la pigione di casa, le spese della famiglia.
CI sono però anche coloro che dallo Stato sono stati beneficiati, che hanno campato soprattutto grazie a questa assistenza, fatta di sussidi, e oggi che la stessa si è ridotta strepitano.
Oggi si trovano in piazza tutti insieme, che l'avversario, lo Stato Ladro e Affamatore, è lo stesso, ma le soluzioni invece sono spesso opposte !
E i due opinionisti evidenziano chiaramente questa dicotomia.
Una cosa dice bene la Brambilla, ancorché apparentemente scontata : queste manifestazioni sono affollate da molta gente che non si agita per stare MEGLIO, per avere qualche diritto in più, ma di gente che ha la tavola VUOTA (o teme di averla da qui a poco).
Si è sempre detto che la rivoluzione è difficile da fare nel benessere, e questo è stato sicuramente vero negli anni 70, dove il PCI riuscì a tenere salda la governance della maggioranza della classe operaia ( quella alla quale guardavano speranzosi gli intellettuali del brigatismo rosso ) , ma ora sono tante, milioni pare, le persone che invece iniziano a vivere MALE.
E allora la cosa cambia, parecchio.
Che non andare avanti è brutto, ma tornare indietro è molto peggio.

In piazza ci sono i figli della crisi

di MICHELA BRAMBILLA


Nella protesta dei cosiddetti Forconi c’è senz’altro un mix di elementi inaccettabili e inquietanti. Inaccettabili sono i disagi creati ai cittadini (non c’è causa che li giustifichi) e a maggior ragione le vetrine spaccate e le automobili rovesciate. Inquietanti sono le infiltrazioni estremiste e addirittura (pare) mafiose. Aggiungiamoci poi le strumentalizzazioni politiche, che vengono soprattutto da destra, e le istigazioni al linciaggio, che vengono dal solito Grillo.

Basterebbe tutto questo per esprimere una netta condanna.

Tuttavia, bisogna stare attenti a liquidare la questione solo come un problema di ordine pubblico. Vanno infatti colti, a mio parere, due fenomeni nuovi, e particolarmente preoccupanti.

Innanzitutto. Le manifestazioni di questi giorni sono le prime, a memoria d’uomo, che in Italia si tengono a pancia, se non vuota, quasi vuota. Diciamo più correttamente che si tengono con la testa piena (di paura) per una pancia che potrebbe essere presto vuota (di cibo). Nel Sessantotto e nelle sue derivazioni, in piazza ci si andava un po’ per ideali e un po’ per conformismo, perché come diceva Longanesi in Italia siamo tutti estremisti per prudenza. Ma nessuno era mosso dalla fame. Anzi, al contrario si andava in piazza perfino contro il consumismo, come fece Mario Capanna durante le feste natalizie, mi pare, del millenovecentosessantotto o sessantanove. Il paradosso di quegli anni, semmai, era che nell’Italia del post-boom si prendevano a modello Paesi, come la Cina o Cuba, molto più poveri di noi.

Oggi no. Oggi c’è la crisi. Oggi ci sono i suicidi, i debiti, il timore di non poter più dare da mangiare ai propri figli. Questa è la prima novità preoccupante, perché si sa che finché si tratta di questioni ideali, le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola: ma quando la tavola è vuota, può davvero succedere di tutto. 
La seconda novità è che per la prima volta (almeno in queste dimensioni) in piazza non vediamo studenti o lavoratori dipendenti, ma imprenditori. Diciamo pure piccoli imprenditori: padroncini, agricoltori, allevatori, ambulanti, tassisti, negozianti, partite Iva. Ma comunque imprenditori. 

È gente che in Italia si sente, da sempre, senza patria. Come dice Daniele Marantelli, un deputato varesino del Pd che da anni cerca di capire le ragioni della protesta nordista, «la sinistra ha sempre avuto un pregiudizio negativo nei confronti del piccolo imprenditore, considerato un evasore fiscale che pensa solo a fare il proprio interesse». Nel loro sentirsi soli, l’artigiano, il commerciante, il trasportatore e più in generale tutti i piccoli imprenditori ritengono di avere ottime ragioni. Si considerano «lavoratori» anch’essi, e lavoratori che rischiano un proprio capitale, piccolo o grande che sia, e creano posti di lavoro, pochi o tanti che siano. Certo negli anni di vacche grasse guadagnano più dei lavoratori dipendenti: ma in quelli di vacche magre non hanno paracadute, né sindacato né cassa integrazione, e non di rado devono mettere in azienda il patrimonio di famiglia. 

Anche riguardo all’evasione fiscale ritengono di essere vittime di faciloneria e pregiudizi. Invocano la distinzione fra loro - che producono lavoro e sono schiacciati da una pressa fiscale senza eguali - e i veri grandi evasori, finanzieri che vivono di speculazioni, o professionisti che non creano occupazione. Abbiamo evaso? Sì, dicono: ma ricordano che perfino Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha ammesso qualche tempo fa che in Italia esiste «un’evasione da sopravvivenza». 

Insomma. Speriamo non succeda, ma non ci sarebbe da stupirsi se nei prossimi mesi accanto a questo un po’ ambiguo popolo dei forconi dovessero scendere in piazza, con eguale rabbia e violenza, tanti altri italiani ridotti allo stremo dalla crisi, dalle tasse, dalla burocrazia. Dovesse succedere, saremo qui tutti a dire che con la violenza si peggiorano solo le cose, che gli estremisti la mafia... Eccetera. Ma sarebbe ormai difficile fermare una deriva barricadiera. Non dimentichiamoci che in Grecia abbiamo visto, nelle piazze incendiate, anche insospettabili pensionati. La disperazione può trasformare chiunque.

Scrivevamo, la scorsa settimana, della rabbia anti-Stato che cova al Nord. Ora questa rabbia sta cominciando a sfogarsi nelle strade e nelle piazze. C’è un solo modo per fermarla, e per non lasciarla strumentalizzare da nessuno: venire incontro veramente a chi cerca di creare lavoro per sé e per gli altri. 

Ma troppi ricevono già soldi pubblici


E’ difficile guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico. 

Una frangia ribelle di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente. 

La crisi esaspera; la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.

E’ una protesta che guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori, gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.

Ora scontenti di ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.

Nel trasporto cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La «privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici, come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.

Insomma il Paese per non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità, carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.

Vediamo l’esito estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei biglietti falsi?).

L’unica via è ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa. Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia troppo tardi. 

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