Piero Sansonetti è un comunista (ex ma poco) , io sono un liberale.
Lui uno del '68 che credeva nella lotta di classe e nell'uguaglianza di fede marxista (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno). Io, che ho fatto il liceo durante gli anni del Movimento e quelli di piombo, credo nel merito ( cercando di pareggiare, per quanto possibile, i punti di partenza).
Capitalismo e anche mercato credo che per lui siano rimaste brutte parole (la prima sicuramente), io penso che, con i difetti noti, sono i sistemi che hanno portato più benessere.
Insomma, siamo diversi.
Però una cosa in comune ce l'abbiamo : la fede nel garantismo e l'ostilità per il giustizialismo.
E così la pensiamo allo stesso modo sui giudici, su mani pulite, sull'accanimento giudiziario, sulla tracimazione del potere dei magistrati.
Di Piero Sansonetti mi piacciono poi la sincerità, il coraggio e l'onestà intellettuale.
Tutti pregi che ritrovo in questa magnifica lettera che scrive ai suoi lettori lasciando la direzione del quotidiano "L'Ora della Calabria ".
Non condivido tutti i passaggi, inevitabilmente visto le differenze citate in premessa, ma non ha alcuna importanza, che questo amaro "saluto" ha una bellezza "in sè" che travalica le singole questioni.
Leggetelo, merita.
Le ragioni di un addio...
Il saluto di Sansonetti
La mia storia con la Calabria: amore, fallimenti e un capitalismo spietato
Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi
con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di
ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale (si
era arrivati ad ipotizzare fino a 50 licenziamenti su 75 redattori) e io
mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che
consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio
piano è stato approvato all'unanimità dall'assemblea ma all'editore non è
piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate
discussioni e tentativi di trovare vie d'uscita, l'altra sera siamo
arrivati alla decisione dell'editore di respingere il mio piano,
procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo
per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo
spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo
conoscete la mia posizione su questi problemi. La lotta contro i
licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo
sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga
proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza
di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso
che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso
che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della
’ndrangheta e della criminalità organizzata.
FALLIMENTO
Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la
convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno.È
una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa
male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. È semplice: se
sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male.Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo.
LA CALABRIA
Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto
presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere
capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice
che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore
della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto
diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere
ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta,
vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è
il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è
un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della
civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al
dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli
uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi
dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il
contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la
legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord,
secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E
così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più
manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno,
alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema
all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della
Calabria nei confronti del Nord. È il Nord che da decenni viola i diritti
fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo
calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene
chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare
“la deportazione” e cioè il trasferimento al Nord di milioni di
calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico
lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di
sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della
Repubblica italiana. È un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure
la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca
ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è
settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici
isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una
sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui,
esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della
Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe
raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del
Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è
scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una
persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un
picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del
picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in
campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista?
È facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne
con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato.
Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la
’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e
dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso,
conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né
polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia
giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la
direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo
essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha
bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo,
sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la
responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo
quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere
nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la
Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito
l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è
il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto,
sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla
rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione
assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e
tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già
lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per
una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il
papa.
I GIUDICI
Prima di tornarmene a Roma devo dire
qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio
fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori
calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di
mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono
persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei
magistrati sia insieme al potere economico e padronale – di gran lunga
il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore
assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il
garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal
dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta
ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti
spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in
Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a
un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve
ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che
apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato
etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo
stato fascista, come furono gli stati comunisti.
Devo dire, onestamente,
che lui Cafiero poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho
apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti
che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con
dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande
timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una
missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione
assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della
vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.
GLI EDITORI
Ho lavorato per tre anni e mezzo con i miei editori, la famiglia
Citrigno, e spesso mi è capitato di difendere uno di loro, Piero, dagli
attacchi della magistratura che ho sempre considerato come un vero e
proprio accanimento. Non è che ora, perché mi hanno licenziato, cambio
la mia posizione. Ho conosciuto molto bene Piero Citrigno e credo di
avere capito i suoi pregi, molti, e suoi difetti, moltissimi (e gli
confermo simpatia e affetto). Il suo difetto principale è uno solo: è un
padrone. Qui in Calabria ho conosciuto più da vicino il capitalismo: è
una brutta bestia. Alla famiglia Citrigno lancio solo un appello: ci
ripensi e ritiri la proposta di licenziamenti di massa. Spero spero
davvero – che mi darà retta.
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio soprattutto i lettori. I tanti che ci sono stati vicini in
questi anni. Ci hanno dato forza, convinzione, tranquillità. Mi dispiace
moltissimo lasciarli. Mi ci trovavo proprio bene. Poi ringrazio tutti i
giornalisti e i poligrafici, e i tecnici del giornale, una grande
squadra, davvero. Che può avere un gran futuro. In particolare,
ovviamente, ringrazio il mio caro amico vicedirettore, Davide Varì. Non
faccio altri nomi (potrei, forse e mio malgrado, danneggiarli....).
Ringrazio anche i giornalisti che in questi anni hanno lasciato il
giornale, per tante ragioni, qualcuno polemicamente, anche con me: non
escludo di avere avuto qualche colpa per il loro allontanamento. E
infine vorrei ringraziare – quasi fossi una persona perbene... – le
autorità. Però c’è una sola autorità che ringrazio davvero.
Lontanissima, da me e dalla mia cultura. Ma è l’unica che ho trovato
veramente al fianco del popolo della Calabria, e quando è stato
necessario anche al fianco del giornale: l’autorità ecclesiastica. E in
particolare ringrazio due persone stupende: il vescovo Nunnari e il
vescovo Morosini (anche gli altri, per carità, non si offendano: ma ci
siamo conosciuti poco).
UN SALUTO SPECIALE
È chiaro che un saluto speciale lo rivolgo ad Alessandro Bozzo,
ragazzo splendido, giornalista bravissimo, morto suicida poco meno di un
anno fa. Lo ho scritto altre volte: nessuno sa spiegare un gesto così
tragico e grandioso, come un suicidio. Ma tutti coloro che hanno vissuto
accanto a lui, ed io per primo, si sentono in qualche modo
responsabili: non lo abbiamo capito, non lo abbiamo aiutato, abbiamo
commesso delle ingiustizie. Ècosì. Arrivederci. Auguri a tutti, e
soprattutto al mio successore Luciano Regolo. Non lo conosco
personalmente. Mi dicono che sia un grande esperto di famiglie reali.
Beh, qui in Calabria è pieno di famiglie reali: spero che troverà il
modo per non farsi affascinare da loro e per tenerle a distanza.
<non lasciarci. La Calabria ha bisogno di uomini come te...
RispondiEliminaDirettore grazie di cuore.....è proprio vero in Calabria ci sono solo padroni..............
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