Chi legge questo Blog sa perfettamente della grande stima che nutro per il professor Luca Ricolfi, esperto di scienze sociali e di numeri applicati alle stesse, autore ormai di diverse fortunate pubblicazioni ed editorialista de La Stampa. Leggere il suo intervento odierno e vedere come collimi al 90% con le cose scritte in questi giorni sul Camerlengo in relazione al colpo di mano renziano non può essere quindi che motivo di grande soddisfazione. Lo trovate come di consueto appresso, qui mi limito a sintetizzare i punti di assoluta condivisione :
1) Renzi ha fatto una cosa "brutta". Lo sa lui, lo sanno i suoi, ed è tutto un arrampicarsi sugli specchi per giustificare un cambio di rotta che definire spregiudicato è eufemistico
2) Questa cosa in politica, ma nella Storia in assoluto, è assolutamente frequente. Il giudizio alla fine è legato al risultato. Cesare, varcando il Rubicone con le legioni, violava la legge e un principio sacrale della Repubblica Romana. Però vinse, e quindi, nel giudizio dei più, Cesare fu un grandissimo condottiero e un grande della Storia. I difensori di Bruto e Cassio sono minoranza. Ovviamente non si vuole accostare Renzino a nessuno dei due personaggi, però l'iperbole rende l'idea : se il neo Premier avrà successo, il modo con cui è arrivato al vertice sarà accantonato (dimenticato credo di no, per quello ci vorrebbe una sonante vittoria elettorale, VERA, non alle primarie del PD...).
3) Sicuramente il governo Letta non sarà rimpianto, come non lo fu il predecessore. Salvati i primi 4-5 mesi del governo dei tecnici, gli ultimi due anni sono stati pessimi. Come scrivevamo l'altro giorno, dei PIIGS, il brutto acronimo inventato per i paesi europei più in crisi, NOI siamo quelli che hanno fatto peggio nel cercare di recuperare ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/02/in-due-anni-e-mezzo-di-governi-del.html ). Da questo punto il decisionismo di Renzi suscita comprensibili speranze di una inversione di passo
4) Le difficoltà sono grandi, sia per i problemi da affrontare, sempre quelli, sempre tutti lì dopo due anni e mezzo di governi del Presidente (sarà almeno deluso Napolitano ? ), sia per la scarsa forza dell'esecutivo. Renzi sarà un ganzo rispetto a Monti e Letta (non ci vuole nemmeno molto, da quello che si è visto) ma resta che in Italia il Premier NON ha i poteri del sindaco. Leggo una aneddoto. Al momento dell'insediamento della giunta a Firenze Renzi nominò 10 assessori (pochi, rispetto agli usi), 5 uomini e 5 donne. Una di queste, conoscendo il suo pollo, gli chiese : "ma che in giunta si vota ?" e Matteo ineffabile "Certo! Ma il mio voto vale 11 ! ". Ecco, sta cosetta qui a Palazzo Chigi NON succede, e Berlusconi lo ha capito fin troppo bene a sue spese, pur vantando sulla carta,, sia nel 2001 che nel 2008, maggioranze forti, e non quella assai risicata che Renzi si ritroverà al Senato.
Grande Ricolfi. L'unica cosa nella quale non sono del tutto d'accordo è quando attribuisce al "primo Monti" (che il secondo, peraltro temporalmente prevalente...13 mesi su 18..., fu decisamente negativo) il merito della diminuzione dello spread, trovato a 550 punti nel 2011 e che ad aprile 2012 stava sopra ai 300. Questa cosa è vera, ma è altrettanto vero che all'inizio dell'estate, quindi appena due mesi dopo, l'indice era tornato esattamente al punto di novembre !! I mercati avevano fatto presto a perdere fiducia nel cambio di timoniere !
Ci volle DRAGHI per calmare veramente la pressione speculativa sui debiti sovrani, ed è grazie al Presidente della BCE se questa tregua ancora dura, che anzi oggi l'indice è a quota 200.
Un'ultima cosa, che non c'entra con il bell'articolo di Ricolfi. Ieri sera sono stato a cena con un caro amico e alcuni suoi amici. Persone simpaticissime, e tutte rigorosamente di sinistra. Quella "pura". E quindi tutti molto critici su Renzi, che, non si illuda, sarà sempre un papa straniero. Poi oggi ho letto l'intervento durissimo di Asor Rosa su Il Manifesto, sempre contro il Leader in pectore.
Be', se sta così antipatico a questa gente, tocca ricominciare a dargli fiducia a 'sto giovanotto...
Buona Lettura (ne vale veramente la pena)
L’obbligo di mirare in alto
Il giudizio della storia sui condottieri, siano essi
generali, leader politici o militanti rivoluzionari, non dipende quasi
mai dal modo, più o meno sbrigativo, in cui conquistano il potere, ma
dall’uso che ne fanno una volta saliti al comando. Così sarà per Matteo
Renzi, che giusto in queste ore sta assumendo la guida del Paese. Se
fallirà , tutti lo rimprovereranno: sei stato spregiudicato, hai tradito
l’amico Letta, ti sei autoproclamato premier, sei venuto meno alla
promessa di non scalare il potere senza una vittoria elettorale alle
spalle. Se avrà successo, anche gli indignati di oggi finiranno per
perdonarlo.
Istintivamente, mi sento più fra i perplessi che fra gli entusiasti. E tuttavia c’è una ragione che mi induce a sorvolare sulla evidente scorrettezza, o se preferite irritualità , del comportamento di Renzi. Questa ragione è puramente negativa, ma ha una sua forza. La riassumerei così: nessun rimpianto per quel che ci lasciamo alle spalle.
Può darsi che Renzi alla fine non combini nulla di buono, può darsi che provi a cambiare l’Italia e non ci riesca.
Può darsi – speriamo di no – che commetta degli errori. Però basta ripercorrere con un po’ di lucidità e di disincanto l’esperienza degli ultimi due anni per rendersi conto che è dalla primavera del 2012 che, nonostante la buona volontà di Monti e di Letta, l’Italia non ha un governo all’altezza dei suoi problemi. L’ultimo tentativo di governare il Paese (non entro qui nel merito se bene o male) risale ai primi 4-5 mesi del governo Monti, più o meno dal novembre del 2011 ad aprile 2012. In quel periodo venne varata la riforma delle pensioni (con il grave effetto collaterale dei cosiddetti esodati) e, dopo alti e bassi, venne fermata in qualche modo la corsa dello spread Italia-Germania, che nel marzo del 2012 tocca il minimo dell’anno. Dopo di allora è stata tutta una navigazione a vista, con alcune cose apprezzabili sia da parte di Monti sia da parte di Letta, ma senza una chiara direzione di marcia e soprattutto senza alcuna vera intenzione di mettere mano ai problemi più difficili. Dove per problemi più difficili non intendo le pur importantissime riforme delle regole (legge elettorale, bicameralismo, titolo V, regolamenti parlamentari) bensì i grandi nodi dell’ultimo quarto di secolo: mercato del lavoro, pressione fiscale sui produttori, ipertrofia burocratica e normativa, spreco di risorse pubbliche, parassitismo di intere porzioni di territorio.
E infatti, dalla primavera del 2012 ad oggi, ossia da quasi due anni, la condizione economico-sociale del Paese è enormemente peggiorata. Certo, ci raccontano che la ripresa è alle porte (la «vedeva» già Monti due anni fa), che lo spread con la Germania è migliorato, che la fiducia sta tornando. Ma è un racconto altamente fuorviante. Nei primi drammatici anni della crisi, fra il dicembre del 2008 e il dicembre 2011, l’Italia perdeva 76 mila posti di lavoro all’anno. Nel solo 2012 le perdite annue erano salite a 248 mila posti. E nel 2013, dopo la cura Monti e sotto lo sguardo pacato di Letta, hanno raggiunto la stratosferica cifra di 433 mila posti di lavoro distrutti in un solo anno. E mentre i nostri governanti si affannavano a convincere l’Europa che stavano facendo i compiti a casa, il giudizio dei mercati su di noi non ha fatto che peggiorare. Per rendersene conto basta usare il termine di paragone appropriato, che non è la Germania, ma sono i Paesi sottoposti a sorveglianza, ossia gli altri quattro PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Nella primavera del 2012 (alla fine della «luna di miele» del governo Monti) il vantaggio dei nostri titoli di Stato nei confronti di quelli dei PIGS era di circa 6 punti, oggi è ridotto a circa 1 punto. E il peggioramento, si noti bene, riguarda ciascuno dei quattro Paesi che stanno tentando di autoriformarsi: nel giro di appena 2 anni abbiamo perso circa 15 punti di vantaggio rispetto alla Grecia, 5 punti rispetto al Portogallo, 2 punti rispetto all’Irlanda, mezzo punto rispetto alla Spagna. Lo stesso discorso vale per l’andamento del Pil: anche noi, come tutti i Paesi europei, stiamo faticosamente uscendo dalla recessione (di qui la cautissima benevolenza di Moody’s sull’Italia), ma sfortunatamente siamo fra i Paesi che in questi 7 anni hanno perso più posizioni in termini di reddito, di ricchezza, di posti di lavoro.
Insomma, a mio parere il rimprovero di aver fatto poco, che così spesso viene mosso a Letta e a Monti (o meglio al secondo Monti, quello del dopo-emergenza), è fin troppo generoso: con i governi di unità nazionale, o di larghe intese, il Paese non è stato semplicemente fermo, bensì è andato indietro sui due terreni fondamentali, quello dell’occupazione e quello delle prospettive di crescita. Si tratta ora di provare, finalmente, ad andare avanti, ed è precisamente su questo che si giocherà la partita di Renzi.
Ma avanti in che direzione?
Qui intravedo due possibilità , o meglio due scenari. Nel primo, chiamiamolo scenario A, Renzi cerca di usare il consenso di cui gode per varare le riforme dolorose di cui il Paese avrebbe bisogno. Conseguenze: centralità della politica economico-sociale, disco verde a Cottarelli sulla spending review, meno tasse sui produttori, drastica riduzione degli adempimenti delle imprese, riforma radicale del mercato del lavoro (meno sussidi e più politiche attive), molte personalità esperte e indipendenti nei ministeri che contano.
Nel secondo, chiamiamolo scenario B, Renzi cerca soprattutto di massimizzare il suo consenso nel Paese e il suo controllo sul governo. Conseguenze: molta attenzione alla partita delle regole, varo di alcune misure anti-casta sacrosante, ma poco incisive sul piano dei conti pubblici, negoziato con l’Europa per ottenere flessibilità sui conti pubblici, cautela sul mercato del lavoro, un paio di sindacalisti nel governo, giovani ministre e ministri di sicura fede renziana nei dicasteri chiave.
Inutile dire quale dei due scenari sia più utile all’Italia. Quanto a Renzi, non so se avrà il coraggio di scegliere lo scenario giusto, ma ho l’impressione che mirare in alto, a un vero cambiamento del Paese, sia l’unica strada per farsi perdonare lo strappo che l’ha portato al potere.
Istintivamente, mi sento più fra i perplessi che fra gli entusiasti. E tuttavia c’è una ragione che mi induce a sorvolare sulla evidente scorrettezza, o se preferite irritualità , del comportamento di Renzi. Questa ragione è puramente negativa, ma ha una sua forza. La riassumerei così: nessun rimpianto per quel che ci lasciamo alle spalle.
Può darsi che Renzi alla fine non combini nulla di buono, può darsi che provi a cambiare l’Italia e non ci riesca.
Può darsi – speriamo di no – che commetta degli errori. Però basta ripercorrere con un po’ di lucidità e di disincanto l’esperienza degli ultimi due anni per rendersi conto che è dalla primavera del 2012 che, nonostante la buona volontà di Monti e di Letta, l’Italia non ha un governo all’altezza dei suoi problemi. L’ultimo tentativo di governare il Paese (non entro qui nel merito se bene o male) risale ai primi 4-5 mesi del governo Monti, più o meno dal novembre del 2011 ad aprile 2012. In quel periodo venne varata la riforma delle pensioni (con il grave effetto collaterale dei cosiddetti esodati) e, dopo alti e bassi, venne fermata in qualche modo la corsa dello spread Italia-Germania, che nel marzo del 2012 tocca il minimo dell’anno. Dopo di allora è stata tutta una navigazione a vista, con alcune cose apprezzabili sia da parte di Monti sia da parte di Letta, ma senza una chiara direzione di marcia e soprattutto senza alcuna vera intenzione di mettere mano ai problemi più difficili. Dove per problemi più difficili non intendo le pur importantissime riforme delle regole (legge elettorale, bicameralismo, titolo V, regolamenti parlamentari) bensì i grandi nodi dell’ultimo quarto di secolo: mercato del lavoro, pressione fiscale sui produttori, ipertrofia burocratica e normativa, spreco di risorse pubbliche, parassitismo di intere porzioni di territorio.
E infatti, dalla primavera del 2012 ad oggi, ossia da quasi due anni, la condizione economico-sociale del Paese è enormemente peggiorata. Certo, ci raccontano che la ripresa è alle porte (la «vedeva» già Monti due anni fa), che lo spread con la Germania è migliorato, che la fiducia sta tornando. Ma è un racconto altamente fuorviante. Nei primi drammatici anni della crisi, fra il dicembre del 2008 e il dicembre 2011, l’Italia perdeva 76 mila posti di lavoro all’anno. Nel solo 2012 le perdite annue erano salite a 248 mila posti. E nel 2013, dopo la cura Monti e sotto lo sguardo pacato di Letta, hanno raggiunto la stratosferica cifra di 433 mila posti di lavoro distrutti in un solo anno. E mentre i nostri governanti si affannavano a convincere l’Europa che stavano facendo i compiti a casa, il giudizio dei mercati su di noi non ha fatto che peggiorare. Per rendersene conto basta usare il termine di paragone appropriato, che non è la Germania, ma sono i Paesi sottoposti a sorveglianza, ossia gli altri quattro PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Nella primavera del 2012 (alla fine della «luna di miele» del governo Monti) il vantaggio dei nostri titoli di Stato nei confronti di quelli dei PIGS era di circa 6 punti, oggi è ridotto a circa 1 punto. E il peggioramento, si noti bene, riguarda ciascuno dei quattro Paesi che stanno tentando di autoriformarsi: nel giro di appena 2 anni abbiamo perso circa 15 punti di vantaggio rispetto alla Grecia, 5 punti rispetto al Portogallo, 2 punti rispetto all’Irlanda, mezzo punto rispetto alla Spagna. Lo stesso discorso vale per l’andamento del Pil: anche noi, come tutti i Paesi europei, stiamo faticosamente uscendo dalla recessione (di qui la cautissima benevolenza di Moody’s sull’Italia), ma sfortunatamente siamo fra i Paesi che in questi 7 anni hanno perso più posizioni in termini di reddito, di ricchezza, di posti di lavoro.
Insomma, a mio parere il rimprovero di aver fatto poco, che così spesso viene mosso a Letta e a Monti (o meglio al secondo Monti, quello del dopo-emergenza), è fin troppo generoso: con i governi di unità nazionale, o di larghe intese, il Paese non è stato semplicemente fermo, bensì è andato indietro sui due terreni fondamentali, quello dell’occupazione e quello delle prospettive di crescita. Si tratta ora di provare, finalmente, ad andare avanti, ed è precisamente su questo che si giocherà la partita di Renzi.
Ma avanti in che direzione?
Qui intravedo due possibilità , o meglio due scenari. Nel primo, chiamiamolo scenario A, Renzi cerca di usare il consenso di cui gode per varare le riforme dolorose di cui il Paese avrebbe bisogno. Conseguenze: centralità della politica economico-sociale, disco verde a Cottarelli sulla spending review, meno tasse sui produttori, drastica riduzione degli adempimenti delle imprese, riforma radicale del mercato del lavoro (meno sussidi e più politiche attive), molte personalità esperte e indipendenti nei ministeri che contano.
Nel secondo, chiamiamolo scenario B, Renzi cerca soprattutto di massimizzare il suo consenso nel Paese e il suo controllo sul governo. Conseguenze: molta attenzione alla partita delle regole, varo di alcune misure anti-casta sacrosante, ma poco incisive sul piano dei conti pubblici, negoziato con l’Europa per ottenere flessibilità sui conti pubblici, cautela sul mercato del lavoro, un paio di sindacalisti nel governo, giovani ministre e ministri di sicura fede renziana nei dicasteri chiave.
Inutile dire quale dei due scenari sia più utile all’Italia. Quanto a Renzi, non so se avrà il coraggio di scegliere lo scenario giusto, ma ho l’impressione che mirare in alto, a un vero cambiamento del Paese, sia l’unica strada per farsi perdonare lo strappo che l’ha portato al potere.
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