lunedì 21 luglio 2014

GLI ISRAELIANI DIVISI DA SEMPRE SUL MODO DI OTTENERE LA PACE


Leggo con preoccupazione e anche perplessità le notizie che giungono dal medio oriente. La perplessità nasce dai dettagli minuziose delle cronache di guerra. Quelli che non si hanno quando un conflitto non coinvolge israele.
La stampa mondiale non si mobilita allo stesso modo in Siria, per non parlare di altri fronti. 
Da sempre è così, perché i media non seguono le notizie ma i lettori. E a questi ultimi dei 100.000 e passa morti di Aleppo, Homs, Damasco ecc.,  non gliene frega nulla. Ma quando c'è di mezzo Israele, gli "ebrei", la cosa cambia e tanto.
Ho provato a leggere dei libri sulla storia di quella parte del mondo, la Palestina, la nascita di Israele, le guerre e le intifada  ( "La guerra del Kippur" di Herzog ;  "Il Settimo milione" di Segev
Non voglio sembrare "terzista" o "neutrale", perché di fatto non lo sono nel momento in cui affermo con convinzione assoluta il diritto di Israele di esistere, e farlo lì, dove si trova e dove per secoli nel passato è stato. Allo stesso tempo, penso che anche i palestinesi, che pure non l'hanno mai avuto, nella loro storia di soggezione sempre a quelche padrone diverso (non è MAI esistito uno stato palestinese nella storia dell'umanità), abbiano diritto ad un loro territorio, alla loro indipendenza e al loro governo.
Due popoli e due stati. Due ostacoli enormi a questo. Partiamo dal secondo. Anche tra coloro che sono convinti che questa sia la soluzione, non c'è mai intesa sulle dimensioni e i confini di questi due stati. 
Il primo è peggio : una forte componente degli israeliani (la metà almeno) e assai di più tra i palestinesi, negano il diritto di esistere degli altri. Il Grande Israele, da una parte, la cancellazione dalla cartina geografica anche di uno piccolo, dall'altra.
Sono più di 100 anni che va così, e non c'è una sola famiglia che non abbia i suoi morti.
I giornali italiani maggiori, ospitano più spesso scrittori e pensatori israeliani di "sinistra", quelli che pensano che la pace valga il sacrificio di compromessi dolorosi (gli unici veri). 
Anche oggi sul Corriere è così, e io l'ho letto, mi è piaciuto e lo condivido. 
Sarò contento di leggere un articolo simile scritto da un palestinese.
Non lo dico polemicamente, è solo la mia esperienza : non mi capita. Non mi accadeva quando leggevo Repubblica, non mi succede oggi col Corsera. 
Sicuramente sarò stato poco attento, però un'altra spiegazione c'è. E sta nei numeri citati sopra : circa la metà degli ebrei di Israele (non so nel mondo, ma sarei portato a pensare che la proporzione resti quella) è pronta a sacrifici importanti sia dal punto di vista dei territori che dei simboli, pur di vivere in pace, in sicurezza ; questo numero scende enormemente in campo palestinese. 
Le spiegazioni possono essere diverse - senso di cedere ad un sopruso, costretti dalla forza dell'altro - ma il risultato poi è quello. 
Comunque, il contributo di Etgar Keret è da leggere.



Israele, l’esercito potrà anche vincere,
ma il Paese perderà

Dodici anni, quattro operazioni a Gaza e siamo rimasti con lo stesso slogan distorto

di Etgar Keret*

 
Nell’ultima settimana mi imbatto sempre più spesso in un noto slogan: «Let the Idf win», ovvero: «Lasciate vincere l’esercito israeliano». Molti dei ragazzi che lo citano sulle loro pagine Facebook sono sicuri che sia stato appena inventato in onore dell’operazione in corso a Gaza. Io, però, sono abbastanza vecchio da ricordare che è nato come adesivo per auto e in seguito è divenuto un mantra. Questo slogan, ovviamente, non è destinato a Hamas o ai cittadini dei Paesi europei ma alla gente che vive qui e racchiude la maledetta visione del mondo di Israele negli ultimi quattordici anni. Il suo primo, errato, presupposto è che in Israele c’è chi impedisce all’esercito di ottenere una vittoria e di conseguenza la pace e la tranquillità auspicate. Tali entità sabotatrici sono, ovviamente, io, mia moglie e tutti i nostri amici della sinistra che, di volta in volta, impediamo al nostro onnipotente esercito di vincere incatenandone le possenti braccia con articoli noiosi e appelli disfattisti a mostrare sentimenti di umanità e di empatia. Se non ci fossero dei traditori come noi l’esercito israeliano avrebbe già vinto da un sacco di tempo portandoci la pace alla quale aneliamo per l’eternità. L’altro presupposto, molto più pericoloso, è che l’esercito, di fatto, può vincere. «Siamo pronti a sopportare tutti questi razzi, senza nessuna tregua» dice la famiglia di turno intervistata nel sud di Israele «purché questa storia finisca una volta per sempre».
Dodici anni, quattro operazioni a Gaza e siamo rimasti con lo stesso slogan distorto. I bambini che andavano in prima elementare durante l’operazione «Scudo difensivo» sono ora soldati che entrano a Gaza e in ognuna di queste operazioni c’è sempre qualche politico di destra e qualche analista militare che spiega che «questa volta dovremo andare fino in fondo». E quando li guardi sullo schermo non puoi fare a meno di chiederti a quale «fondo» si riferiscano. Perché anche se tutti i combattenti di Hamas verranno annientati qualcuno crede davvero che, assieme a loro, sarà annientata anche l’aspirazione del popolo palestinese all’indipendenza nazionale? Prima di Hamas abbiamo combattuto contro l’Olp e dopo Hamas, con la speranza di essere ancora qui, combatteremo certamente contro qualche altra organizzazione palestinese. L’esercito potrà vincere le battaglie ma solo un compromesso politico potrà garantire pace e sicurezza ai cittadini israeliani. Ma questo, secondo le forze patriottiche che gestiscono la campagna in corso, è proibito dirlo perché sono proprio discorsi del genere a ostacolare la vittoria dell’esercito. Quindi, quando l’operazione sarà finita e ognuna delle due parti conterà i propri morti, ancora una volta il dito accusatore sarà puntato verso di noi.
È terribile commettere un errore tragico che può costare la vita a molte persone. È molto più terribile commetterlo ancora e ancora e ancora. Quattro operazioni, un numero enorme di morti e torniamo sempre allo stesso punto. L’unica cosa che cambia è la tolleranza della società israeliana verso le critiche. Durante quest’ultima operazione abbiamo potuto constatare che la destra ha perso la pazienza nei confronti del confuso concetto di «libertà di espressione». Nelle ultime due settimane siamo stati testimoni del pestaggio di manifestanti della sinistra da parte di attivisti della destra, di apertura di pagine di Facebook chiamate «Morte a quelli di sinistra» e di appelli al boicottaggio di chi potrebbe impedire all’esercito di ottenere l’agognata vittoria. A quanto pare il sanguinoso percorso compiuto da un’operazione all’altra in Israele non è circolare, come pensavamo. È a spirale e la direzione di questa spirale è verso il basso, verso nuovi baratri che, purtroppo, avremo modo di conoscere.
(Traduzione di Alessandra Shomroni )
*Etgar Keret, 46 anni, è uno scrittore e regista israeliano. Fra le sue opere, la raccolta di racconti «Missing Kissinger» e il film «Jellyfish», premiato al festival di Cannes nel 2007


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