Il processo sulla presunta trattativa stato-mafia - Al Quirinale è salito anche il difensore di Totò Riina
Napolitano, deposizione di tre ore
«Ha risposto a tutte le domande»
La Presidenza della Repubblica auspica al più presto la trascrizione della registrazione per dare tempestivamente notizia all’opinione pubblica con la massima trasparenza
Giorgio Napolitano (Ansa/Di Meo)
È cominciata poco dopo le 10.30 ed è durata circa tre ore e mezza (con
un quarto d’ora di pausa) la deposizione del capo dello Stato
Giorgio Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo nel processo
sulla presunta trattativa Stato-mafia nei primi anni 90. Una
testimonianza inedita resa al Quirinale davanti a giudici e avvocati,
tra cui quello di Totò Riina, ma non agli imputati.
«Il presidente della Repubblica, che aveva dato la sua disponibilità a testimoniare, ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa» fa sapere una nota del Quirinale. «La Presidenza della Repubblica auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità» si legge ancora nel comunicato del Colle.
Napolitano ha risposto sotto giuramento alle domande dei pm e dei legali in un processo che vede imputati una decina di persone tra alti gradi militari e capi mafia, oltre all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino imputato di falsa testimonianza.
«Il presidente della Repubblica, che aveva dato la sua disponibilità a testimoniare, ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa» fa sapere una nota del Quirinale. «La Presidenza della Repubblica auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità» si legge ancora nel comunicato del Colle.
Napolitano ha risposto sotto giuramento alle domande dei pm e dei legali in un processo che vede imputati una decina di persone tra alti gradi militari e capi mafia, oltre all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino imputato di falsa testimonianza.
I legali
Altre
notizie sull’udienza sono arrivate in ordine sparso dagli avvocati
presenti durante la deposizione, mentre uscivano dal Quirinale.
«Giorgio Napolitano ha riferito che, all’epoca, non aveva mai saputo di
accordi» tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi,
ha detto Giovanni Airo’ Farulla, avvocato del Comune di Palermo. «La
parola “trattativa” non è mai stata usata» ha riferito ancora il
legale, secondo il quale il capo dello Stato ha risposto anche alle
domande dell’avvocato di Totò Riina».
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Napolitano sentito dai giudici al Quirinale
«Con D’Ambrosio eravamo una squadra di lavoro»
Uno dei nodi dell’udienza era raccogliere i ricordi del capo dello
Stato su quel che gli scrisse, cinque settimane prima di morire, il suo
consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel giugno 2012, dopo essere
stato sentito dai pm di Palermo. D’Ambrosio, che è morto d’infarto, era
stato interrogato circa le sue telefonate con Nicola Mancino, imputato
di falsa testimonianza nel processo per la trattativa. Nella lettera a
Napolitano, che è stata peraltro resa pubblica dal Quirinale, D’Ambrosio
manifestava il suo timore di poter essere considerato «utile scriba di
indicibili accordi» negli anni Novanta, quando come magistrato era in
servizio prima all’antimafia e poi al Dap.
Secondo quanto riferisce l’avvocato Massimo Krogh, che con Nicoletta Piergentili difende Nicola Mancino, Giorgio Napolitano ha detto che il «vivo timore» di essere usato come «utile scriba di indicibili accordi» tra l’89 e il ‘93 del suo ex consigliere giuridico «era una mera ipotesi priva di basi oggettive». Ha aggiunto l’avvocato Piergentili che Napolitano ha parlato di una «squadra di lavoro» a proposito di lui e D’Ambrosio. Nessuna informazione però sul contenuto dei loro colloqui. Un altro avvocato, Paolo Romito, ha anche riferito che il presidente della Repubblica «ha tenuto a confermare che aveva dei rapporti di collaborazione e di lavoro con Loris D’Ambrosio, ma oltre quelli non andava».
Già lo scorso novembre il capo dello Stato aveva inviato una lettera al presidente della Corte, Alfredo Montalto, in cui diceva di non aver avuto «ragguagli» da D’Ambrosio riguardo a quei timori e, pertanto, di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo».
Secondo quanto riferisce l’avvocato Massimo Krogh, che con Nicoletta Piergentili difende Nicola Mancino, Giorgio Napolitano ha detto che il «vivo timore» di essere usato come «utile scriba di indicibili accordi» tra l’89 e il ‘93 del suo ex consigliere giuridico «era una mera ipotesi priva di basi oggettive». Ha aggiunto l’avvocato Piergentili che Napolitano ha parlato di una «squadra di lavoro» a proposito di lui e D’Ambrosio. Nessuna informazione però sul contenuto dei loro colloqui. Un altro avvocato, Paolo Romito, ha anche riferito che il presidente della Repubblica «ha tenuto a confermare che aveva dei rapporti di collaborazione e di lavoro con Loris D’Ambrosio, ma oltre quelli non andava».
Già lo scorso novembre il capo dello Stato aveva inviato una lettera al presidente della Corte, Alfredo Montalto, in cui diceva di non aver avuto «ragguagli» da D’Ambrosio riguardo a quei timori e, pertanto, di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo».
«Mai turbato da rischi attentato»
Il secondo grosso tema della deposizione è stato ciò che il presidente
sa circa un attentato che la mafia avrebbe progettato contro di lui nel
1993, quando era presidente della Camera. Su questo, ha raccontato
alcuni particolari dell’udienza Ettore Barcellona, avvocato di parte
civile del centro Pio La Torre. Ovvero che nel 1993 Giorgio Napolitano,
allora presidente della Camera, era al corrente del rischio attentato
nei suoi confronti da parte di Cosa nostra. «Sul rischio attentati in
quegli anni - dice Barcellona a Rai News 24 -
il presidente si è limitato a dire che era stato avvisato e che ha
avuto i sistemi di sicurezza rafforzati intorno alla sua persona. Il
presidente - continua il legale - ha poi raccontato che poco tempo dopo
alcuni accertamenti avevano allentato questo pericolo». Napolitano ha
riferito, inoltre, secondo l’avvocato Piergentili della difesa di
Nicola Mancino, di non essere stato mai «minimamente turbato» delle
notizie su presunti attentati alla sua persona nel 1993. Questo «perché
faceva parte del suo ruolo istituzionale».
La delegazione
Al
Colle sono saliti il procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, i
sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Tra
gli avvocati delle sette parti civili e dei dieci imputati (questi
ultimi non ammessi dalla Corte a partecipare direttamente o in
videoconferenza alla testimonianza del Capo dello Stato), ha varcato la
soglia del Quirinale anche l’avvocato Luca Cianferoni, legale del boss
di Cosa Nostra, Totò Riina.
Il legale di Riina
«Esco come difensore da questa udienza con delle carte da giocare», ha
detto Luca Cianferoni, difensore di Riina, all’uscita dal Quirinale. Il
presidente della Repubblica «ha tenuto sostanzialmente a dire che lui
era uno spettatore di questa vicenda» ha commentato l’avvocato del boss
all’uscita dal Colle. Poi ha sottolineato che «la Corte non ha ammesso
la domanda più importante», quella sul colloquio tra il presidente
Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il
famoso «non ci sto!».
La vicenda
L’accusa
al processo sostiene che una presunta trattativa sarebbe stata
intavolata con i capi di Cosa nostra da esponenti delle istituzioni per
evitare il ricorso alla violenza, dopo l’attentato contro il giudice
Giovanni Falcone (di cui D’Ambrosio è stato stretto collaboratore) nella
primavera del 1992. In particolare, secondo i pm, Mancino, insediatosi
al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe
mentito agli inquirenti sui rapporti tra organi dello Stato, in
particolare i servizi segreti, e boss di Cosa Nostra. Mancino respinge
ogni accusa. Ma l’ex ministro, preoccupato per l’inchiesta che lo
riguardava, ha compiuto diverse telefonate al Quirinale nel 2011,
intercettate dalla magistratura, contattando D’Ambrosio e lo stesso
presidente Napolitano. Il Capo dello Stato ha ritenuto che le
intercettazioni che lo riguardavano direttamente ledessero le sue
prerogative costituzionali e la Consulta gli ha dato ragione ottenendo
la loro distruzione.
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