martedì 28 ottobre 2014

NAPOLITANO ASCOLTATO AL QUIRINALE. COMMENTI DEGLI AVVOCATI : "HA RISPOSTO A TUTTO" ; "MOLTI NON RICORDO".

Si è polemizzato molto e si continuerà a farlo sulla legittimità, opportunità, valenza della testimonianza che il Presidente della Repubblica è stato chiamato oggi a rendere alla Corte d'Assise di Palermo. Intanto però ecco la descrizione della giornata, come proposta dalla redazione on line del Corriere della Sera





Napolitano, deposizione di tre ore
«Ha risposto a tutte le domande»

La Presidenza della Repubblica auspica al più presto la trascrizione della registrazione per dare tempestivamente notizia all’opinione pubblica con la massima trasparenza

di Redazione Online


Giorgio Napolitano (Ansa/Di Meo) Giorgio Napolitano (Ansa/Di Meo)
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È cominciata poco dopo le 10.30 ed è durata circa tre ore e mezza (con un quarto d’ora di pausa) la deposizione del capo dello Stato Giorgio Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia nei primi anni 90. Una testimonianza inedita resa al Quirinale davanti a giudici e avvocati, tra cui quello di Totò Riina, ma non agli imputati.
«Il presidente della Repubblica, che aveva dato la sua disponibilità a testimoniare, ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa» fa sapere una nota del Quirinale. «La Presidenza della Repubblica auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità» si legge ancora nel comunicato del Colle.
Napolitano ha risposto sotto giuramento alle domande dei pm e dei legali in un processo che vede imputati una decina di persone tra alti gradi militari e capi mafia, oltre all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino imputato di falsa testimonianza.


I legali
Altre notizie sull’udienza sono arrivate in ordine sparso dagli avvocati presenti durante la deposizione, mentre uscivano dal Quirinale. «Giorgio Napolitano ha riferito che, all’epoca, non aveva mai saputo di accordi» tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi, ha detto Giovanni Airo’ Farulla, avvocato del Comune di Palermo. «La parola “trattativa” non è mai stata usata» ha riferito ancora il legale, secondo il quale il capo dello Stato ha risposto anche alle domande dell’avvocato di Totò Riina».

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Napolitano sentito dai giudici al Quirinale

«Con D’Ambrosio eravamo una squadra di lavoro»
Uno dei nodi dell’udienza era raccogliere i ricordi del capo dello Stato su quel che gli scrisse, cinque settimane prima di morire, il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel giugno 2012, dopo essere stato sentito dai pm di Palermo. D’Ambrosio, che è morto d’infarto, era stato interrogato circa le sue telefonate con Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza nel processo per la trattativa. Nella lettera a Napolitano, che è stata peraltro resa pubblica dal Quirinale, D’Ambrosio manifestava il suo timore di poter essere considerato «utile scriba di indicibili accordi» negli anni Novanta, quando come magistrato era in servizio prima all’antimafia e poi al Dap.
Secondo quanto riferisce l’avvocato Massimo Krogh, che con Nicoletta Piergentili difende Nicola Mancino, Giorgio Napolitano ha detto che il «vivo timore» di essere usato come «utile scriba di indicibili accordi» tra l’89 e il ‘93 del suo ex consigliere giuridico «era una mera ipotesi priva di basi oggettive». Ha aggiunto l’avvocato Piergentili che Napolitano ha parlato di una «squadra di lavoro» a proposito di lui e D’Ambrosio. Nessuna informazione però sul contenuto dei loro colloqui. Un altro avvocato, Paolo Romito, ha anche riferito che il presidente della Repubblica «ha tenuto a confermare che aveva dei rapporti di collaborazione e di lavoro con Loris D’Ambrosio, ma oltre quelli non andava».
Già lo scorso novembre il capo dello Stato aveva inviato una lettera al presidente della Corte, Alfredo Montalto, in cui diceva di non aver avuto «ragguagli» da D’Ambrosio riguardo a quei timori e, pertanto, di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo».


«Mai turbato da rischi attentato»
Il secondo grosso tema della deposizione è stato ciò che il presidente sa circa un attentato che la mafia avrebbe progettato contro di lui nel 1993, quando era presidente della Camera. Su questo, ha raccontato alcuni particolari dell’udienza Ettore Barcellona, avvocato di parte civile del centro Pio La Torre. Ovvero che nel 1993 Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera, era al corrente del rischio attentato nei suoi confronti da parte di Cosa nostra. «Sul rischio attentati in quegli anni - dice Barcellona a Rai News 24 - il presidente si è limitato a dire che era stato avvisato e che ha avuto i sistemi di sicurezza rafforzati intorno alla sua persona. Il presidente - continua il legale - ha poi raccontato che poco tempo dopo alcuni accertamenti avevano allentato questo pericolo». Napolitano ha riferito, inoltre, secondo l’avvocato Piergentili della difesa di Nicola Mancino, di non essere stato mai «minimamente turbato» delle notizie su presunti attentati alla sua persona nel 1993. Questo «perché faceva parte del suo ruolo istituzionale».


La delegazione
Al Colle sono saliti il procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Tra gli avvocati delle sette parti civili e dei dieci imputati (questi ultimi non ammessi dalla Corte a partecipare direttamente o in videoconferenza alla testimonianza del Capo dello Stato), ha varcato la soglia del Quirinale anche l’avvocato Luca Cianferoni, legale del boss di Cosa Nostra, Totò Riina.


Il legale di Riina
«Esco come difensore da questa udienza con delle carte da giocare», ha detto Luca Cianferoni, difensore di Riina, all’uscita dal Quirinale. Il presidente della Repubblica «ha tenuto sostanzialmente a dire che lui era uno spettatore di questa vicenda» ha commentato l’avvocato del boss all’uscita dal Colle. Poi ha sottolineato che «la Corte non ha ammesso la domanda più importante», quella sul colloquio tra il presidente Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il famoso «non ci sto!».


La vicenda
L’accusa al processo sostiene che una presunta trattativa sarebbe stata intavolata con i capi di Cosa nostra da esponenti delle istituzioni per evitare il ricorso alla violenza, dopo l’attentato contro il giudice Giovanni Falcone (di cui D’Ambrosio è stato stretto collaboratore) nella primavera del 1992. In particolare, secondo i pm, Mancino, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito agli inquirenti sui rapporti tra organi dello Stato, in particolare i servizi segreti, e boss di Cosa Nostra. Mancino respinge ogni accusa. Ma l’ex ministro, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha compiuto diverse telefonate al Quirinale nel 2011, intercettate dalla magistratura, contattando D’Ambrosio e lo stesso presidente Napolitano. Il Capo dello Stato ha ritenuto che le intercettazioni che lo riguardavano direttamente ledessero le sue prerogative costituzionali e la Consulta gli ha dato ragione ottenendo la loro distruzione.

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