venerdì 5 dicembre 2014

SE LE PAROLE HANNO UN SENSO, ROMA VA COMMISSARIATA


Se le parole hanno un senso, osserva in modo ineccepibile Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, il Comune di Roma deve essere sciolto. O lo fanno da soli, in un rigurgito - improbabile - di senso della decenza, oppure d'imperio, per ordine del Prefetto.
Se infatti tutti parlano di Mafia infiltrata, con tanta disinvoltura, a partire dal Procuratore Capo di Roma, il Dr. Pignatone, per proseguire con i giornaloni TUTTI, nei gangli del consiglio e del governo comunale, che se ne traggano le dovute conseguenze.
Oppure si usino meglio le parole, oltre che i propri poteri.
Ciò posto, al di là della pittoresca immagine della Capitale in mano ad una piovra autoctona, resta che quanto sta emergendo dalle cronache non è esaltante, ancorché io mi stupisco nel vedere amici grandi e vaccinati che si mostrano sbalorditi. E' gente matura di età, intelligente, impegnata in professioni che certe realtà, mai condivise ( sicuramente per mancanza di opportunità. Se l'occasione fosse capitata avrebbero rifiutato, o forse no), sicuramente potevano essere intuite. 
Insomma, che la cosa pubblica sia un immenso affare, il principale a Roma, chi non lo sa ? E per accaparrarsi questi affari girano i soldi, mica i meriti. E anche questo si sa. Che gli unici a guadagnare dal tutto siano amministratori e imprenditori, non la popolazione, questo si vede, ed è il problema grave, quello vero, per uno come chi scrive che non ha particolari fibrillazioni moralistiche.
Per me un politico deve essere capace, bravo a gestire ed amministrare la res pubblica. Se poi nel farlo, bene ripeto, si arricchisce pure, buon per lui. A me interessa che la città funzioni.
Invece così non è.
E sono assolutamente d'accordo quando Battista, romano che ama Roma, sposa la protesta e la polemica anti capitale, con i sindaci di turno a chiedere denari al governo centrale per ripianare deficit che servono a finanziare il ladrocinio. 
Magari, il prossimo sindaco avrà più pudore a fare l'ennesima questua. 



Il pd deve ripulirsi 
l’ora delle scuse è arrivata per tutti



Se fosse la mafia ad essersi messa in tasca la città, non si capirebbe davvero per quali contorcimenti logici, o per quale ambiguo senso delle opportunità, Roma non debba seguire la sorte dei tanti piccoli e grandi Comuni sciolti a causa delle infiltrazioni mafiose. Si dice sempre che le inchieste giudiziarie non devono dettare i tempi della politica (e viceversa). Ma i magistrati di Roma, invocando quel termine terribile e mostruoso — «mafia» — come connotazione dell’intreccio malavitoso in cui Roma rischia di soffocare, si sono consapevolmente presi una grossa responsabilità. Se quel groviglio di malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a far da padrona?
I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell, nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica.
Matteo Orfini, che ha assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo? Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino «immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga. Quel «tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione, una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei cittadini, romani e non.
E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al banchetto sugli appalti per i campi nomadi. Le Coop che si sono appoggiate così a lungo a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della magistratura, alle cosche.

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