Davide Giacalone è siciliano, come Sergio Mattarella, e conosce bene, anche per esperienza diretta - fu un giovane esponente della dirigenza del Partito Repubblicano, responsabile dell'ufficio stampa dei tempi di Spadolini presidente del Consiglio - i democristiani della Prima Repubblica, di cui l' attuale giudice costituzionale è esponente.
Questa sua esperienza delle cose e della gente della sua regione nonché dei politici di lungo corso della DC che fu, lo rendono persona attendibile nel tratteggiare il profilo del Presidente della Repubblica che Renzi ha scelto per l'Italia, e la definizione che usa è tranciante quanto desolante : "IL NIENTE CHE AVANZA".
Il perché lo spiega qui di seguito
Buona Lettura
Il niente che avanza
Sergio Mattarella al Quirinale sarebbe un gran colpo per Matteo Renzi, che regolerebbe a suo esclusivo vantaggio i conti interni al Partito democratico. I gran volponi del passato, da Massimo D’Alema fino a Pier Luigi Bersani e agli strateghi della Ditta, ci farebbero la figura dei galletti spennacchiati: si fa la sinistra solo quando decide Renzi e si fa vincere la sinistra solo se non rompe le scatole a Renzi. Il Pd si candida autorevolmente a essere la Dc del nuovo millennio. L’Italia si rassegni a dipendere dalle lotte di corrente. Spettacolo avvincente. Ma fuori da quell’arena la scelta di Mattarella è la scelta del niente. Ed è questa la sua forza.
Questo nome circola da un mese, proprio nella chiave che ho ruvidamente riassunto. Tutte le redazioni dei giornali erano pronte, eppure, dovendo illustrare e magnificare le gesta del candidato, non sono riuscite a trovare molto per riempire le pagine. Neanche nulla di male, intendiamoci. Perché è il niente, la sua forza.
Cercando un atto di coraggio si son trovate le sue dimissioni da ministro (dell’Istruzione), nel 1990, in supposta opposizione alla legge sull’emittenza, meglio nota come legge Mammì.
Peccato che la legge era nel programma del governo di cui Matterella faceva parte e passò con i voti di tutta la maggioranza, compresa la sinistra Dc. Peccato che la suddetta sinistra continuò a trattare fino alla fine, anche dopo le dimissioni, facendo partecipare agli incontri Guido Bodrato. Peccato che detta sinistra si batté, con successo, per far crescere ancora i poteri di un loro uomo, Biagio Agnes, che della Rai era l’imperatore. Peccato che il capogruppo Dc al Senato, Nicola Mancino, anch’egli della sinistra, assicurò la felice conclusione della vicenda. E peccato che il giorno dell’approvazione finale, in piena estate, al Senato mancasse il numero legale, ma nessuno pensò lontanamente di farlo rilevare, tanto era vasto l’accordo, comunisti compresi, per farla finita. Certo: i ministri della sinistra democristiana si dimisero. Ma ricordate la ragione? Perché Giulio Andreotti decise di mettere la fiducia, chiudendo il mercanteggiamento che andava avanti da lunga pezza. La legge, infine, fu poi modificata dalla legge Maccanico, allentando i vincoli che al gruppo di Silvio Berlusconi erano stati imposti (ad esempio sulla pubblicità nei film). A presiedere il governo era Romano Prodi, che forse qualche cosa ricorda, alla sinistra Dc.
Ma ammettiamo pure che le cose stiano come la leggenda racconta: eroicamente si batterono contro la legge e, sprezzanti del pericolo, si dimisero. Bene. Poi si fece un referendum e il popolo s’espresse a favore di ciò contro cui s’erano immolati. Prendere una bocciatura popolare come buon viatico verso il Colle è, suppongo, un moto di spirito. E non basta: se la vantata opposizione viene sventolata per raccontare l’antichità dell’opposizione al ruolo di Silvio Berlusconi, anche questo è uno strano viatico, perché opporglisi è legittimo quanto detestarlo, ma sta di fatto che, successivamente, egli assunse un ruolo politico e ripetutamente raccolse la maggioranza dei consensi elettorali. Sicuri di volere riportare al Quirinale la radiazione fossile di quella guerra civile a bassa intensità?
Veniamo al capitolo mafia. Massimo Bordin, su Il Foglio, è stato preciso nel ricordare le accuse di mafia che Danilo Dolci rivolse a Bernardo Mattarella, padre di Sergio. Va anche ricordato, però, che per quello Dolci fu condannato. Il cielo mi guardi dal prendere le sentenze quale fonte di verità, ma manco si possono ignorare. Bordin ricorda anche, e bene, che fu Mattarella fratello a proporre e portare Vito Ciancimino alla carica di sindaco di Palermo. Don Vito, lui. Così come scrive di Piersanti, che la mafia uccise. Non certo in segno di amicizia.
Ma lasciamo da parte le cose di famiglia (il fatto che facciano politica le cordate familiari non è bello, ma non è la sola famiglia cui capita e s’usa anche negli Stati Uniti). Trovo più significativo che Sergio Mattarella sia stato fra gli sponsor, taluni lo descrivono come il suo creatore, di Leoluca Orlando Cascio, sempre quale sindaco di Palermo. Ovvero del politico che più apertamente e con trasporto attaccò Giovanni Falcone, come anche il carabiniere Antonino Lombardo. Li accusava di favorire la mafia. Il primo fu ucciso e il secondo si suicidò.
Non mi pare un tema quirinalmente rilevante il fatto che egli prenda la pensione, oltre al vitalizio da ex parlamentare e all’emolumento quale giudice costituzionale. Trovo divertente che la cosa sia rimproverata al solo che non lo fa.
Di Mattarella si elogiano i silenzi. E forse questo è il niente più ingannevole: già ci furono silenti cui i corazzieri stimolarono la loquacità. Chi punta sul debole sottovaluta la determinazione e l’autostima necessari per vivere una vita senza esporsi. L’inquilino uscente, del resto, ne è stato un esempio.
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