martedì 27 gennaio 2015

QUANDO LA CONDANNA NON BASTA. GLI ECCESSI DELLA REQUISITORIA CONTRO SCHETTINO


Bella questa riflessione di Goffredo Buccini nella pagina delle opinioni del Corriere della Sera che, senza certo difendere il personaggio Schettino - sarebbe arduo - biasima l'accanimento dialettico della pubblica accusa, che come sempre non resiste alla tentazione di strizzare l'occhio alla pancia del pubblico, di cui cerca l'applauso.
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Schettino va giudicato
senza umiliazioni di troppo 
 
In Olanda, «Schettino» è il titolo di un surreale spettacolo di cabaret: monologhi sui leader da evitare. In America i repubblicani l’hanno usato come epiteto contro Obama: «Sei uno Schettino, abbandoni il Paese per andare in giro a raccogliere voti». A Taiwan ne hanno fatto un raccapricciante cartone animato. Dalle Alpi a Lampedusa, quel cognome è usato ormai come sinonimo di fellonia, in un meccanismo di de-umanizzazione che trova un precedente di potenza analoga soltanto in Girolimoni: il fotografo incastrato come pedofilo assassino dalla polizia fascista era peraltro innocente, ma girolimo ni! è stato lungo tutto il Novecento insulto corrente per l’adulto che va con le ragazzine.
Insomma, diciamolo chiaro: per garantire a Francesco Schettino un processo non gravato da una montagna di emotività e pubblica riprovazione, bisognerebbe forse rifugiarsi in un igloo del polo o in una capanna della foresta amazzonica. È normale che sia così. Nel caso del naufragio del Giglio, col suo carico di morte, dolore e vergogna per l’Italia, non c’è certo da menar scandalo per l’indignazione popolare.
Tuttavia qualcosa colpisce nella requisitoria terminata ieri a Grosseto contro il capitano che mandò la Costa Concordia a sbattere sugli scogli, mettendosi quindi in salvo prima dei suoi passeggeri. E non è la pena richiesta di 26 anni e tre mesi («quasi l’ergastolo, manco Pacciani...», hanno commentato i difensori): certo durissima ma, a nostro avviso, non sproporzionata ai fatti in un’ipotesi di colpevolezza.
È piuttosto un quid pluris , quel qualcosa di più e di non dovuto, che i pm toscani hanno sentito il bisogno di dire contro l’imputato. Usare lo schermo della dottrina giuridica per dargli a man salva dell’«incauto idiota»; tirare in ballo il Padreterno, che di norma dovrebbe star fuori dalle aule della giustizia terrena, «Dio abbia pietà di Schettino, perché noi non possiamo averne alcuna...»: un siffatto apparato dialettico sembra travalicare alquanto l’obiettivo della condanna, e dunque della giusta rivalsa dello Stato sul reo, prefigurando piuttosto l’annullamento del reo medesimo, un’umiliazione metagiuridica.
Mai come in questo caso, bisogna dirlo, i pm sembrano interpretare lo spirito del momento. Schettino — che venga condannato o assolto poco cambierà, purtroppo per lui — ha incarnato una maschera che ben conosciamo: il bel maschio latino donnaiolo e fatuo, superficiale e pelandrone, un po’ vigliacco e un po’ bugiardo. Una deformazione in noir della commedia all’italiana, un Sordi incarognito, un De Sica senza la redenzione finale del generale Della Rovere. Insomma, una sorta di 8 settembre individuale: in fondo quel «torni a bordo!» che gli ingiunse inutilmente il comandante De Falco nella notte del naufragio sembra valere per tutti coloro che scesero «da bordo» dell’Italia nella notte del 1943. E Schettino ci mette del suo anche nel seguito: ammiccante tra le fan nel White Party di Ischia, nella lezione sulla «gestione del panico» alla Sapienza, in quell’incedere al processo da flaneur flaubertiano nonostante gli oltre trenta cadaveri caricati sulle spalle. Tutto così impudico e così italico da provocarci un moto di ripulsa spiegabile solo con l’identità.
Gaber direbbe che non ci fa paura Schettino in sé ma Schettino in noi. C’è il frammento più inconfessabile di ciascuno, alla sbarra, lì a Grosseto. Ma ai nostri pubblici ministeri chiediamo di resistere a tentazioni cui noi possiamo pur cedere. Al desiderio di vedere Schettino nell’unica postura adeguata: in ginocchio, chiedendo perdono alle vittime. Uno Stato laico non prevede inginocchiatoi, neppure per la sua caricatura peggiore.

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