Speravo che Luca Ricolfi, notoriamente uno dei tre opinionisti che prediligo, intervenisse sulla questione terrorismo islamico, ancorché più spesso si occupi di altro. Avevo dato ogni tano un'occhiata sul sito del Sole 24 Ore - chissà se La Stampa di Molinari lo riprenderà...- ma mi era sfuggito il suo intervento del 24 novembre. Me lo ha segnalato la mia preziosa amica Caterina.
Nel leggerlo ho provato una viva soddisfazione interiore, e la mia mente, sentendo evocare rospi e spirito (ipocritamente e falsamente) zen è corsa ad altre letture che mi sono toccate nei giorni passati.
Certo, non è detto che Ricolfi abbia ragione, come del resto non si può essere certi che l'abbiano Panebianco, Galli della Loggia, Ainis, Scalfari...
Però oh, manco è detto che ce l'abbiano gli altri.
Intanto, se a sbagliare sono io, mi consola esserlo in simile compagnia.
Buona Lettura
Il terrorismo jihadista e la strategia del rospo Zen
Ci sono, in natura, tre strategie fondamentali per reagire a
un pericolo: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca,
la gazzella fugge, il rospo – come molti altri animali, sia vertebrati sia
invertebrati – finge di essere morto.
Forse non sarebbe inutile, per capire quel che ci sta
succedendo, guardare a noi stessi con occhio più disincantato, come un etologo
fa con gli animali, o un marziano farebbe se sbarcasse su questo nostro
dilaniato pianeta. Leggendo il fiume di parole che è seguito alle stragi di
Parigi, troveremmo difficile non accorgerci che la nostra reazione dominante,
almeno in Italia, è quella del rospo.
Non perdiamo la calma, non spaventiamoci, non rinunciamo al
nostro modo di vita, non imbarchiamoci in una guerra, non cambiamo i nostri
(buoni) rapporti con i musulmani, non chiudiamo le nostre frontiere, non
sottraiamoci al dialogo con l’Islam, non crediamo che quella in atto sia una
guerra di religione. Una sorta di versione occidentale della imperturbabilità
Zen.
È giustificata una simile reazione ai fatti di Parigi? In un
certo senso sì, perché essa non fa che registrare uno stato di impotenza.
Sappiamo benissimo che i cittadini delle nostre società opulente sono, da
parecchi decenni (dalla fine della guerra del Vietnam, più o meno),
indisponibili a sostenere i costi umani, economici e filosofici di una vera
guerra. E capiamo perfettamente che l’unica reazione alla nostra portata è
quella solita: varare qualche sanzione economica, colpire i pozzi di petrolio
dei terroristi, rafforzare l’intelligence, mandare sul campo tecnologie e
specialisti, formare una coalizione anti-terrorismo sotto l’egida dell’Onu,
sperare che altri popoli meno civilizzati di noi ci levino le castagne dal
fuoco mandando i loro soldati a morire contro i guerriglieri dello stato
islamico.
Da questo punto di vista la strategia del rospo è
perfettamente comprensibile. Se non puoi fuggire, se non puoi permetterti una
vera guerra, quel che ti resta è la simulazione della morte. Che infatti, al di
là dei proclami bellicosi, è la sostanza della nostra reazione.
Non c’è niente di strano, né di sbagliato, in tutto questo.
Quello che è meno comprensibile, invece, è il racconto con cui accompagniamo
questa reazione. Un racconto fatto di molte oneste verità, prima fra tutte la
ricostruzione della catena di errori che le grandi potenze hanno commesso negli
ultimi decenni, ma anche costellato di clamorose omissioni e di pericolosi
fraintendimenti. Cose che un etologo o un marziano vedrebbero a occhio nudo, ma
che sembrano sfuggire alla nostra sofisticata consapevolezza di interpreti di noi
stessi.
Che cosa vedrebbe un etologo, o uno storico dell’umanità?
Intanto osserverebbe che, fra le specie animali, quella
umana è l’unica i cui membri sono capaci di combattere, fino al sacrificio
della vita, per entità astratte, non necessariamente di tipo religioso e non
necessariamente negative (Dio, la
Nazione , il Comunismo, la Democrazia , la Libertà , i Diritti umani).
Da questo punto di vista il fanatismo non è una anomalia, ma una eventualità
sempre all’ordine del giorno nella storia della nostra specie (leggere Yuval
Harari per credere: Da animali a dei, Bompiani 2014).
Poi, forse, il nostro etologo, storico, o marziano che dir
si voglia noterebbe che alcune di queste entità astratte hanno una pretesa
universale, o nel senso che vengono (da chi le sposa) ritenute valide per tutta
l’umanità, o nel senso che vengono ritenute meritevoli di essere imposte al
resto del mondo. È il caso del comunismo prima degli accordi di Yalta (che
sancirono la spartizione del mondo in sfere di influenza), di un paio di
religioni importanti (cristianesimo e islam) ma, per certi versi, anche di
alcune idee politiche generali (democrazia e diritti umani). Il nostro
marziano, essendo appunto marziano e non terrestre, non sarebbe particolarmente
sensibile al fatto che alcune di tali ideologie siano supportate da buoni e
altre da pessimi sentimenti, ma noterebbe la vocazione interventista di tutte
le ideologie universali. In un mondo globalizzato e interdipendente, l’adozione
di simili ideologie porta inevitabilmente con sé la tendenza a immischiarsi
nelle faccende degli altri popoli, poco importa se in nome di un aggressivo
ideale di conquista politico-militare, o di un più benevolo istinto di
colonizzazione culturale. Da questo punto di vista, marziano e non terrestre,
Jihad e guerre umanitarie, propaganda religiosa e ideologia dei diritti umani, sono
facce diverse del medesimo processo di disintegrazione del mondo. Un processo
che si limitava a covare sotto la cenere finché c’erano le aree di influenza e
vigeva la realpolitik, con il suo cinismo e la sua saggezza, ma che è divenuto
ingovernabile quando, una trentina di anni fa, il mondo è diventato un unico
palcoscenico, disponibile per le rappresentazioni di tutti.
Ma c’è soprattutto una cosa che stupirebbe il nostro
osservatore sbarcato da Marte. Ed è il nostro, intendo di noi occidentali,
fraintendimento del Corano. Lui, a differenza della maggior parte di noi, il
Corano l’ha letto. E di esso si è fatto un’idea molto chiara.
Il Corano è un testo unitario, e molto più coerente di
quanto possa apparire a prima vista (“nel Corano c’è tutto e il contrario di
tutto”, si sente spesso dire erroneamente). Siamo noi, cittadini imbevuti di
valori cristiani, che ci rifiutiamo di capirne l’unità, e preferiamo vederne un
solo lato, quello benevolo e accettabile, per poterci confermare nella
strategia del rospo. Quel lato esiste, per fortuna, ed è anche importante, ma
riguarda i precetti cui i musulmani di buona volontà sono tenuti nei loro
rapporti reciproci. Su questo piano hanno perfettamente ragione quanti
sottolineano l’affinità fra il Corano e i valori cristiani, compresa la
misericordia e il perdono.
Detto un po’ crudamente: un conto è la politica interna del
Corano, un conto è la sua politica estera. I due lati non sono in conflitto,
anche se a noi possono apparire contraddittori.
Esemplare, a questo proposito, è il versetto che più sovente
viene citato per mostrare la coerenza fra l’insegnamento di Cristo e quello di
Maometto, ovvero il comune rifiuto della violenza. Il versetto viene spesso
riportato così: «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque
uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera» (sura V, versetto
32)”.
Sfortunatamente, tuttavia, in questa forma il versetto è
incompleto, in quanto amputato di un inciso essenziale. L’originale suona
invece così:
«Chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o
che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso
l’umanità intera».
Nella visione cristiana, il divieto di uccidere è assoluto e
incondizionato, qui invece prevede una macroscopica eccezione per coloro che
hanno ucciso o «sparso la corruzione sulla terra». Il Corano è costellato di
passi in cui si invita a combattere, anche con la violenza, contro i non
credenti, siano essi adoratori di idoli (i politeisti), ebrei, cristiani, o
semplicemente portatori di corruzione e di disordine. Quale debba essere il destino
di coloro che portano la corruzione sulla terra è spiegato piuttosto
chiaramente, oltreché in vari altri luoghi, nel versetto successivo secondo il
quale la loro ricompensa è che «siano uccisi o crocifissi, che siano loro
tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra».
Mi sono imbattuto per la prima volta in questi versi, e mi
sono preso la briga di leggere il Corano, quando, una quindicina di anni fa,
con altri colleghi sociologi mi trovai a occuparmi delle missioni suicide nel
mondo (a me toccò la
Palestina ). E l’idea che ho maturato allora, quando il
terrorismo (islamico e non) non era ancora spietato come oggi, è
sostanzialmente questa: probabilmente facciamo bene, come cittadini di società
largamente influenzate dal cristianesimo, a dare manforte all’interpretazione
buonista del Corano, una interpretazione che sottolinea i contatti con il
messaggio di Cristo, o si sforza di reinterpretare la Jihad come guerra puramente
difensiva, o come combattimento interiore; ma facciamo male, molto male, a
sottovalutare le formidabili difficoltà di quest’opera, pur meritoria, di
rielaborazione del Corano.
Può piacerci o dispiacerci, ma il Corano sta lì, con i suoi
versetti e le sue esortazioni, a disposizione di chiunque voglia leggerlo. E
non bastano le libere traduzioni occidentali a cancellare la lettera di quei
versi. Versi che, non dobbiamo mai dimenticarlo, si suppongono dettati
direttamente da Allah al suo profeta, e come tali non sono facilmente
riscrivibili, reinterpretabili, contestualizzabili. Esattamente il contrario di
quel che capita con la tradizione cattolica, dove la reinterpretazione è la
norma, perché la Chiesa
pretende di essere l’unica depositaria della corretta interpretazione delle
Scritture.
Ecco perché, a mio parere, il compito dell’Islam moderato è
oggi assai difficile. La forza del terrorismo islamico riposa anche su una
sorta di inversione fra ortodossia ed eresia: se prendiamo sul serio la lettera
del Corano, i fanatici e i terroristi in nome di Allah possono apparire più
ortodossi dei moderati, e il tentativo di questi ultimi di edulcorare il Corano
può apparire vagamente eretico.
E noi? Non so se possiamo sfuggire alla strategia del rospo.
Ma almeno potremmo, nella nostra imperturbabilità Zen, non ingannarci sulla
difficoltà del compito che abbiamo di fronte. Perché non si tratta di leggere
correttamente il Corano ma, al contrario, di aiutare gli islamici moderati a
difendere la loro preziosa eresia.
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