sabato 23 gennaio 2016

"VEDI DE RINGRAZIA' TU PADRE " PIERLUIGI BATTISTA RACCONTA IN UN LIBRO LA VITA CON SUO PADRE FASCISTA

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Credo che Pierluigi Battista debba pagare almeno una cena sontuosa al collega e immagino amico Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, per la bellissima recensione del suo ultimo libro, edito da Mondadori, prossimo all'uscita, dal titolo forte "Mio Padre era Fascista".
Dopo averla letta, nessun dubbio sul proposito di acquistare questo volume dedicato ad un genitore che si capisce amato, molto, e per tanto tempo probabilmente incompreso nella sua fedeltà ad una idea così demonizzata nell'Italia repubblicana.
Io sono profondamente amico del fratello di Pierluigi Battista, l'avvocato (quindi stessa professione del genitore) Domenico, ancorché ultimamente ci si senta poco, ma non sapevo di questo papà nostalgico del ventennio, e la cosa mi stupisce e incuriosisce.
L'abilità già verificata del bravo giornalista anche come scrittore (ho letto un paio di suoi libri, "Lettera a un amico antisionista" e " La Fine del Giorno", diversissimi ed entrambi apprezzati ) e, come detto, la suggestiva presentazione di Cazzullo, fanno il resto.
Io lo leggerò, poi voi fate come vi pare (frase spesso usata dall'autore...)




La vita con papà: era un fascista

di Aldo Cazzullo


Pierluigi Battista sta per pubblicare un libro sincero e duro con suo padre e più ancora con se stesso, con un avvio che è un pugno nello stomaco: Mio padre era fascista .
«M io padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».
La sofferenza del padre era inasprita dal figlio, che non soltanto aveva scelto la parte opposta, ma rifiutava di ascoltare le sue ragioni, e lo incalzava come se fosse responsabile di tutte le malefatte nell’Italia occupata («sei impazzito, forse? Mi stai accusando pure di aver partecipato alla strage di Sant’Anna di Stazzema?»). Il figlio, Pierluigi Battista, sta per pubblicare ora da Mondadori un libro sincero e duro con il genitore e più ancora con se stesso: Mio padre era fascista .
La splendida copertina con il Colosseo quadrato dell’Eur evoca i percorsi nella Roma mussoliniana, scanditi dal «guarda!» con cui Vittorio Battista indicava a un ragazzino perplesso i monumenti costruiti e le strade aperte dal Duce, sempre rigorosamente nell’onomastica originale: via dell’Impero, Foro Mussolini; nelle gite fuori porta non si andava a Latina ma a Littoria, a Sabaudia non si ammiravano le dune ma la piazza, a Firenze prima degli Uffizi si visitava la stazione di Piacentini... Ma subito il libro si apre con un pugno nello stomaco: le pagine del diario, scritto nei giorni terribili seguiti alla guerra civile, e ritrovato solo dopo la morte del padre. Scene da girone dantesco: i prigionieri di Salò in catene che sfilano tra due ali di folla che li insulta, li minaccia, rifiuta loro un sorso d’acqua, sputa, tira sassi. E poi la prigionia a Coltano, il compagno falciato dai mitra dei vincitori solo per essersi avvicinato ai reticolati, Ezra Pound nella «gabbia del gorilla». Giorni in cui si accumula un risentimento destinato ad avvelenare la vita dell’«esule in patria», il cui tormento è acuito dall’incapacità di farsi ascoltare da un figlio che ama e da cui, nel profondo, è riamato. Un conflitto che esplode con la morte atroce dei fratelli Mattei, quando Pierluigi torna a casa rauco dal corteo in cui ha urlato «Lollo libero» e Vittorio — «sei proprio un cretino!» — gli mostra le carte del processo, da cui si deduce con chiarezza che Lollo e gli altri «compagni» sono responsabili del rogo di Primavalle; e «i padri della patria» antifascista «non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalto emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizia per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista. Un figlio di fascista anche lui, come me».
Ma il tono medio del libro non è affatto triste. E non solo per la ricostruzione della giovinezza dell’autore, da cui scopriamo un Battista «antifascista militante» negli scontri di scuola e di strada; anche se quando finisce nelle mani di «Roccia», temuto picchiatore, «una montagna di muscoli», si salva solo in quanto figlio dell’avvocato che difende gratuitamente i camerati («vedi de ringrazzià tu’ padre»). Un padre capace di autoironia, che al volante si sorprende a cantare «le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera» o a fare il verso a una celebre scena del film Il federale — «buca», «buca con acqua»... —, che si commuove davanti al Giardino dei Finzi Contini , che rifiuta di fermarsi all’autogrill di Cantagallo perché non hanno servito il suo amico Almirante, che difende gratuitamente pure gli estremisti dell’altra parte chiedendo consulenze linguistiche al figlio — «ma Pigi che diavolo vuol dire “tirare le bocce”?»; «le bocce sono le bottiglie molotov, papà» —, che si diverte a elencare artisti e attori che militarono nella Repubblica sociale (mentre Battista parla di altri scrittori che fecero anche loro i conti con il padre fascista, da Giampiero Mughini a Vincenzo Cerami a Margaret Mazzantini). E alla fine anche chi non ha alcuna accondiscendenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia — finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.
Chi ha la fortuna di conoscere, di persona o attraverso i suoi articoli sul «Corriere», lo spessore culturale e umano di Pierluigi Battista ne ritroverà le radici nella figura del genitore e nell’ambiente familiare, dove si affacciano i fratelli e la madre, innamoratissima del suo uomo fin da quando partì ventenne verso il fronte per restargli accanto a rischio della vita, e dove compaiono anche Silvia, la moglie scomparsa dell’autore, e la loro figlia Marta. Questo però non attenua l’angoscia, anzi rende il lettore ancora più partecipe delle strazianti pagine finali.
Vittorio Battista si spegne a 68 anni, poco dopo la morte di Almirante: il suo ultimo riferimento politico, l’uomo che aveva scritto le parole dell’inno del Msi — «siamo nati in un cupo tramonto» — in cui si riconosceva. La sera del funerale, Vittorio diserta la cena dei dirigenti. Chiede al figlio di mangiare una pizza con lui, in silenzio, e ha appena un gesto di disappunto quando Pierluigi fa cadere la brocca dell’acqua. Il padre fascista si spegne serenamente, la famiglia gli si stringe attorno, la barriera ideologica ormai è caduta, ma il figlio ancora non riesce a cavarsi da dentro il dolore.
Il nodo si scioglie cinque anni dopo. Battista segue per «La Stampa» il congresso di Fiuggi, in cui l’Msi abbandona «la casa del padre» per avviarsi a una stagione effimera ma ricca di potere e di ritrovata rispettabilità. La giornata scorre via tra gli appunti, la stesura dell’articolo, la cauta apertura al nuovo corso da parte del «giornale di Bobbio e Galante Garrone», la cena con i colleghi, le celie su «er Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassando quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazione, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliare senza tregua con il fantasma di mio padre fascista».
Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel precipitare in un gorgo per me ignoto». E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenabili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita». L’annichilimento del mondo del padre, la fine dei «decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia per «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si sommava al senso di colpa che finalmente trovava sfogo, al rimpianto per non aver siglato in vita quella riconciliazione che il re Lear shakespeariano offre alla figlia Cordelia: «Andiamo via. In prigione, noi due, là, soli, e canteremo come uccelli in gabbia. Quando tu a me chiederai la mia benedizione, e io a te, in ginocchio, chiederò il tuo perdono». Ora la riconciliazione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è questo libro.

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