Alle persone in genere non piacciono gli articoli di carattere economico....è una materia non semplice, e anche per molti noiosa, ancorché ne si riconosca l'importanza fondamentale.
Così, la lotta serrata sulla riforma del lavoro riesce a riscuotere attenzione solo per l'aspetto più evidente e all'apparenza anche più semplice: l'abolizione o no del famoso articolo 18, che stabilisce l'obbligo dell'azienda di riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato. Che scritto così sembrerebbe una cosa blasfema la sola idea di abrogarlo, il problema è cosa s'intenda per "ingiusto". Perché nei Tribunali vengono reintegrati lavoratori che hanno sfasciato i locali di lavoro perché in preda a raptus ( e quindi malati...e perciò incolpevoli. Lo è forse l'azienda?), oppure gente che spaccia cocaina ma FUORI dell'orario di lavoro ( l'azienda magari non si fida più tanto di uno spacciatore di droga ? e pazienza ), il furto della cassa se l'importo è modico. Insomma è il GIUDICE che stabilisce se il datore di lavoro può ancora avere o no fiducia nel suo dipendente. Questo per la giusta causa. Il giustificato motivo (ragioni economiche, di crisi o di ristrutturazione aziendale), sostanzialmente idem anche se negli anni l'ingerenza dei magistrati del lavoro anche sui criteri di gestione dell'azienda è diminuita.
Ad ogni modo, l'art. 18 è la punta dell'Iceberg. E il dibattito tra esperti è serrato.
Alesina e Giavazzi sul Corriere pungolano a più non posso il collega (sono tutti professori della Bocconi ) Monti per una riforma coraggiosa. Ma i termini da loro suggeriti non sono approvati da un altro esperto di cose economiche, Oscar Giannino, che sul suo Chicago Blog ha pubblicato un articolo di cui riporto ampli stralci.
Suggerisco di leggerlo, armandosi di un po' di pazienza.
A mio modesto avviso hanno molta ragione ma anche profondamente torto, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nel loro editoriale sul Corriere della sera. Ragione nel sostenere che la riforma del mercato del lavoro debba essere coraggiosa ed energica, non quella che si determina se vincono i molti conservatorisimi trasversali: ma hanno profondamente torto nel credere che la vera svolta debba essere quella del contratto unico. Entro marzo, mentre l’Europa resta profondamente divisa sul se e come aiutare la Grecia a sprofondare meno, l’Italia verrà misurata sulla riforma del mercato del lavoro. Dopo la stangata fiscale del decreto salva-Italia – però con l’ottima riforma delle pensioni – e le controverse liberalizzazioni del cresci-Italia che il Parlamento smorza ulteriormente, sarà il terzo atto su cui misurare la nuova credibilità italiana.
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..... è utile chiarire l’apparente stato degli atti e delle proposte.
Il ministro Fornero è tornata su un punto che le sta a cuore. E ben a ragione, secondo me. La necessità di uscire dall’attuale sistema che con la somma di cassa integrazione ordinaria, straordinaria e poi in deroga, ha meritoriamente esteso in questi anni di crisi a molte classi d’impresa e lavoratori che non ne beneficiavano lo strumento principe che unisce valenze di sostegno sia al reddito dei lavoratori sia alle ristrutturazioni d’impresa. La cassa è stata efficace e salvifica. Ma questo sistema-tampone, efficace nel breve, ha dei difetti alla lunga temibili e sostanziali. Estende troppo nel tempo – per anni – l’ìllusione di difendere il lavoro com’è e dov’è. E centralizza ogni crisi d’impresa in tavoli ministeriali. Il ministro pensa a una vera indennità di disoccupazione, cioè a un sostegno al reddito di chi perde lavoro, alla sua ri-formazione e alla sua occupabilità, tutte cose nettamente distinte dalla ristrutturazione delle imprese.
Sarebbe ottima cosa. E gli esempi a cui guardare in Europa sono molti, a cominciare da quello tedesco dove il sussidio per il disoccupato è del 60% dell’ultima retribuzione o del 67% con figlio a carico se coniuge non lavora, introdotto dalle riforme Hartz insieme a una riforma profonda del sistema pubblico e soprattutto privato del collocamento, che intermedia non il 6% della rioccupabilità o poco più come in Italia ma oltre il 70%, motivo per il quale se il disoccupato respinge senza fondatissimi motivi le nuove proposte – anche se non equipollenti al precedente incarico – perde diritto al sussidio.
Ma l’intento del ministro deve fare i conti con un’amara realtà. In Italia un meccanismo simile significherebbe far alzare di molto i contributi assicurativi al mondo di Rete Imprese Italia, visto che la vecchia Cig era concepita per l’industria. Oppure significa chiedere contributi ancora più alti all’industria stessa. E significa inoltre limitare il ruolo di mediazione del sindacato di categoria e nazionale, nelle centinaia di vertenze per oltre 300 mila occupati aperte oggi davanti ai ministeri guidati da Fornero e Passera. Questo spiega perché sindacati e imprese non seguano il ministro. E preferiscano non toccare il sistema attuale “cassa estesa e in deroga”, fino a che la crisi è così dura. Il ministro Fornero ha dovuto riconoscere che così stando le cose il sussidio disoccupazione è per il futuro, di qui a un paio d’anni cioè dopo le elezioni. magari con legge delega. Campa cavallo. Su questo occorre coraggio, la penso come Giavazzi-Alesina.
Ma poniamoci un problema che Giavazzi-Alesina non si pongono. E’ solo conservatorismo corporativo, quello di chi non si fida e difende il sistema attuale? No. Perché bisogna riconoscere – meglio: gridare!! – una profonda verità. In verità la prima vera riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nell’abbattere energicamente il cuneo fiscale e la pretesa tributario-contributiva dello Stato su lavoro e impresa. Perché è questa la voce che pesa tra i 20 e i 30 punti e talora anche 40 percentuali in più rispetto alle imprese tedesche, a seconda delle tipologie e classi dimensionali. Ma il governo Monti non sembra proprio intenzionato ad abbattere la spesa pubblica e la pressione fiscale per 5-6 punti di Pil in 5 anni come fece la Germania ai tempi delle riforme Hartz, e ad abbattere il debito pubblico con dismissioni del mattone di Stato per 20 o 30 punti di Pil invece che attraverso sanguinosi avanzi primari di 5 punti di Pil l’anno realizzati per via di asfissiante aggravio fiscale.
Ma se il governo non taglia spese e tasse e non abbatte lo stock di debito con lo stock di attivo pubblico, allora hanno ragione le imprese che dalla proposta Fornero deducono che pagheranno più ancora. E’ questo, infatti, ciò che a BOCCE FERME IMPLICHEREBBE LA PROPOSTA GIAVAZZI-ALESINA: ANCORA PIù COSTI ALLE IMPRESE RISPETTO AD OGGI!
Che nel gabinetto Monti non tiri affatto aria di riservare al mercato del lavoro nuove risorse con meno spesa pubblica da altre parti, lo si è capito dalla correzione pomeridiana che il Tesoro ha imposto al ministro del Lavoro. E’ un pessimo segnale. Ed è troppo comodo dire che occorre essere più energici, dimenticando che se non si parte dal presupposto di abbattere spesa e tasse allora significa riservare alle imprese ancora meno margini di oggi!
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Infine, la flessibilità. L’impostazione del ministro è che si cominci con il diminuire e disciplinare la flessibilità in entrata, sommando apprendistato e triennio a tutele crescenti chiesto dalla sinistra . Per poi solo dopo, magari di qui a qualche anno, toccare la flessibilità in uscita, cioè l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Non ha molto senso. Bisogna affrontare insieme le due questioni. Su questo torno a essere d’accordo con Alesina-Giavazzi. Altrimenti il risultato paradossale è di accrescere la rigidità, visto che pare quasi che l’Italia si voglia avviare a essere l’unico Paese al mondo con contratti tendenzialmente solo a tempo indeterminato dopo il primo triennio. Mi limito a osservare che in Spagna hanno appena deciso che anche i dipendenti di Stato che non siano funzionari pubblici, 680 mila su 3,1 milioni complessivi, siano licenziabili con indennizzo economico e senza filtro giudiziale se l’amministrazione da cui dipendono è in deficit da più di 9 mesi. In Italia, un criterio simile sarebbe una svolta vera. Ci stupisca, il governo. Può farlo.
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