venerdì 2 marzo 2012

IL PERCHE' LE BUSTE PAGA ITALIANE SONO BASSE : IL SEGRETO DI PULCINELLA

Oscar Giannino, scrittore liberale e mercatista, fiero oppositore dello Stato centrale e fiscalmente ladro, ha tante qualità ma non quella di scrivere per "tutti". In questo molto meglio altri, che si cimentano nel campo certo non semplice delle problematiche economiche.
E così anche il suo articolo odierno sul problema dei salari italiani, più bassi rispetto a quelli di quasi tutta europa secondo le rivelazioni di Eurostat, poi smentite il giorno dopo per aver fatto riferimento a dati vecchi di 5 anni (2006) dice cose giuste ma non di immediata percezione.
Come di solito, vi propongo l'articolo nella sua interezza in basso ma provo a trarne un sunto preliminare, aiutato anche da riflessioni di altri autori sul tema.
Dunque, Giannino individua tre colpevoli per il problema dei bassi salari italiani: 1) Lo Stato, che grava con tasse e contributi sul costo del lavoro, per cui in busta paga rimane al netto meno che altrove, pur essendo al lordo niente affatto leggera per gli imprenditori 2) L'inefficienza del sistema. Burocrazia asfissiante e costosa, tempi biblici per ogni permesso, autorizzazione, nulla osta, giustizia bradipa fino alla inutilità (se un provvedimento me lo dai dopo ANNI, io il mio danno l'ho già bello che avuto e spesso non più rimediabile) 3) la bassa produttività, sulla quale ha provato a riformare, PRIMA del governo Monti, Marchionne alla Fiat , cercando di uscire dall'ottica del Contratto Nazionale per sostituirlo con quello Aziendale., che tenga conto della congiuntura dei mercati, della competitività, distribuendo incentivi o imponendo riduzioni in virtù dell'efficienza e dell'andamento dell'azienda.
Questa una sintesi che spero fedele di quello che più analiticamente troverete scritto appresso.
Due chiose. Alessandro Fugnoli, esperto di cose finanziarie che stimo, indicava come uno dei problemi che in Italia e Spagna si sarebbero risolti grazie all'inflazione e ai contratti bloccati era proprio l'eccessiva crescita dei salari con l'avvento dell'euro. Quando l'ho letto la prima volta mi sembrava una follia, poi però ho pensato a mia sorella, dipendente del Ministero di Giustizia, che prima dell'euro guadagnava meno di due milioni al mese, e adesso circa 1.700 euro...come potere di acquisto ha perso (notoriamente il cambio più autentico non è 1 euro = 1.967 e tot lire, ma 1euro = 1.000 lire in troppe occasioni )sicuramente ma in quello "nominale", oggi il suo stipendio, convertito alla vecchia valuta, sarebbe di circa 3.300.000 lire, un 60 % in più....Il che significa che mia sorella sia più ricca - visto che il suo potere d'acquisto anzi è diminuito -, però allo Stato e alla collettività il suo "costo" è aumentato!
Quanto alla produttività e all'efficienza, un grande scrittore di sinistra, Edmondo Berselli, spiegava in un suo libricino "l'Italia, nonostante tutto" come una delle colpe maggiori del sindacato era stato quello di appiattire nelle fabbriche e nei posti di lavoro il MERITO a favore di un concetto egualitario grazie al quale tutti prendevano la stessa busta paga: i bravi e gli scansa fatiche, gli efficienti e gli incapaci.
Non un grande risultato.
Buona Lettura


Molti salti sulla sedia, costernazione e scandalo, alla graduatoria Eurostat sui redditi medi lordi nei diversi Paesi dell’euroarea. I 23.400 euro dei lavoratori italiani dipendenti vedono solo portoghesi, sloveni, maltesi e slovacchi passarsela peggio. I 33.500 euro francesi, i 41mila tedeschi e i 44mila olandesi appaiono come un eldorado inattingibile. Eppure, il Pil procapite degli italiani è molto più su, nella graduatoria, e quanto a patrimonio medio e mediano gli italiani battono tutti gli europei.  L’Istat ha poi corretto Eurostat, poiché i dati italiani erano del 2006. Le retribuzioni lorde per occupato nelle imprese con oltre 10 dipendenti sono pari in Italia a 29.653 euro contro 29.234 euro nell’Ue a 27 e 32.527 euro nella zona euro. Ma la distanza rispetto a Germania e Francia nel comparto industriale come in quello bancario resta assai elevata. E allora, da dove nasce il paradosso? Da almeno tre ragioni. Stato ladro. Bassa produttività. Metodo di contrattazione.

Alle imprese, della retribuzione media lorda importa assai poco, perché a contare è il costo del lavoro complessivo. Da noi imposte e contributi sono assai più alti che nel resto d’Europa, dove lo Stato è meno esoso e meno assetato (oltre che meno inefficiente nell’uso del 52% del Pil che intermedia da noi). Ecco che le aziende non possono che tenere stretti i cordoni della borsa. Dunque la prima considerazione è che uno Stato ladro impoverisce inevitabilmente insieme lavoro e impresa. Costo del lavoro alto per retribuzioni basse è il fio che paghiamo a uno Stato che neanche col governo Monti abbassa le sue pretese. Anzi, annulla anche la promessa restituzione ai contribuenti in regola dei proventi dalla lotta all’evasione. (E nell’indifferenza generale passa dal bollo fisso sul conto titoli oltre i 5 mila euro, alla tassazione proporzionale della giacenza oltre lo stesso importo sui conti vincolati cioè quelli a più alta remunerazione: ve ne eravate resi conto? è nel decreto cosiddetto di ” semplificazione fiscale ” varato venerdì scorso, ma non se n’è accorto quasi nessuno né alcuno ha gridato allo scandalo su questa nuova patrimoniale!).
Ma, dopo lo Stato ladro, sussistono almeno altre due ragioni. Che dipendono dalla bassa produttività del sistema-Italia.
Bassa produttività significa avere più inflazione di Paesi più competitivi, per via dell’inefficienza pubblica che comporta tariffe e  tassazioni più elevate – per esempio sui carburanti, in un Paese a forte dipendenza energetica – nonché prezzi finali più alti per molti beni e servizi esposti a bassa concorrenza sul mercato domestico. I sindacati ottennero a lungo vantaggi sui salari, grazie all’inflazione elevata. Ma dalla fine della scala mobile a metà anni ’80, e poi col patto del ’93 con Ciampi che introdusse a fini di rivalutazione salariale l’inflazione programmata invece di quella reale, i salari anno dopo anno hanno perso diversi punti, rispetto all’inflazione reale. E’ un contrappasso amaro. Più grave, per le qualifiche medie e soprattutto basse. Un paese a bassa produttività equilibra vaste nicchie di prezzo e costo protetti con costi abbassati e prezzi più elevati invece per chi lavora.
La terza ragione è che in un’Italia a bassa produttività e in cui la base salariale si fissa nei contratti nazionali di categoria, il sindacato finisce per livellare le retribuzioni contrattuali base sulle categorie meno produttive, per evitare proteste tra diverse specializzazioni dei propri iscritti. Contando sul fatto che in cambio resti inalterata la rigidità in uscita dal lavoro con l’articolo 18, e la contrattazione decentrata di esuberi economici tramite la Cassa integrazione: i riti di cui vivono le rappresentanze centralizzate di lavoro e impresa.
Delle tre ragioni, la prima vede lo Stato colpevole, lavoratori e imprese vittime. Nella seconda, i lavoratori sono vittime e i sindacati parte responsabile, per gli eccessi inflazionistici precedenti. Della terza, il colpevole è chi pensa che il salario debba essere definito in maniera centralizzata, invece che sui posti di lavoro dove si formano le rispettive curve di costo e dove si deve morderle con produttività aggiuntiva, da cui lavoro e impresa insieme possono avvantaggiarsi. Per salari più elevati vanno cambiate radicalmente queste tre cose, non invocare buste paga tedesche lasciando l’Italia com’è adesso.

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