Oggi Pierluigi Battista, che non ha certo lesinato critiche anche dure al leader leghista, scrive sul Corriere un bell'editoriale nel quale si da' serenamente atto dell'importanza che quest'uomo ha avuto nella storia politica italiana degli ultimi vent'anni.
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L'INDOMITO GUERRIERO SI E' LASCIATO IRRETIRE DAL CLAN FAMILIARE
L’indomito guerriero si è lasciato irretire dal clan familiare. Il capo carismatico di un movimento nato nella lotta alla corruzione di «Roma ladrona» si è inabissato nei gorghi di una cricca familista vorace e spregiudicata.
A Umberto Bossi che cade in una brutta storia di soldi inghiottiti dal «cerchio magico» va però riconosciuta la grandezza di un leader che ha imposto nell’agenda politica nazionale la «questione settentrionale». E ha interpretato i sentimenti di un popolo che non aveva rappresentanza politica. Ora di quella grande rivoluzione resta solo il guscio voto. Ma l’establishment non deve illudersi nella fine ingloriosa di un outsider valoroso che seppe farsi politico accorto: quella frattura tra il Nord e il Palazzo non si è ricomposta. E non sarà una miserabile vicenda di fondi stornati a cancellare una storia iniziata nelle periferie del sistema e sul cui futuro nessuno avrebbe scommesso un soldo.
Bossi ce l’aveva fatta da solo, ma termina la sua carriera di leader indiscusso prigioniero di un partito diventato proiezione di un capo circondato da figure mediocri ai quali chiedeva fiducia incondizionata e protezione psicologica. Gli ultimi anni di leadership erano diventati un tormento: l’insulto e il gestaccio al posto dell’argomento, il figlio onnipresente al posto di una classe dirigente, l’imitazione stanca del machismo come surrogato di un’energia perduta, il tatticismo politico esasperato al posto di una strategia politica.
Bossi era il leader dell’unico partito «vero» della Seconda Repubblica. Ma il popolano prigioniero della sua paranoia politica, sempre più ossessionato dal «complotto» mano a mano che la sua leadership si indeboliva, ha perso sempre più contatto con il mondo vasto dei ceti produttivi del Nord che nella Lega avevano visto uno sfogo e una scommessa. Bossi si rinchiudeva nel suo recinto sacro. Riceveva l’omaggio devoto del popolo che si riuniva sui pratoni di Pontida, si commuoveva per l’ampolla alle fonti magiche del Po, urlava «secessione» per sentirsi più forte. Ma, fuori della cerchia militante, chi aveva creduto nella rivolta fiscale, nella libertà dalle pastoie burocratiche e stataliste, nell’affrancamento del Nord non si fidava più già da tempo del miracolo leghista.
Bossi aveva tutti contro, ma ha contribuito a scardinare la Prima Repubblica, portando istanze nuove dove prima il Nord era solo un’espressione geografica. Ha fatto della sua Lega quel che voleva: partito di lotta ma anche di governo, orgoglioso della sua rozzezza ma anche capace di padroneggiare con maestria i virtuosismi tatticisti della politica romana. La forza di Bossi è stata straordinaria. La malattia non lo ha sconfitto. Ma qualcosa si era rotto nel meccanismo delicatissimo di un partito abituato a muoversi sui ritmi imposti dal suo leader. E stavolta il leader non ce l’ha fatta, si è asserragliato nel suo bunker familiare. Nel bunker dove è finita la sua avventura politica.
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