Il giorno di Capaci è uno di quelli, come l'11 settembre, l'attentato alle Torri Gemelle, in cui la maggior parte di noi si ricorda esattamente dov'era quando seppe la notizia. Magari non ti ricordi il giorno, però il momento sì. Vale anche per me .
Giovanni Falcone era un uomo che ammiravo, come tutti noi OGGI. Io lo ero tra i molti, ma NON tutti, che lo ammiravano anche IERI. E all'epoca dei veleni di Palermo, delle lettere anonime del "corvo", della sua bocciatura a capo dell'ufficio istruzione del capoluogo siciliano per motivi di "anzianità" (uno come me che crede caparbiamente nel merito e detesta la burocrazia), senza poi parlare del fango mediatico successivo, iniziato da quella salma che cammina di Leoluca Orlando (De Magistris a Napoli, Orlando a Palermo, poi diciamo che quelli del Nord hanno torto...) e proseguito da altri.
In questi giorni , di trasmissioni dedicate a Falcone e Borsellino ce ne sono state tante, e TUTTE sottolineano questi fatti : Falcone è un'icona da morto, ma certo non è stato considerato un eroe da vivo (come Saviano, tanto per citare un santino odierno della sinistra, che pure non potrebbe nemmeno allacciare le scarpe al grande magistrato).
Tra le tante scene viste, due mi hanno emozionato. La Boccassini (che pure NON amo) che senza ipocrisia attaccò con veemenza i colleghi di magistratura democratica che senza vergogna, dopo essere stati tra i più accaniti denigratori di Falcone, il giorno dopo Capaci si radunavano per commemorarlo a Milano. E il funerale di Borsellino, dove Scalfaro ( mi viene sempre il mal di stomaco ad anteporre la qualifica "Presidente della Repubblica", voglio dimenticare questa brutta cosa del mio paese) fu strattonato dalla folla inferocita, difeso con fatica dalla scorta.
Più dolce l'immagine di Falcone che, alla domanda, "lei ha paura", risponde" sarei sciocco a dire che non ho paura, l'importante è che riesco a trovare poi il coraggio".
Tra i tanti articoli dedicati al grande Giudice, ho scelto quello di Filippo Facci, che ricorda tutti coloro che lo avversarono. Tra questi c'erano ANCHE i mafiosi, che gliel'avevano giurata fin dal 1982.
Tutto sommato, tenuto conto di quanti rischi si era preso, e di quanta parte della società e dello stato lo hanno avversato, c'è semmai da stupirsi che a Cosa Nostra ci siano voluti ben dieci anni per eliminarlo, solo com'era.
C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte
dai vicini di casa di Giovanni Falcone (in via Notarbartolo, dove ora c’è
«l’albero Falcone») che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e
il timore che un attentato potesse coinvolgerli. C’erano gli articoli di
Vincenzo Vitale, Vincenzo Geraci, Lino Iannuzzi, Guido Lo Porto, Salvatore
Scarpino e Ombretta Fumagalli Carulli (Giornale di Sicilia, Giornale, Il
Roma, Il Sabato) che in tutti i modi possibili attaccarono il
maxiprocesso che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. Ha
raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo
chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere
segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul
maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva
nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano
verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone
e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave
malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili.
Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il
conto, ho ancora la ricevuta».
Poi, il 16 dicembre 1987, quando la Corte d’assise comminò a
Cosa Nostra 19 ergastoli, ci furono gli attacchi democristiani e socialisti che
giunsero ad accusare Falcone di filo-comunismo per come aveva affrescato i
rapporti tra mafia e politica; l’incriminazione dell’ex sindaco democristiano Vito
Ciancimino non migliorò le cose.
Poi, il 19 gennaio 1988, mentre tutti attendevano la nomina
di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo, ci fu lo sfregio del Csm
che gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità: i
consiglieri di destra e di sinistra votarono tutti contro di lui a eccezione di
Giancarlo Caselli. Dirà Francesco Misiani, storico esponente di Magistratura
democratica: «Falcone non fu compreso a sinistra, lui che era l’unico che aveva
percepito realmente la mafia come un’articolazione dello Stato». Tra gli
affossatori di Falcone si distinse Elena Paciotti, futuro presidente
dell’Associazione magistrati nonché europarlamentare Ds.
Poi, progressivamente, ci fu lo scioglimento del pool
antimafia, così che le istruttorie tornarono all’età della pietra:
parcellizzate, annacquate, eterodirette, banalizzate. Per Falcone fu una
delegittimazione terribile, proveniente dai livelli più alti: di lì in poi i
nemici spunteranno come scarafaggi.
Poi ci fu il primo attentato, quello dell’Addaura: era il 20
luglio 1989 e il magistrato si trovava nella sua casa al mare, presa in
affitto. Verso mezzogiorno la scorta ritrovò in spiaggia una borsa con 58
candelotti di esplosivo. Al di là di una rinnovata e fumosissima inchiesta
della Procura di Caltanissetta, sull’attentato si è già espressa la Cassazione
il 19 ottobre 2004: condanne varie (a 26 anni per Totò Riina, tra altri) e
responsabilità attribuita a Cosa Nostra, punto. Le pagine della Cassazione
mettono nero su bianco anche quello che viene definito «l’infame linciaggio» di
Falcone, che in buona sostanza fu accusato di essersi piazzato la bomba da
solo. Gerardo Chiaromonte, comunista e defunto presidente dell’Antimafia,
scrisse che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso
Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». La sentenza della
Cassazione fa anche altri nomi: tra questi i giudici Domenico Sica, Francesco
Misiani e il colonnello dei carabinieri Mario Mori: chi più e chi meno, misero
tutti in dubbio un attentato che in molti cercarono di derubricare a semplice
avvertimento.
Poi, appunto, ci fu il voltafaccia orribile di Leoluca
Orlando, : il sindaco di Palermo
s’inventò che Falcone proteggeva Andreotti e disse pubblicamente, soprattutto a Samarcanda di
Michele Santoro, che il giudice teneva nascosta nei cassetti una serie di
documenti sui delitti eccellenti. Falcone dovrà addirittura discolparsi davanti
al Csm dopo un esposto sempre di Orlando. Secondo un racconto di Cossiga,
Falcone ne uscì in lacrime.
Poi ci fu Falcone che decise di accettare l’invito del
Guardasigilli Claudio Martelli per dirigere gli Affari penali al Ministero.
L’obiettivo del magistrato – la creazione di nuovi strumenti come la procura
nazionale antimafia – gli valse l’accusa di tradimento e megalomania da parte
degli stessi ambienti che oggi commemorano Falcone come un vessillo di loro
proprietà. Non aiutò che Falcone si dimostrasse disponibile a discutere di separazione
delle carriere dei magistrati e indisponibile invece a sostenere l’esistenza di
un fatidico terzo livello mafioso. Scrisse amaramente Gerardo Chiaromonte ne I miei anni all’antimafia:
«Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Claudio Vitalone che
faceva da tramite».
Furono i suoi colleghi a scagliarsi per primi contro
Falcone. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro
Cossiga, Falcone e la sua superprocura», scrisse efficacemente la cronista
Liana Milella, ai tempi amica del magistrato. Giacomo Conte, già componente del
pool antimafia di Palermo, il 6 giugno 1991 definì il progetto della
superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». Nel
notiziario trimestrale di Magistratura democratica, nel dicembre
1991, la nuova Direzione Nazionale Antimafia veniva invece definita come «una
grave lesione alle prerogative del Parlamento e all’indipendenza della
magistratura», dunque si prospettava un «disegno di ristrutturazione
neoautoritaria». La vera coltellata fu però la pubblica lettera – indirizzata
teoricamente al Guardasigilli – che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi
e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo
Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia
inadeguato, pericoloso e controproducente… fonte di inevitabili conflitti e
incertezze». Seguivano 60 firme di colleghi in data 23 ottobre 1991.
Poi c’erano i giornalisti, c’erano gli articoli del Giornale
di Napoli: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a
Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». C’era Raitre con Corrado
Augias, che si rivolse a Falcone ospite in studio: «Non voglio dire che lei ci
abbia deluso, ma ultimamente, da quando è al Ministero, è un po’ cambiato… Lei
nel suo libro, scandaloso, arriva a dire delle cose gravi… lei scrive
testualmente che la mafia ha sostituito lo Stato in Sicilia… ». C’eraRepubblica con
questo incredibile commento di Sandro Viola del 9 gennaio 1992: «Falcone è
stato preso da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso
irrefrenabile a parlare, quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze
sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, spingendoli a gareggiare
con i comici del sabato sera… Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi a uno dei
posti di vertice del ministero di Grazia e giustizia, divenuto uno dei più
loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico… non si capisce
come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo, non ne
faccia la sua professione definita, abbandonando la magistratura. Scorrendo il
suo libro-intervista, s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a
descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De
Michelis o dei guitti televisivi. La fatuità fa declinare la capacità
d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini del suo libro». E c’era l’Unità con
Alessandro Pizzorusso, 12 marzo 1992: «Falcone superprocuratore? Non può farlo…
Fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al
ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di
procuratore nazionale antimafia». Sul Resto del Carlino, nello
stesso giorno, si giunse a sostenere che secondo il Csm «la sua fama di
magistrato antimafia è semplicemente usurpata».
Poi, purtroppo, contro Falcone c’era persino la mafia. Ha
raccontato Giovanni Brusca : «Sono responsabile
della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho strangolato parecchie persone,
ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho
carbonizzati su graticole costruite apposta… Il mio risentimento nei confronti
di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il
primo magistrato, dopo Rocco Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente
in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva
le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo
sempre odiato… Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima
volta, alla fine del 1982».
I vicini di casa, i colleghi magistrati, persino gli amici,
poi i giornalisti, persino i mafiosi. Parrà strano, ma dopo tutto questo, e
prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone era ancora vivo.
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