Il bravo Francesco Guccini scrisse, da giovane, e quindi parecchi anni fa ormai, due canzoni istruttive, il SOCIALE e l'ANTISOCIALE.
E denunciava come anche la seconda modalità di porsi SEMPRE nei confronti delle cose, alla fine si traduceva in una forma semplicemente speculare di "conformismo".
Il Politically correct può essere ipocrita e tedioso, ma anche il suo contrario, se sistemico e a prescindere, sortisce lo stesso effetto. Essere "contro" sempre, a prescindere, non ha credibilità.
La critica non può essere solo "distruttiva".
Premesso questo, non credo di ravvisare questo pregiudizio nell'intervista rilasciata dall'intellettuale francese Alain Finkielkraut e nella quale questi denuncia "l'antirazzismo ideologico".
Quello, per intenderci, di cui fu vittima la grandissima Oriana Fallaci quando decise di tuonare contro l'Europa imbelle di fronte all'"invasione" islamica. Criticare l'Islam, almeno nelle sue prevalenti manifestazioni ( ne cito solo alcune : sharia e regime teocratico, condizione della donna, integralismo religioso ) , esortare l'Europa a difendere la sua identità, le sue leggi e tradizioni, fu visto come RAZZISMO.
Non si entra mai nel merito delle cose, e quindi alla domanda : ma che c'entra la Turchia con l'Europa ? mica ti rispondono , ti danno subito del razzista. Se pretendi che gli immigrati islamici si adeguino ai nostri usi e leggi, ( e quindi niente velo nei luoghi pubblici, per esempio - che a me personalmente non dà alcun fastidio ma se è vietato tocca obbedire -, niente poligamia, parità dei diritti delle donne ) , non capisci le priorità dell'integrazione. E guai a ricordare loro che , nei paesi islamici, i non musulmani spesso se la passano assai male (non in tutti , bisogna dirlo, ma nella maggior parte sì e dove accade...).
L'antirazzismo ideologico politically correct ha il suo tallone d'achille, ed è l'Antisemitismo.
Lì le cose cambiano. E l'antirazzista in servizio permanente effettivo scopre che, in alcuni casi, nel merito si può entrare e quindi, per gli ebrei, ebbé qualche considerazione e distinguo nel merito VA FATTO.
E infatti quando accadono fatti come Tolosa qualche mese fa (uccisi quattro adulti e tre bambini), o saltano pullman turistici con civili ebrei dentro, la condanna è sempre condizionata. SI tratta di tragedie sulle quali bisogna "riflettere", stare attenti a non semplificare...
Chissà come mai.
Buona Lettura
PARIGI — Una
giornata francese può cominciare, alle 7 e 15, con «Z comme Zemmour» alla
radio, dove l’opinionista Eric Zemmour loda Putin perché appoggiando il
massacratore Assad in Siria «protegge la minoranza cristiana»; si continua con
Élisabeth Lévy che in un talk show difende «l’uomo bianco Dominique
Strauss-Kahn», accusato di violenza sessuale dalla cameriera nera; la sera, a
teatro Fabrice Luchini legge passi scelti di quel Philippe Muray che
ridicolizzava la «sinistra morale» e la sua ossessione per i diritti dell’uomo.
Non è che, anche in Francia, il politicamente scorretto si sia ormai
«rovesciato in nuovo conformismo», come sospettava Sandro Modeo sulla «Lettura»
del 17 giugno?
Lo chiediamo a Alain
Finkielkraut, il filosofo 63enne critico della modernità che, a partire dal
«Nuovo disordine amoroso» scritto con Pascal Bruckner nel 1977, ha combattuto per
tutta la vita contro le barriere imposte dalle mode e dal pensiero dominante.
Se Zemmour è ormai diventato una star mediatica in virtù di provocazioni
quotidiane, Finkielkraut è lo schivo intellettuale pioniere della lotta ai
«benpensanti».
Non crede che la sua lunga battaglia contro il
politicamente corretto sia ormai vinta?
«Al contrario, oggi
il politicamente corretto è più forte che mai, perché ci sono ancora realtà che
è meglio non vedere, se non si vuole essere accusati di razzismo.
L’antirazzismo è divenuto il principale veicolo del politicamente corretto e io
stesso, mentre gliene parlo, ho paura di quel che dico».
Addirittura?
«Ma certo. Quando
l’ideologia dominante nel mondo intellettuale era il comunismo, potevi dirti
anticomunista. La pagavi cara, certo, come l’ha pagata cara Albert Camus, ma
era possibile. Al comunismo teorico si poteva opporre la realtà sinistra del
mondo sovietico.Ma di fronte all’antirazzismo, io sono disarmato. Ho questo in
comune con l’antirazzismo ideologico: per me il razzismo è abominevole. Però,
di certe cose si dovrebbe poter parlare».
Lei fa un paragone
con il comunismo, che ha commesso crimini spaventosi; francamente
l’antirazzismo non sembra altrettanto nefasto.
«Sì, ma dobbiamo
anche prendere atto dei danni culturali che l’antirazzismo sta provocando. Per
l’antirazzismo ideologico esiste una solidarietà di destino tra tutti i
bersagli della discriminazione. Non è vero, l’antisemitismo per esempio oggi in
Europa è molto più diffuso tra gli arabo-musulmani che tra i cristiani. Ma non
si può dire, perché questo smentirebbe in modo feroce l’ideologia dominante».
Se ne è avuta la
prova con l’affare Merah?
«Quello è un esempio
perfetto, perché prima di tutto c’è stato questo riflesso automatico per cui il
problema non è mai l’islamismo o il terrorismo, il problema siamo noi. Il dogma
del politicamente corretto è “non abbiamo nemici, abbiamo dei demoni dentro di noi”.
E infatti, ricordiamoci dei primi momenti del caso Merah (quattro adulti e tre
bambini uccisi il marzo scorso a Tolosa e Montauban, ndr), della velocità quasi
entusiasta con la quale l’estrema destra venne subito designata come
responsabile. “Le Monde” se la prese con il governo di destra, con l’argomento
che, a forza di alimentare “il sospetto dell’altro”, aveva preparato il terreno
al passaggio all’atto. Peccato che l’autore degli attentati fosse invece un
terrorista islamico, Mohamed Merah. Da quel momento in poi la grande
preoccupazione — anche legittima — è stata di non fare generalizzazioni
pericolose. Ma così non si è parlato del cuore della questione».
E cioè? Che cosa ci
dicono i morti di Tolosa, secondo lei?
«Dopo l’attentato
sono arrivate le vere cattive notizie. Potevamo sperare che quell’assassino
fosse un pazzo, un terrorista autoproclamato e isolato. Invece Merah è apparso
come un eroe, un martire, agli occhi di tanti. Cito un caso: quel dottorando in
fisica di 24 anni, figlio di un ingegnere e di una docente universitaria, che
fracassa la mascella di un uomo “con la faccia da sionista”, davanti alla sua
famiglia, aggiungendo che per lui “Merah è un resistente”. L’antisemitismo
cresce e, se l’immigrazione continua così, si amplificherà ancora. È
accettabile?».
Nella trasmissione
«Répliques», che conduce da 25 anni su France Culture, lei si è lamentato anche
del clima che accompagna il matrimonio tra omosessuali.
«Tutti dicono “La
Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che
cosa? Alexis de Tocqueville dice “la democrazia è il progresso continuo
dell’uguaglianza delle condizioni”. Ma se la democrazia si riduce a questo
movimento inarrestabile, allora non ha più niente di democratico, perché siamo
condannati a seguire l’onda. Al contrario, sul matrimonio degli omosessuali, mi
piacerebbe che ci fosse una vera discussione, che non opponesse per forza
progressisti e retrogradi. Tutte le sensibilità dovrebbero potersi esprimere,
senza che sia deciso prima chi sta all’interno della democrazia e chi ne è
fuori».
Lei è un
reazionario?
«Non mi riconosco in
questa espressione, ma detesto chi la usa per criminalizzare la nostalgia. Dopo
tutto, la nostalgia dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Ci sono cose che è
lecito rimpiangere».
Per esempio?
«I nomi. Ho il gusto
dei nomi banali. Mi chiamo Alain. Ogni tanto esclamo “quanto è bello il mio
nome”, e mia moglie mi prende per pazzo. Io sono figlio di ebrei polacchi e mia
moglie, di origine bulgara, si chiama Sylvie. Una volta si davano nomi comuni,
e francesi, ai bambini, perché si era in Francia. Questa mania dei francesi di
denazionalizzare i nomi, e questo modo che hanno tanti immigrati di dare nomi
del Paese d’origine ai loro bambini non mi piace. Quando sento che Mohamed è il
nome proprio più frequente nella regione parigina mi allarmo, e quando sento
l’ex alto commissario del governo Martin Hirsch dire in tv che l’integrazione
sarà completa il giorno in cui dei genitori cattolici chiameranno il loro
figlio Mohamed, mi dico che a forza di politicamente corretto la Francia
cammina con le gambe per aria».
Che cosa pensa,
quindi, della nuova Francia di François Hollande?
«Non sfrutterà
qualche buona idea del governo precedente, come il dibattito sull’identità
nazionale, anche se venne organizzato in modo maldestro. Io credo che una
riflessione collettiva su quel che siamo sarebbe necessaria, magari non sotto
il patrocinio del governo. Ma gli intellettuali non sono messi meglio dei
politici, basta vedere le reazioni di molti storici al progetto, insieme
innocente e necessario, di un museo della storia di Francia».
E l’Europa?
«Appena uno prova a dire che la civiltà
europea e la civiltà turca non sono uguali, viene accusato di razzismo, e si
sente rispondere che l’Europa non è un club cristiano. L’Europa non vuole porsi
come civiltà, preferisce parlare di euro e procedure. Ma credo sia tempo di
prendere atto dell’esistenza di un’identità europea. Dopo tutto è la grande
lezione dei dissidenti dell’Europa centro-orientale. Di fronte all’oppressione
totalitaria venuta dalla Russia, Kundera difendeva l’identità europea. Dobbiamo
essere coscienti di questo patrimonio e rivendicarlo. Senza vanità, e senza la
vergogna imposta dal politicamente corretto».
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