Interessante come sempre l'articolo di Angelo Panebianco sulla prima pagina del Corriere della Sera. Il Professore torna su un tema già trattato in precedenza : per favorire veramente il progetto di integrazione europea bisogna guardare allo stesso con occhi realistici . I sognatori sono importanti perché indicano vie che i troppo razionali non vedrebbero mai, però poi per costruire le strade ci vogliono gli ingegneri.
E così, in Europa, dobbiamo ricordare che l'idea dell'Unione viene coltivata per utilità e non solo per ideale.
All'inizio, il proposito di evitare una nuova guerra che devastasse il continente - in 35 anni ben due , estese anche ad altri continenti - e, grazie anche alla guerra fredda e alla divisione tra occidente e oriente, questo obiettivo è stato finora ottenuto : non c'era Mai stato nella storia europea un periodo di pace più lungo e prospero ( ben 67 anni) . L?altro più recente obiettivo, che francamente stenta assai ad affermarsi, è creare una UE grande, federata, capace di competere in un mondo globalizzato deve piccolo non è né bello né utile.
Ora che paesi come Cina e India, con un mercato interno potenziale di miliardi di persone (in tutta Europa,compresi i paesi ancora non integrati, siamo 700 milioni) , con costi di manodopera assolutamente inarrivabili per l'occidente , hanno lanciato una concorrenza spietata, si constata che i singoli stati europei in alcun modo potrebbero reggere il confronto. Questa cosa è vera, però è altrettanto vero che la risposta finora data è stata assolutamente carente.
Panebianco ricorda quindi a tutti che l'Unione è una scelta Politica, non meramente ideale, e come ogni cosa politica ha la sua parte non nobile, fatta di interessi, di convenienze, tra i vari paesi e anche all'interno degli stessi. Bisogna quindi decidersi ad adottare degli strumenti di sintesi, che consentano strategie unitarie che finalmente diano all'Europa Federata una unica voce in campo mondiale, e questo nei vari settori : Politica economica e politica estera. Al G20 non dovremmo andare in ordine sparso, Germania, Francia , GB, Italia...e così all'ONU, e così nel fronteggiare eventuali crisi anche minori con paesi ALTRI (la vicenda irrisolta dei nostri marò in India, che non è cosa di competenza UE).
Per fare questo ovviamente l'EUROPA non può essere quello che è oggi, e i popoli che la compongono devono entrare in un'ottica di cambiamento assai forte rispetto al presente.
Per gli Italiani, osserva Panebianco, è meno difficile. Da noi l'idea di Patria, per ragioni storiche, non è radicata, e dirci "europei" anziché "italiani" ci appare una gran figata ( a parte lamentarci quando i regolamenti di Bruxelles ci impongono cose che non ci piacciono ovviamente, vedi quote latte, ma anche il non poter più aiutare come prima le aziende di casa, Alitalia per fare un nome) . Ma per paesi come Germania e Francia, per dire, non è affatto così. Non parliamo poi della Gran Bretagna, felice di essersi tenuta la sua sterlina.
In Germania si parla di referendum, per poter apportare delle modifiche alla Costituzione nazionale che così com'è non consentirebbe i passi che lentamente e con grandissima difficoltà vengono intrapresi verso una unione europea Politica. Sono referendum assai temuti, perché se ne teme l'esito negativo.
Eppure non si può prescindere da essi, se non si vuole continuare ad una costruzione proveniente dall'alto, che non si radica mai nelle coscienze popolari.
Buona Lettura
LA PARTITA PER
UN’EUROPA PIÙ UNITA
L’integrazione e gli interessi
La discussione che si è
aperta in Germania sulla opportunità di indire un referendum che superi i
vincoli e gli ostacoli che la Costituzione tedesca pone ai progetti di maggiore
integrazione in Europa, ci riporta forse alla realtà.
La Germania, come
qualunque altro Paese europeo di fronte alla crisi, è divisa sul da farsi:
varie opzioni, anche contrapposte, si contendono il campo. Come sempre accade
in tutte le democrazie (e, in realtà, in tutti i sistemi politici complessi,
anche quelli autoritari, Cina inclusa). E ciò forse significa, contro certe
interpretazioni troppo unilaterali che hanno dipinto la Germania come un
compatto blocco di potere teso a distruggere le economie più deboli succhiando
loro il sangue, che esistono margini di manovra e di trattativa più ampi di
quelli fin qui immaginati, anche per i partner europei della Germania, Italia
compresa. Disporre di margini di manovra richiede però due cose: la prima
consiste nella capacità di perseguire con continuità intelligenti ed energiche
politiche di risanamento interno (i compiti a casa). Senza di che, i margini di
manovra, insieme alla credibilità, si riducono a zero. Si spera che i partiti,
nell’imminente campagna elettorale, ne vogliano tenere conto. La seconda
consiste nell’adozione di una visione più realistica di quella che è sempre
circolata in Italia sulla natura dell’integrazione europea. Non c’è più tempo
né spazio per quella retorica, spesso fondata sull’autoinganno e su idee di
dubbia consistenza, che l’Italia pubblica ha tante volte abbracciato. Un
europeismo adeguato ai tempi richiede che l’Unione venga guardata per ciò che
è, senza fronzoli, miti e utopie. Cominciamo col ricordare, anche se ciò può
dispiacere ad alcuni, che l’ideale di una Europa unita è un ideale freddo. Non
abbandonare la strada dell’integrazione, perseverare nel cammino verso
l’unificazione politica, serve sicuramente a tutti noi europei. «Serve»,
appunto. Il verbo scelto rimanda al carattere strumentale (o prevalentemente
strumentale) di questo processo. L’integrazione europea ha infatti due scopi.
In primo luogo, mantenere la pace in Europa (il che non sarebbe più garantito
se l’Unione si disgregasse). In secondo luogo, assicurare anche agli europei,
in un’epoca in cui potere e ricchezza sono collegati alle «taglie forti», in
cui solo i giganti politici dettano legge, di godere di indipendenza (e quindi
tutelare le proprie storiche libertà) e di influenza (e quindi incidere sulle
scelte da cui può dipendere la futura prosperità delle nazioni europee
associate). C’è poi da sbarazzarsi di un modo paradossale, e tuttavia
diffusissimo in Italia, di guardare all’integrazione politica europea. In tanti
resoconti, essa è stata troppe volte dipinta, con imperdonabile ingenuità, come
se si trattasse di un processo apolitico. Molti ne parlavano, e tuttora ne
parlano, come se l’integrazione politica non dovesse, a dispetto
dell’aggettivo, mettere in gioco la politica, ossia quella competizione sempre
aspra, spietata, per il potere, lo status e la ricchezza, che è tanta parte del
materiale di cui è fatta la politica, e senza il quale la politica non c’è.
Forse è proprio il fatto di avere così a lungo pensato l’integrazione politica
in termini apolitici, di non avere capito in tempo che l’auspicata «costruzione
di una Europa federale» non può avvenire senza essere accompagnata da una dura
competizione che inevitabilmente genera, e genererà, vincitori e vinti (fra i
Paesi e all’interno dei Paesi), a spiegare la sorpresa che ha colto tanti
italiani quando hanno scoperto (ma guarda un po’) che i tedeschi erano e sono
molto attenti agli interessi loro, che i francesi, aggrappati al tabù della
sovranità, devono alimentare la finzione di un «rapporto alla pari» con la
Germania, eccetera, eccetera. Prima ci sbarazzeremo della visione irenica,
apolitica appunto, dell’integrazione europea e prima e meglio potremo
contribuire alla causa comune (l’integrazione) difendendo contemporaneamente, con
la durezza necessaria, i nostri interessi. Purtroppo, bisogna dirlo, l’Italia
non è ancora attrezzata per giocare al meglio questa complicata partita. Non
solo perché, ovviamente, non si può difendere niente se non si è messo in
ordine la propria casa, se non si è diventati efficienti e competitivi. Ma
anche per una ragione culturale: per decenni, l’Italia pubblica ha creduto di
potere sostituire l’europeismo al patriottismo («bruciato» dall’avventura
fascista e dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale), di fare del primo un
surrogato del secondo. Non si è mai adeguatamente preparata per una partita in
cui il problema è mantenere un ragionevole equilibrio fra le ragioni
dell’europeismo e quelle del patriottismo; lavorare per la causa comune e,
insieme, tutelare i propri interessi in una competizione in cui nessuno regala
niente a nessuno. I nostri governi, naturalmente, badando pragmaticamente agli
interessi, lo hanno sempre fatto. A volte bene e a volte male. Ma senza mai
spiegarne fino in fondo condizioni e implicazioni alla classe politica nel suo
insieme e all’opinione pubblica. I tempi richiedono che si adotti con rapidità
una più appropriata prospettiva.
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