La posta di Sergio Romano, rubrica del Corriere della Sera, fornisce spesso spunti interessanti grazie a domande bene articolate da parte dei lettori,. a cui l'ex ambasciatore ore opinionista dà risposte sintetiche ma efficaci.
Lo scambio che di seguito riporto riprende la vexata quaestio della previdenza e dei cambiamenti in corsa delle regole pensionistiche. In sostanza il lettore, usando una parabola suggestiva, si richiama ai principi dell'osservanza dei Patti (Pacta sunt servanda, scrivevano i giuristi romani ) e sulla conservazione dei diritti acquisiti. Di fondo, rivendicava il suo diritto al mantenimento della vecchia e FOLLE regolamentazione della previdenza italiana, che tanto ha contribuito al salto del banco del bilancio pubblico : quella per la quale dopo 15 anni di contributi potevi andartene in pensione......
Quindi, se la parabola come detto ha un suo appeal, in realtà non ha attinenza. Anche perché NON vi è un corretto equilibrio tra contribuzione e controprestazione (il nostro potrebbe stipulare una polizza assicurativa di 15 anni, versare i contributi che versa allo Stato, e vedere se dopo soli tre lustri si trova con una pensione a vita pari alla sua ultima retribuzione !! ).
SI è trattato di folli privilegi concessi sull'onda di un'euforia da paese che , siccome aveva superato la povertà, pensava di essere ricco e che quindi dovesse distribuire ricchezza a pioggia ai suoi cittadini. I sindacati furono gli scellerati profeti di questa pazzia, e la politica, per garantirsi il consenso elettorale, li ha assecondati. La retorica dei contratti collettivi (slegati dalle singole realtà aziendali e del territorio ), l'appiattimento salariale, la retribuzione prescindente dalla produttività e dalla redditività, la cassa integrazione straordinaria, sono altre "conquiste" catastrofiche della casta sindacale e del compromesso storico dell'Italia cattolica e comunista.
Le pensioni baby, che il lettore sciaguratamente difende, erano tra queste pazzie finalmente debellate.
Ce ne sono in piedi ancora molte altre. Troppe
Buona Lettura
LA PARABOLA DEL VITALIZIO UNA LEZIONE DALLA CRISI
Nel 1993 mi
sono impegnato con un mio cliente, in cambio di 15 anni di somme che mi aveva
versato negli anni dal 1977 al 1992,
a pagargli un vitalizio a partire dal 2014. Dopo averlo
più volte rassicurato che tutto era a posto, l’altro giorno l’ho
improvvisamente avvertito che i 15 anni di versamenti non mi erano più
sufficienti e ne volevo 20; altrimenti avrei cambiato metodo di calcolo,
riducendo l’importo del vitalizio al 50%. Il cliente mi ha denunciato e mi
hanno messo in galera. Nel 1993 lo Stato si è impegnato con me, in cambio di 15
anni di contributi che gli avevo versato negli anni dal 1977 al 1992, a pagarmi una
pensione a partire dal 2014. Dopo avermi più volte rassicurato che tutto era a
posto, l’altro giorno lo Stato mi ha improvvisamente avvertito che i 15 anni di
contributi non gli erano più sufficienti e ne voleva 20; altrimenti avrebbe
cambiato metodo di calcolo, riducendomi l’importo della pensione al 50%. Ho
denunciato lo Stato, ed Elsa Fornero è stata lodatissima, Mario Monti va in
giro a farsi dire quanto è stato bravo, Angela Merkel è «impressed», la stampa
è tutta un delirio di applausi. Ancora una volta mi sfugge qualcosa!
Sembrerebbe che allo Stato sia consentito fare al suddito quello che una
persona non può fare a un’altra persona. Ma non può essere, o forse sì?
Paolo Viel
Caro Viel, complimenti, anzitutto, per la sua brillante parabola. Non
credo che lei abbia contratto un debito, abbia preso un impegno non mantenuto e
sia finito in galera. Ma le parabole sono esercizi della fantasia, servono a
raccontare una tesi e rappresentano da sempre, come sappiamo, un efficace
strumento didattico. Ma fra le due situazioni da lei descritte vi è una
importante differenza. Nella prima parte della storia l’eroe riceve in prestito
una somma di denaro, non paga gli interessi sul debito, ma s’impegna a
compensare il prestatore con un vitalizio. Dobbiamo supporre che il creditore
abbia tenuto conto delle proprie aspettative di vita e deciso di correre il
rischio. Ma il debitore, improvvisamente, decide unilateralmente di posticipare
l’inizio del vitalizio e «ruba » così al prestatore cinque anni di vita
confortevole. Non è probabile che sconti la pena in un carcere della
Repubblica, ma quella che ha commesso può essere genericamente definita una
truffa. Elsa Fornero e Mario Monti, invece, non hanno contratto prestiti e
promesso vitalizi. Hanno ereditato il governo di un Paese in cui la classe
politica, per molti anni, ha comperato il consenso degli elettori mantenendo in
vita aziende improduttive, distribuendo incarichi inutili, facendo generosi
regali (pensioni di anzianità e d’invalidità). Lo ha fatto prendendo a prestito
più denaro di quanto il Paese ne guadagnasse e intaccando così il capitale che ogni
generazione riceve in eredità nel momento in cui comincia a lavorare. Questo
dissennato esercizio si è protratto sino a quando, nel mezzo di una grave crisi
internazionale, i prestatori di denaro hanno cominciato a dubitare della
capacità dell’Italia di pagare i suoi debiti e si sono cautelati alzando
considerevolmente i tassi d’interesse sul denaro di cui il nostro Tesoro ha
bisogno per il servizio del debito. Ancora una osservazione, caro Viel. Ho
parlato delle responsabilità della classe politica, ma non sarebbe giusto
dimenticare che questi errori sono stati commessi con la obiettiva complicità
del Paese. Non tutti siamo egualmente responsabili, ma usciremo dalla crisi
soltanto se eviteremo di accusarci a vicenda per colpe commesse dall’intera
società nazionale.
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