domenica 16 settembre 2012

ANTIDOPING : UNA BATTAGLIA PERSA. MEGLIO IL TANA LIBERA TUTTI




All'inizio sembrava una provocazione : liberalizzare il Doping. Poi, piano piano, quello che sembrava solo un modo per denunciare l'insufficienza dei sistemi di lotta alla alterazione delle proprie capacità di resistenza alla fatica, è diventato un pensiero VERO.
I record continui, le performance poco umane non solo dei campionissimi, dei Bolt per intenderci (e ovviamente Carl Lewis insinua che il giamaicano BARI ) , ma di un numero troppo elevato di atleti, fanno pensare che non ci sia avanzamento culturale, di condanna generale e diffusa del doping, ma solo la lotta tra scienziati, farmacisti, coloro che scoprono nuove forme di "trucchi" e il modo per coprirli da un lato, e i buoni smascheratori dall'altro.  Tra l'altro, laddove la lotta al doping viene condotta seriamente, la violenza della stessa lascia perplessi. Blitz all'alba, esami del sangue, contro analisi....
E questo non viene fatto ovviamente contro chi è sospettato, ma con  TUTTI. A turno, a sorteggio....
Inevitabile, visto che tutti in realtà sono alla fine sospettati.....
E allora più di qualcuno dice con toni sempre più convinti : facciamola finita con questa lotta perdente, con questa ipocrisia dello sport PURO.
Per esserlo, dovremmo accontentarci, spiegano, di non avere dei SUPER ATLETI, dei recordmen che esaltano il pubblico , attirano le tv, gli sponsor ecc. ecc.
La degenerazione della prestazione eccellente si inizia a vedere addrittura in campo dilettantisco, sia tra i ragazzini che tra i semplici amatori !!
Allora, o si fa un passo indietro, e si accetta che anche la disumanità degli allenamenti , realizzati attraverso macchine e tecniche sempre più evolute ma anche lontane dalla "normalità" umana, sono delle forme di doping e andrebbero eliminate, oppure meglio il Tana libera tutti.
Almeno la smetteremo di idolatrare fenomeni come Pantani, Armstrong, Ben Johnson , Agassi per poi scoprire che baravano.
Di seguito l'articolo di Mauro Covacich sulla Lettura del Corsera di domenica scorsa.
Io l'ho trovato illuminante, soprattutto per la denuncia dell'ipocrisia di certa retorica.
Buona Lettura


LIBERALIZZATE IL DOPING
Non si tratta di depenalizzare ma di dare maggiore trasparenza  



Riprendo il discorso avviato da Sandro Modeo sulla scorsa «Lettura» intorno alle pratiche dopanti nello sport, perché è una questione che mi sta a cuore sia come spettatore sia come ex atleta — lo dico subito perché si capisca da quale punto di vista sostengo da anni la liberalizzazione del doping. 
Innanzitutto bisogna allargare il campo, l’inquadratura stretta sull’atleta non serve a nulla. Lo sport, inteso come libera espressione di un gesto che coniuga alla perfezione le facoltà mentali e fisiche dell’essere umano, non esiste più
Esiste lo sport professionistico, il mestiere sport.
Anche i bambini, ormai sempre più smaliziati (non a caso sono nostri figli), lo affrontano così: sono attratti da quegli sport dove più forti sono le promesse di affermazione sociale ed economica. In Europa, il calcio. In Africa, la corsa lunga. Nei Caraibi, la velocità. Il ragionamento è lo stesso, basta osservare i vivai. A livello agonistico, fin dall’inizio l’impostazione è professionale: entro in vasca due volte al giorno (una prima di andare a scuola), sei giorni su sette, nuoto novanta chilometri alla settimana, perché voglio accedere al mondo dei privilegi, essere contesa dagli sponsor e invitata alle sfilate, stare sulle copertine, vivere da vip (altrimenti chi me lo fa fare?). 
In secondo luogo, il sistema dello sport professionistico dipende totalmente dalla tv. Esiste solo se è spettacolare, solo se produce alte prestazioni. Le alte prestazioni producono alti indici di ascolto, gli alti indici di ascolto producono ottimi spazi pubblicitari e sponsor motivati, gli sponsor motivati producono contratti per squadre e campioni. Già, ma come possono gli atleti regalarci sempre e solo alte prestazioni? A questo preferiamo non pensare. Noi sappiamo solo che vogliamo guardare un Tour de France dove il gruppo procede per venti tappe di fila (sei delle quali in montagna) a cinquanta chilometri all’ora, altrimenti cambiamo canale. Ci scandalizziamo ogni volta per un nuovo dopato. Ma come, proprio lui? Sembrava così a posto. Continuiamo a guardare in modalità sub iudice gli scatti in salita della nuova maglia gialla, entusiasmandoci, e subito pentendoci dell’entusiasmo (negli ultimi vent’anni non ricordo un campione del ciclismo che non abbia avuto qualche problema con l’antidoping). Ovviamente l’abbiamo inventato noi questo sistema — eventi spettacolari, grandi giri di affari, è la nostra epoca — ma con il doping ci sentiamo pugnalati alle spalle. Vogliamo illuderci che il corpo dello sportivo sia ancora lo scrigno della nostra verginità perduta. Accettiamo ogni tipo di modificazione — liposuzioni, mastoplastiche, allungamenti del pene — ma il corpo dell’atleta deve restare intatto, un reperto anacronistico della bellezza classica, il perfetto equilibrio di idea e materia, il discobolo di Mirone, la rappresentazione sensibile dello Spirito Assoluto nella temibile triade hegeliana. Accettiamo che i divi del rock affrontino il palco strafatti, che il grande pianista Ramin Bahrami suoni Bach col pedale e che qualsiasi cosa che ci circonda sia dopata, ma gli atleti no, i divi dello sport si devono esibire puliti. E il sistema — i tecnici, i giornalisti, le società sportive — assecondano la nostra illusione, non ci aprono gli occhi, anzi, si scandalizzano insieme a noi. 
Liberalizzare il doping smonterebbe questa farsa, è lo smascheramento di cui ha bisogno lo sport contemporaneo. La prima obiezione di solito verte sulla salute dell’atleta. Ma gli atleti professionisti oggi non improvvisano nulla, sono macchine sofisticatissime nelle mani di medici specialisti, prova ne sia che l’emoglobina sintetica di nuova generazione e i nuovi protocolli di somministrazione sfuggono anche ai controlli incrociati. È finita l’epoca in cui l’atleta si doveva svegliare nel cuore della notte e salire sulla cyclette per fluidificare il sangue. L’obiezione salutista è risibile soprattutto se confrontata con i rischi ben più gravi che gli atleti accettano di correre durante le gare, rischi che rappresentano spesso una delle ragioni principali per le quali restiamo incollati allo schermo. Basti pensare al motociclismo o alla Formula Uno. Per non parlare dei ciclisti che scendono a novanta all’ora con la pioggia dai passi di montagna e di come le telecamere si precipitano fameliche a inquadrare le cadute. La seconda obiezione verte sull’adulterazione dei reali valori in campo. Ma una volta che venissero autorizzate le pratiche dopanti, si otterrebbe al contrario una maggiore trasparenza. Ora la superiorità del campione è sempre gravata dal sospetto; dopo, se tutti potessero assumere le stesse sostanze, i vantaggi di fatto si annullerebbero e si ripristinerebbero automaticamente le differenze «naturali». Resterebbe alla responsabilità individuale la scelta di partecipare o meno al gioco. 
La terza obiezione è «lirica» e verte sullo svilimento del gesto (questa, tra l’altro, proviene più spesso dai patiti del calcio, i quali di questi tempi, quanto a svilimento, direi che hanno problemi ben più gravi del doping). Ma chiunque conosca lo sport agonistico per averlo praticato sa che la fatica, la bellezza, l’abnegazione di due maratoneti che si inseguono nei sali e scendi di Central Park non verrebbero certo inficiate da qualche fiala di eritropoietina. La poesia resterebbe inviolata. Semmai è più snaturante e prosaica la fobia per i tempi morti, l’horror vacui delle dirette televisive. Come si può accettare l’abolizione delle false partenze nella velocità? 
Resta fuori per ragioni di spazio tutto il discorso sul doping fisico. Un atleta costretto a correre duecentocinquanta chilometri alla settimana, con tabelle di allenamento concepite per androidi, non sta forse già maltrattando il suo corpo? Pochi mesi dopo che le nuotatrici cinesi vinsero tutto ai mondiali di Roma 1994 si scoprì che assumevano anfetamine: il fatto è che lo facevano non per migliorare le prestazioni, bensì per reggere lo stress psicologico di carichi di lavoro massacranti. È già qui il doping, ben prima della chimica: in questo corpo avulso, spremuto, usato come attrezzo del mestiere. 
Prima di imprecare al prossimo campione pizzicato con le urine sballate, converrebbe chiedersi: ma io andrei allo stadio a vedere dei ragazzi che corrono i cento metri in 11 secondi? Se la risposta è sì, allora troveremo anche la forza di spegnere la tv e far fallire il sistema. Saremo dei veri estimatori del gesto atletico e il dilettantismo tornerà a trionfare. Se la risposta è no, allora sarà più onesto accettare che i nostri beniamini si aiutino come possono per dare spettacolo.

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