La rivoluzione del web è un po' sopravvalutata, almeno a livello di determinazione di fenomeni politici.
Non che la possibilità di comunicare con tanta facilità ed immediatezza non abbia avuto e non abbia risvolti importanti ma perché i fenomeni si consolidino e si strutturino c'è bisogno di qualcosa di più...
Insomma, per fare un esempio limite, per via aerea un nemico lo puoi indebolire ma poi, se vuoi veramente vincere, è sul campo che devi scendere.
E così, a oltre un anno dalle famose rivoluzioni arabe oggi diffusamente ingrigite, e nell'anniversario di OCCUPY WALL STREET , l'entusiasmo è decisamente scemato, e qualcuno fa anche i conti con le "controindicazioni" della rete . In primo luogo, è uno strumento che può essere manipolato e sfruttato anche dal "nemico", cioè dai regimi , politici o finanziari che siano, che si vogliono abbattere.
Poi, il masturbarsi in rete con la prospettiva del MEGLIO, magari finisce per affossare partiti e movimenti comunque migliori di quelli a cui , così facendo, si apre la strada. L'esempio per quelli di sinistra viene dalla Spagna, dove gli indignados, con la loro condanna senza sconti al governo di Zapatero, hanno consegnato il paese ai conservatori. Non so se sia proprio così, però certamente quelle astensioni ai socialisti non hanno giovato. E quelli di Zuccotti PArk si sono liquefatti come neve al sole, non assumendo nessuna dimensione organizzativa che andasse oltre lo spontaneismo giovanilista.
Si potrà dire che le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma altri obiettano che in Libia, e oggi in Siria, ci sono state e ci sono delle rivolte vere, delle autentiche guerre civili in cui l'influenza della rete è (è stata) assolutamente limitata.
Insomma, uno strumento indubbiamente eccezionale, ma attenzione a scambiare il sogno per realtà. Alla fine della fiera quelli che navigano sono ancora relativamente pochi per poter essere veramente rappresentativi (visto le elezioni in Arabia ? ) e comunque non si può sostituire l'impegno sul "campo".
Senza contare che protestare è giusto, discutere e indignarsi è anche figo, però poi bisogna immaginare delle alternative funzionanti, e lì le cose non sono andate troppo bene.
Di questo parla il bell'articolo che Fabio Chiusi ha scritto commentando il libro del sociologo spagnolo, Manuel Castells, titolato "Reti d'indignazione e speranza", osservando come anche gli studiosi a volte s'innamorano dell'oggetto del loro studio...
Buona Lettura
L'AUTUNNO DI OCCUPY CHE CASTELLS SI OSTINA A NON VEDERE
C’è un grande assente nel nuovo libro di Manuel Castells che
racconta nascita, sviluppo e caratteristiche dei movimenti sociali nell’era di
Internet (Networks of Outrage and Hope, «Reti d’indignazione e speranza»,
appena uscito negli Stati Uniti presso l’editore Polity): ed è la Rete così
come la conosciamo. Descrivendo il modo in cui piazze reali e virtuali si sono
intrecciate dalla «primavera araba» agli Indignados e Occupy Wall Street, il
sociologo spagnolo, tra gli studiosi di scienze sociali più citati al mondo e
autore di testi fondamentali come la trilogia The Information Age (1996-98) e
Communication Power (2009), considera i social network «uno spazio di autonomia
largamente al di là del controllo di governi e aziende», il web «sicuro»,
«protetto», «libero», dove «l’orizzontalità è la norma». E, soprattutto, una
«piattaforma privilegiata per la costruzione sociale di autonomia».
Nessuna menzione dell’uso dei social media per identificare,
sorvegliare e reprimere i dissidenti. Nessuna distinzione tra libertà
(limitata) del cyberspazio in un regime autoritario com’era la Tunisia di Ben
Ali — con i controlli proseguiti anche dopo la sua caduta, con la scusa della
lotta alla pedopornografia online — e in democrazie, pur problematiche, come la
Spagna e gli Stati Uniti. Per venire a conoscenza, ma solo di passaggio, del
problema delle richieste governative a Twitter di ottenere tutti i dati delle
comunicazioni private degli attivisti del «99%» bisogna attendere pagina 175. E
quando Castells giustamente cita il blackout di Internet in Egitto, dimentica
lo studio in cui un ricercatore di Yale, Navid Hassanpour, mostra come
l’effetto sia stato quello di diffondere e ingigantire — e non soffocare — le
rivolte. Segno che forse la Rete non era così decisiva.
Del resto, l’autore aveva appena finito di sostenere che gli
alti tassi di penetrazione di web e smartphone in Tunisia fossero la
«precondizione» per lo scoppio della rivoluzione. Ignorando che, come ha
ricordato Andrea Matiz su «Limes », Paesi come Libia, Yemen e Siria — teatro di
vere e proprie guerre civili — hanno le percentuali più basse. E che al
contrario, poco o nulla è accaduto in altri con tassi perfino più alti, come
Qatar o Emirati Arabi.
Il problema non è da poco, perché si insinua nel cuore della
teoria di Castells sul cambiamento sociale. Solo se Internet è il luogo
elettivo della creazione di «autonomia», uno spazio di libertà assoluta, può
fungere da ponte tra l’indignazione e la speranza — l’ipotesi principale del
volume. Solo a questomodo la reazione emotiva da cui scaturiscono le rivolte,
ne è convinto Castells, si può legare a nuovi modi di deliberazione e all’
«utopia di una nuova democrazia connessa». Forse l’autore, pur rigoroso
nell’integrare studi accademici ed esperienze sul campo, si è lasciato
contagiare dal personale entusiasmo — dichiarato in apertura — per i movimenti
che si era proposto di descrivere. O da quello che per lungo tempo li ha
circondati. Perché a un anno di distanza il clima è completamente cambiato.
Dalla retorica sulla «primavera araba» si è passati a
quella, uguale e contraria, sull’«autunno di Al Qaeda». Gli indignati sono
sostanzialmente spariti dopo avere ottenuto l’unico risultato, lo scrive anche
Castells, di affossare i socialisti di Zapatero e Rubalcaba. Quanto a Occupy
Wall Street, le forze sembrano essersi disperse al punto che la notizia, nel
giorno del primo compleanno, non è stata il tentativo di ridefinirsi come
unmovimento per trasformare la nostra comprensione della moralità del debito —
riassunto perfino in un manuale diffuso gratuitamente online — ma l’imponenza
degli arresti per i (pochi) manifestanti accorsi a Zuccotti Park. I problemi
hanno travolto gli entusiasmi sulle nuove forme e i nuovi processi che la
«democrazia reale» avrebbe dovuto assumere; un misto di assemblee generali
infinite, comitati e commissioni che si moltiplicano senza sosta e lunghissime
e improduttive discussioni non su che fare, ma su come decidere che fare.
Non che Castells non ne parli. Anzi, la sua analisi è
puntuale, precisa. Ma, ancora una volta, sorvola sul potenziale distruttivo
dell’essere senza leader, del rigettare l’istituto della rappresentanza e di
preferire il consenso al principio di maggioranza. Per l’autore i movimenti
hanno comunque vinto, perché «il vero cambiamento è avvenuto nella mente delle
persone». E si affanna a mostrare, sondaggi alla mano, che se oggi l’acuirsi
delle disuguaglianze è percepito come un problema (Castells riporta in vita
l’espressione «lotta di classe»), è merito di indignati e affini. Eppure gli
stessi sondaggi mostrano una evidente discrepanza tra un gradimento generico
per quei movimenti e una condanna della paralisi e del vuoto decisionale che
hanno generato. Se il connubio di libertà online e occupazione — e
riappropriazione — di spazi fisici tramite le acampadas mette le radici a una
nuova democrazia praticandola, come sostiene Castells, viene da chiedersi: come
si pratica una democrazia impraticabile? Come si coniuga la necessità di
prendere decisioni nazionali e internazionali in un contesto che richiede
sempre maggiore tempestività con la possibilità per chiunque di bloccare il
consenso — e dunque l’azione — con un semplice veto? Insomma, quando non hanno
chiesto la testa del dittatore, questi movimenti hanno voluto «tutto e niente»,
dice Castells. Per non compromettersi con una politica che rifiutano o con la
logica «produttivista» del detestato capitalismo. A un anno di distanza, non
sembra avere funzionato.
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