sabato 29 settembre 2012

DOPO LA PRIMAVERA ARABA, ANCHE "OCCUPY" CONOSCE IL SUO AUTUNNO



La rivoluzione del web è un po' sopravvalutata, almeno a livello di determinazione di fenomeni politici.
Non che la possibilità di comunicare con tanta facilità ed immediatezza non abbia avuto e non abbia risvolti importanti ma perché i fenomeni si consolidino e si strutturino c'è bisogno di qualcosa di più...
Insomma, per fare un esempio limite, per via aerea un nemico lo puoi indebolire ma poi, se vuoi veramente vincere, è sul campo che devi scendere.
E così, a oltre un anno dalle famose rivoluzioni arabe oggi diffusamente ingrigite, e nell'anniversario di OCCUPY WALL STREET , l'entusiasmo è decisamente scemato, e qualcuno fa anche i conti con le "controindicazioni" della rete . In primo luogo, è uno strumento che può essere manipolato e sfruttato anche dal "nemico", cioè dai regimi , politici o finanziari che siano, che si vogliono abbattere.
Poi, il masturbarsi in rete con la prospettiva del MEGLIO, magari finisce per affossare partiti e movimenti comunque migliori di quelli a cui , così facendo, si apre la strada. L'esempio per quelli di sinistra viene dalla Spagna, dove gli indignados, con la loro condanna senza sconti al governo di Zapatero, hanno consegnato il paese ai conservatori. Non so se sia proprio così, però certamente quelle astensioni ai socialisti non hanno giovato. E quelli di Zuccotti PArk si sono liquefatti come neve al sole, non assumendo nessuna dimensione organizzativa  che andasse oltre  lo spontaneismo giovanilista.
Si potrà dire che le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma altri obiettano che in Libia, e oggi in Siria, ci sono state e ci sono delle rivolte vere, delle autentiche guerre civili in cui l'influenza della rete è (è stata)   assolutamente limitata.
Insomma, uno strumento indubbiamente eccezionale, ma attenzione a scambiare il sogno per realtà. Alla fine della fiera quelli che navigano sono ancora relativamente pochi per poter essere veramente rappresentativi (visto le elezioni in Arabia ? ) e comunque non si può sostituire l'impegno sul "campo".
Senza contare che protestare è giusto, discutere e indignarsi è anche figo, però poi bisogna immaginare delle alternative funzionanti, e lì le cose non sono andate troppo bene.
Di questo parla il bell'articolo che Fabio Chiusi ha scritto commentando il libro del sociologo spagnolo, Manuel Castells, titolato "Reti d'indignazione e speranza", osservando come anche gli studiosi a volte s'innamorano dell'oggetto del loro studio...
Buona Lettura

L'AUTUNNO DI OCCUPY CHE CASTELLS SI OSTINA A NON VEDERE 




C’è un grande assente nel nuovo libro di Manuel Castells che racconta nascita, sviluppo e caratteristiche dei movimenti sociali nell’era di Internet (Networks of Outrage and Hope, «Reti d’indignazione e speranza», appena uscito negli Stati Uniti presso l’editore Polity): ed è la Rete così come la conosciamo. Descrivendo il modo in cui piazze reali e virtuali si sono intrecciate dalla «primavera araba» agli Indignados e Occupy Wall Street, il sociologo spagnolo, tra gli studiosi di scienze sociali più citati al mondo e autore di testi fondamentali come la trilogia The Information Age (1996-98) e Communication Power (2009), considera i social network «uno spazio di autonomia largamente al di là del controllo di governi e aziende», il web «sicuro», «protetto», «libero», dove «l’orizzontalità è la norma». E, soprattutto, una «piattaforma privilegiata per la costruzione sociale di autonomia».

Nessuna menzione dell’uso dei social media per identificare, sorvegliare e reprimere i dissidenti. Nessuna distinzione tra libertà (limitata) del cyberspazio in un regime autoritario com’era la Tunisia di Ben Ali — con i controlli proseguiti anche dopo la sua caduta, con la scusa della lotta alla pedopornografia online — e in democrazie, pur problematiche, come la Spagna e gli Stati Uniti. Per venire a conoscenza, ma solo di passaggio, del problema delle richieste governative a Twitter di ottenere tutti i dati delle comunicazioni private degli attivisti del «99%» bisogna attendere pagina 175. E quando Castells giustamente cita il blackout di Internet in Egitto, dimentica lo studio in cui un ricercatore di Yale, Navid Hassanpour, mostra come l’effetto sia stato quello di diffondere e ingigantire — e non soffocare — le rivolte. Segno che forse la Rete non era così decisiva.

Del resto, l’autore aveva appena finito di sostenere che gli alti tassi di penetrazione di web e smartphone in Tunisia fossero la «precondizione» per lo scoppio della rivoluzione. Ignorando che, come ha ricordato Andrea Matiz su «Limes », Paesi come Libia, Yemen e Siria — teatro di vere e proprie guerre civili — hanno le percentuali più basse. E che al contrario, poco o nulla è accaduto in altri con tassi perfino più alti, come Qatar o Emirati Arabi.
 
Il problema non è da poco, perché si insinua nel cuore della teoria di Castells sul cambiamento sociale. Solo se Internet è il luogo elettivo della creazione di «autonomia», uno spazio di libertà assoluta, può fungere da ponte tra l’indignazione e la speranza — l’ipotesi principale del volume. Solo a questomodo la reazione emotiva da cui scaturiscono le rivolte, ne è convinto Castells, si può legare a nuovi modi di deliberazione e all’ «utopia di una nuova democrazia connessa». Forse l’autore, pur rigoroso nell’integrare studi accademici ed esperienze sul campo, si è lasciato contagiare dal personale entusiasmo — dichiarato in apertura — per i movimenti che si era proposto di descrivere. O da quello che per lungo tempo li ha circondati. Perché a un anno di distanza il clima è completamente cambiato.

Dalla retorica sulla «primavera araba» si è passati a quella, uguale e contraria, sull’«autunno di Al Qaeda». Gli indignati sono sostanzialmente spariti dopo avere ottenuto l’unico risultato, lo scrive anche Castells, di affossare i socialisti di Zapatero e Rubalcaba. Quanto a Occupy Wall Street, le forze sembrano essersi disperse al punto che la notizia, nel giorno del primo compleanno, non è stata il tentativo di ridefinirsi come unmovimento per trasformare la nostra comprensione della moralità del debito — riassunto perfino in un manuale diffuso gratuitamente online — ma l’imponenza degli arresti per i (pochi) manifestanti accorsi a Zuccotti Park. I problemi hanno travolto gli entusiasmi sulle nuove forme e i nuovi processi che la «democrazia reale» avrebbe dovuto assumere; un misto di assemblee generali infinite, comitati e commissioni che si moltiplicano senza sosta e lunghissime e improduttive discussioni non su che fare, ma su come decidere che fare.

Non che Castells non ne parli. Anzi, la sua analisi è puntuale, precisa. Ma, ancora una volta, sorvola sul potenziale distruttivo dell’essere senza leader, del rigettare l’istituto della rappresentanza e di preferire il consenso al principio di maggioranza. Per l’autore i movimenti hanno comunque vinto, perché «il vero cambiamento è avvenuto nella mente delle persone». E si affanna a mostrare, sondaggi alla mano, che se oggi l’acuirsi delle disuguaglianze è percepito come un problema (Castells riporta in vita l’espressione «lotta di classe»), è merito di indignati e affini. Eppure gli stessi sondaggi mostrano una evidente discrepanza tra un gradimento generico per quei movimenti e una condanna della paralisi e del vuoto decisionale che hanno generato. Se il connubio di libertà online e occupazione — e riappropriazione — di spazi fisici tramite le acampadas mette le radici a una nuova democrazia praticandola, come sostiene Castells, viene da chiedersi: come si pratica una democrazia impraticabile? Come si coniuga la necessità di prendere decisioni nazionali e internazionali in un contesto che richiede sempre maggiore tempestività con la possibilità per chiunque di bloccare il consenso — e dunque l’azione — con un semplice veto? Insomma, quando non hanno chiesto la testa del dittatore, questi movimenti hanno voluto «tutto e niente», dice Castells. Per non compromettersi con una politica che rifiutano o con la logica «produttivista» del detestato capitalismo. A un anno di distanza, non sembra avere funzionato.



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