La morte di Carlo Maria Martini ha suscitato commozione in molti, e tante pagine di commenti specie nei due giornali italiani principali : Il Corriere della Sera (dove per anni il Cardinale tenne una rubrica di dialogo coi lettori, ovviamente particolare, non certo sullo stile "alberoniano") e Repubblica, dove il fondatore, Scalfari, si è sempre vantato di un rapporto di grande stima col porporato, quasi a sfiorare l'"amicizia".
Evidentemente l'apprezzamneto grande da parte di giornali Laici e di autorevoli personaggi non credenti, qualcosa già dice della non ortodossia del Cardinale coi dettami più conservatori della Chiesa.
Io, l'ho già confessato, temo di essere un agnostico. Ho sospeso il mio "giudizio" sul divino. Non ho il coraggio di definirmi ateo, e allo stesso tempo so bene di non potermi dire "credente". Io invidio chi CREDE. Lo sento dotato di una ricchezza che a me manca. Certo, così come ho inviso gli anticlericali (sono laico, un liberale "cavouriano", credo nella distinzione tra "Cesare e Dio", nel principio di Libera Chiesa in libero Stato, e proprio per questo l'intolleranza anti clericale mi sta sulle palle), non amo i bigotti, i "talebani" cattolici (esistono anche quelli). Qualche volta mi è capitato di parlare con gente di fede vera, buona, tollerante, e toccata da questa grazia. E l'ho "invidiata".
Questa premessa per dire che non mi avventuro in un giudizio su Martini. Non seguo da vicino le cose della Chiesa, e non mi appassionano i temi teologici.
Della biografia di quest'uomo mi hanno colpito però alcune cose : la sua vicinanza al popolo delle carceri, il suo temere la crescente distanza tra la Chiesa e gli uomini, determinata da posizioni ritenute troppo conservatrici, e la scelta degli uomini di Prima Linea di "arrendersi" a questo Principe della Chiesa, ritenuto interlocutore affidabile e comprensivo.
Tra le varie cose che ho letto dopo la sua morte, l'articolo che ho apprezzato di più è quello di Adriano Sofri ( sì, io liberale di destra leggo Sofri, e lo apprezzo, ancorché spesso non ne condivida le idee o le conclusioni) che riporto.
E' un po' lungo, ma credo valga la pena leggerlo.
Leggo che la tesi
teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il “problema
storico della risurrezione”, dove le due parole, storia e risurrezione,
sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l’una finisca dove l’altra
comincia. Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di
distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita
di Gesù, Martini gli avesse risposto: “La Resurrezione, quando scoperchia il
sepolcro e appare a Maria Maddalena”. Quel punto è anche il confine
invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra
Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a
proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si
furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo
interrogò sul romanzo di Tolstoj, “Resurrezione”. Martini riassunse la vicenda
del romanzo –con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un
condannato e deportato, invece che l’uomo pentito che segue volontariamente
nella deportazione la donna che aveva offeso- e concluse che era quello
esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il
punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il
cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri,
convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri
cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte,
prima di quella ultima –o prima d’esser morti del tutto.
Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella
fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria
promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa –tutti
possono diventare Papa, non è come fare il farmacista- o missionario in Congo o
in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena
dall’avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di
un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l’ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a
25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa
alla prova accanto ai propri poveri –il rischio della chiesa è infatti di
lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone
di Sant’Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e
anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si
sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla
che lo toglie all’accademia e lo manda, lui mai stato curato d’anime, arcivescovo
a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli
anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli. Si sono ricordati
episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e
che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne
congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione
dell’arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un’aula di
tribunale da due di quei militanti, che l’avevano chiesto. Le iniziative
pastorali, il “Farsi prossimo”, la Cattedra cosiddetta dei non credenti. Ieri
ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva:
“Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti”. Mi
è venuto da sorridere per quel “perfino”. E’ successo infatti alla nostra
società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un
confronto fra le religioni –quando non da un’ottimistica fiducia nella
fratellanza (sorellanza meno…) fra “le tre grandi religioni monoteiste”- da
dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro
prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella
stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e
sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti.
L’ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa. Leggo di Martini che diceva
che in ognuno di noi c’è il coraggio e la paura, e altrove diceva: “Io ritengo
che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano
dentro, che si interrogano a vicenda…”. Forse per lui questo voleva dire che il
coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me,
ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone,
è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a
repentaglio da una premura esclusiva per il “dialogo fra le religioni”, di cui
certo nessuno può sottovalutare l’importanza.
Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l’interprete
di “un’altra chiesa”, forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si
augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il
relativismo, cui sarebbe stato incline, all’opposto del Ratzinger di cui è
stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di “una società sottoposta
alla deriva dell’arbitrio”. E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un
“assolutismo relativista”. Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade,
buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia
altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti
specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io,
ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l’assolutezza è disposto a passare
sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio
Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in
tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate
graziosamente “eticamente sensibili”. Non parlava di omosessualità senza
immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di
profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di
pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull’eutanasia: “Non
si puo’ mai approvare… E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone
che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e
per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e
psichiche disastrose lo chiedono per sé… Per stabilire se un intervento medico
è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi
matematica…”.
Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che
fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un
accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l’aggettivo
terapeutico ci entra abusivamente, ed è l’accanimento a farla da padrone) non c’è
niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera
dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e
laici pretendono di fare dell’accanimento sui corpi altrui una legge dello
Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.
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