domenica 2 settembre 2012

IL CARDINALE AMICO DEI CARCERATI, VISTO DA ADRIANO SOFRI


La morte di Carlo Maria Martini ha suscitato commozione in molti, e tante pagine di commenti specie nei due giornali italiani principali : Il Corriere della Sera (dove per anni il Cardinale tenne una rubrica di dialogo coi lettori, ovviamente particolare, non certo sullo stile "alberoniano") e Repubblica, dove il fondatore, Scalfari, si è sempre vantato di un rapporto di grande stima col porporato, quasi a sfiorare l'"amicizia".
Evidentemente l'apprezzamneto grande da parte di giornali Laici e di autorevoli personaggi non credenti, qualcosa già dice della non ortodossia del Cardinale coi dettami più conservatori della Chiesa.
Io, l'ho già confessato, temo di essere un agnostico. Ho sospeso il mio "giudizio" sul divino. Non ho il coraggio di definirmi ateo, e allo stesso tempo so bene di non potermi dire "credente". Io invidio chi CREDE. Lo sento dotato di una ricchezza che a me manca. Certo, così come ho inviso gli anticlericali (sono laico, un liberale "cavouriano", credo nella distinzione  tra "Cesare e Dio", nel principio di Libera Chiesa in libero Stato, e proprio per questo l'intolleranza anti clericale mi sta sulle palle), non amo i bigotti, i "talebani" cattolici (esistono anche quelli). Qualche volta mi è capitato di parlare con gente di fede vera, buona, tollerante, e toccata da questa grazia. E l'ho "invidiata".
Questa premessa per dire che non mi avventuro in un giudizio su Martini. Non seguo da vicino le cose della Chiesa, e non mi appassionano i temi teologici.
Della biografia di quest'uomo mi hanno colpito però alcune cose : la sua vicinanza al popolo delle carceri, il suo temere la crescente distanza tra la Chiesa e gli uomini, determinata da posizioni  ritenute troppo conservatrici, e la scelta degli uomini di Prima Linea di "arrendersi" a questo Principe della Chiesa, ritenuto interlocutore affidabile e comprensivo.
Tra le varie cose che ho letto dopo la sua morte, l'articolo che ho apprezzato di più è quello di Adriano Sofri ( sì, io liberale di destra leggo Sofri, e lo apprezzo, ancorché spesso non ne condivida le idee o le conclusioni) che riporto.
E' un po' lungo, ma credo valga la pena leggerlo.


 Leggo che la tesi teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il “problema storico della risurrezione”, dove le due parole, storia e risurrezione, sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l’una finisca dove l’altra comincia. Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù, Martini gli avesse risposto: “La Resurrezione, quando scoperchia il sepolcro e appare a Maria Maddalena”. Quel punto è anche il confine invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo interrogò sul romanzo di Tolstoj, “Resurrezione”. Martini riassunse la vicenda del romanzo –con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un condannato e deportato, invece che l’uomo pentito che segue volontariamente nella deportazione la donna che aveva offeso- e concluse che era quello esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri, convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte, prima di quella ultima –o prima d’esser morti del tutto.

Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa –tutti possono diventare Papa, non è come fare il farmacista- o missionario in Congo o in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena dall’avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l’ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a 25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa alla prova accanto ai propri poveri –il rischio della chiesa è infatti di lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone di Sant’Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla che lo toglie all’accademia e lo manda, lui mai stato curato d’anime, arcivescovo a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli. Si sono ricordati episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione dell’arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un’aula di tribunale da due di quei militanti, che l’avevano chiesto. Le iniziative pastorali, il “Farsi prossimo”, la Cattedra cosiddetta dei non credenti. Ieri ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva: “Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti”. Mi è venuto da sorridere per quel “perfino”. E’ successo infatti alla nostra società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un confronto fra le religioni –quando non da un’ottimistica fiducia nella fratellanza (sorellanza meno…) fra “le tre grandi religioni monoteiste”- da dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti. L’ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa. Leggo di Martini che diceva che in ognuno di noi c’è il coraggio e la paura, e altrove diceva: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda…”. Forse per lui questo voleva dire che il coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me, ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone, è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a repentaglio da una premura esclusiva per il “dialogo fra le religioni”, di cui certo nessuno può sottovalutare l’importanza.

Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l’interprete di “un’altra chiesa”, forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il relativismo, cui sarebbe stato incline, all’opposto del Ratzinger di cui è stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di “una società sottoposta alla deriva dell’arbitrio”. E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un “assolutismo relativista”. Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade, buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io, ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l’assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente “eticamente sensibili”. Non parlava di omosessualità senza immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull’eutanasia: “Non si puo’ mai approvare… E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé… Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica…”.

Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l’aggettivo terapeutico ci entra abusivamente, ed è l’accanimento a farla da padrone) non c’è niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e laici pretendono di fare dell’accanimento sui corpi altrui una legge dello Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.

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