lunedì 10 settembre 2012

SOROS LO SPECULATORE E L'ANALISI SULL'EURO

La tragedia dell’Unione europea.

Berlino_190x130Sono sempre stato un fervido sostenitore dell’Unione europea quale incarnazione ideale di una società aperta, associazione volontaria di stati membri paritari che hanno rinunciato a parte della loro sovranità per il bene comune. Ma oggi la crisi dell’euro sta trasformando l’Unione europea in qualcosa di profondamente diverso. Gli stati membri sono divisi in due categorie – creditori e debitori – e i creditori sono al comando, con la Germania in testa. In base alla normativa attuale, i paesi debitori pagano un cospicuo premio di rischio per finanziare i propri deficit di bilancio e questo si riflette nel costo dei finanziamenti in generale. Una situazione, questa, che ha trascinato in recessione i paesi debitori esponendoli a un considerevole svantaggio competitivo, che minaccia di diventare permanente. È questo il risultato non di un piano deliberato, bensì di una serie di errori in politica economica contestuali all’introduzione dell’euro. Si sapeva benissimo che l’euro era una moneta incompleta, dotata sì di banca centrale ma non di un ministero del tesoro. I paesi membri tuttavia non si resero conto che nel rinunciare al diritto di stampare la loro valuta si esponevano al rischio di fallimento. I mercati finanziari se ne sono accorti solo all’inizio della crisi greca. Le autorità finanziarie non hanno capito il problema, e stentano tuttora a tratteggiare una possibile soluzione. Nel frattempo, cercano di temporeggiare. Ma invece di migliorare, la situazione è peggiorata, e la causa di tutto ciò è da ricercarsi in una profonda mancanza di comprensione e di unità in seno all’Unione europea.

Sarebbe stato possibile fermare il corso degli eventi e invertire la rotta in qualsiasi momento, ma questo avrebbe richiesto un piano concordato e ampie risorse finanziare per condurlo a buon fine. La Germania, il maggior paese creditore, si è trovata ai comandi, ma si è rivelata riluttante ad accollarsi ulteriori perdite e svantaggi: di conseguenza, ogni opportunità per risolvere la crisi è andata perduta. Dalla Grecia, la crisi ha contagiato altri paesi in difficoltà e ben presto è stata rimessa in questione la sopravvivenza stessa della moneta unica. Ma siccome lo sgretolamento dell’euro produrrebbe danni incalcolabili a tutti gli stati membri, e in particolar modo alla Germania, questa continuerà a fare il minimo necessario per tenere insieme l’euro.

Le misure di politica economica portate avanti sotto la leadership tedesca riusciranno probabilmente a mantenere in piedi l’euro per un periodo indefinito, ma non per sempre. La divisione permanente instauratasi in seno all’Unione europea tra paesi creditori e debitori – con i creditori che dettano le loro condizioni – appare politicamente inaccettabile. Se e quando l’euro verrà abbandonato, la conseguenza principale sarà lo smantellamento del mercato comune e dell’Unione europea. L’Europa intera si ritroverà in condizioni assai peggiori di quando furono gettate le basi dell’unificazione, perché la rottura si lascerà alle spalle uno strascico di ostilità e di risentimento reciproco. E più verrà dilazionato l’abbandono dell’euro, più tragico sarà il risultato finale. La prospettiva difatti appare talmente spaventosa che è venuto il momento di valutare eventuali alternative fino ad oggi considerate impensabili.

A mio giudizio, la strada migliore da seguire è quella di persuadere la Germania a scegliere tra queste due strade: mostrarsi un paese egemone solidale con l’Unione, oppure uscire dall’euro. In altre parole, la Germania deve guidare l’Europa o uscire dall’Europa.

Poiché tutto il debito accumulato è denominato in euro, è cruciale stabilire chi resterà a capo della moneta comune.

Il debito emesso sotto la legislazione interna può essere ri-denominato nella valuta interna, il debito emesso sotto la legislazione estera non può essere ridenominato. Le implicazioni sono state ampiamente analizzate da Jens Nordvig nella sua analisi, insignita del Premio Wolfson per l’economia.

Se la Germania uscisse dall’euro, la moneta unica si svaluterebbe. Il fardello del debito resterebbe immutato in termini nominali, ma in termini reali si ridurrebbe. I paesi debitori ritroverebbero la competitività perché le loro esportazioni risulterebbero più economiche e le importazioni più costose. Anche il valore immobiliare si apprezzerebbe in termini nominali, ovvero varrebbe di più in euro svalutati. I paesi creditori, dal canto loro, si ritroverebbero a far fronte a perdite negli investimenti nell’area euro, nonché sulle richieste di riscossione accumulate all’interno del sistema di esecuzione dei pagamenti in euro. L’ammontare di queste perdite dipenderà dall’entità della svalutazione, pertanto i paesi creditori avranno interesse a mantenere la svalutazione entro certi limiti.

Tale operazione porterebbe alla realizzazione del sogno di John Maynard Keynes, che invocava un sistema valutario internazionale nel quale sia i creditori che i debitori condividono pari responsabilità per la tutela della stabilità. E l’Europa riuscirebbe a sottrarsi alla minaccia della recessione. Lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto, con costi inferiori per la Germania, se la Germania decidesse di agire come un paese egemone solidale. E ciò significherebbe:

1) offrire condizioni operative più o meno paritarie tra paesi creditori e debitori, e

2) puntare a una crescita nominale non inferiore al 5 percento. In altre parole, all’Europa sarà consentito superare il suo indebitamento eccessivo grazie alla crescita.

Questo percorso però implicherebbe un livello di inflazione maggiore rispetto a quanto la Bundesbank sia disposta ad accettare.

Che la Germania decida di guidare l’Europa o di lasciare l’Europa, ciascuna di queste alternative appare preferibile al proseguire sull’attuale cammino. La difficoltà sta nel persuadere la Germania che le sue decisioni in questo momento stanno spingendo l’Europa verso una recessione prolungata che rischia di sfociare in conflitti politici e sociali, fino a un’eventuale rottura non solo dell’euro, ma anche dell’Unione europea. La domanda – alla quale tenterò di dare una risposta – è la seguente: come fare a convincere la Germania a operare una scelta precisa, vale a dire accettare tanto le responsabilità quanto le perdite che un paese egemone solidale deve inevitabilmente accollarsi, oppure abbandonare l’euro nelle mani dei paesi debitori che indubbiamente se la caverebbero molto meglio con le loro sole forze?

Come siamo arrivati a questo punto.

Ai suoi albori, l’Unione europea incarnò quello che gli psicologi chiamano “un oggetto fantasmatico”, ovvero un traguardo ambito che seppe catturare l’immaginazione di molti, compresa la mia. Per me l’Europa unita rappresenta l’ideale realizzato di una società aperta: l’unione di cinque grandi stati e diversi stati minori, dove tutti condividono i principi di democrazia, libertà individuale, diritti umani e rispetto della legalità. Nessuna nazione né nazionalità occupa una posizione dominante. Benché la burocrazia di Bruxelles sia stata spesso accusata di “scarsa democrazia”, i parlamenti eletti dei singoli stati hanno sempre approvato i grandi passi via via compiuti nel corso degli anni.

Il processo di integrazione è stato promosso con forza da un piccolo gruppo di statisti lungimiranti che praticavano un processo di ingegneria sociale a tassello, così definito da Karl Popper. Ben sapendo che la perfezione è irraggiungibile, i padri fondatori dell’Europa si erano posti obiettivi limitati e scadenze precise, per poi mobilitare la volontà politica affinché venisse compiuto un piccolo passo in avanti. Erano tuttavia consapevoli che l’inadeguatezza di quel piccolo passo sarebbe stata subito palese e avrebbe richiesto un successivo sforzo. Il processo si è evoluto, alimentato dai propri successi, proprio come una bolla finanziaria. È così che la Comunità per il carbone e l’acciaio gradualmente si è trasformata nell’Unione europea, un passo alla volta.

La Francia e la Germania sono sempre stati i maggiori sostenitori dell’iniziativa. Quando l’impero sovietico cominciò a vacillare, i leader tedeschi, rendendosi conto che la riunificazione delle due Germanie era possibile solo nel contesto di un’Europa ancora più unita, si sono mostrati pronti a ogni sacrificio pur di ottenerla. Nel corso delle trattative, hanno sempre concesso qualcosa di più e accettato qualcosa di meno rispetto agli altri, facilitando così gli accordi. In quel periodo, gli statisti tedeschi affermavano che la Germania non aveva una politica estera indipendente, al di fuori di una politica europea. E questo ha prodotto un’enorme accelerazione del processo di integrazione, culminato con la firma del Trattato di Maastricht nel 1992 e con l’introduzione dell’euro nel 2002.

Ma il Trattato di Maastricht era gravato da numerosi difetti sin dal suo concepimento. Gli architetti stessi dell’euro riconoscevano che si trattava di una costruzione incompleta: la moneta unica era dotata di una banca centrale comune ma mancava un comune ministero del tesoro in grado di emettere titoli condivisi da tutti gli stati membri. Gli Eurobond incontrano ancora oggi forti resistenze in Germania e in altri paesi creditori. Gli architetti dell’euro erano convinti, tuttavia, che nel momento della necessità tutti gli stati membri avrebbero espresso la volontà di varare le misure necessarie verso un’unione politica. Dopo tutto, così è nata l’Unione europea. Sfortunatamente, l’euro aveva però molte altre pecche, di cui né gli architetti né gli stati membri erano pienamente a conoscenza. Queste sono emerse nel corso della crisi finanziaria del 2007-8, che ha avviato il processo di sfaldamento.

Nella settimana successiva alla bancarotta di Lehman Brothers, i mercati finanziari globali crollarono e furono mantenuti in vita artificialmente. Per far questo, il credito sovrano (sotto forma di garanzie della banca centrale e deficit di bilancio) è andato a rimpiazzare il credito delle istituzioni finanziarie che non era più accettato dai mercati. Proprio il ruolo centrale che è stato addossato al credito sovrano ha svelato un difetto dell’euro, fino ad allora rimasto nascosto e non ancora adeguatamente riconosciuto. Nel trasferire alla Banca centrale europea quello che era stato in passato il loro diritto a stampare moneta, gli stati membri hanno esposto il loro credito sovrano al rischio di fallimento o default. I paesi sviluppati che controllano la loro moneta non hanno alcun motivo di fallire, possono sempre stampare altri soldi. La loro valuta perderà di valore, ma il rischio di fallimento è praticamente inesistente. In contrasto, i paesi meno sviluppati che accettano prestiti in valuta straniera devono pagare premi che riflettono il rischio di default. Ad aggravare la situazione, i mercati finanziari possono realmente causare il fallimento di questi paesi attraverso manipolazioni speculative dei mercati – vendita a breve dei loro titoli per spingere ancora più in alto il costo dei prestiti, aggravando così i timori di un fallimento imminente.

Quando fu introdotto l’euro, i titoli di stato erano considerati privi di rischi. I regolatori consentivano alle banche di acquistare quantitativi illimitati di titoli di stato senza mettere da parte alcun capitale di garanzia, e la Banca centrale europea accettava tutti i titoli di stato con la discount window (possibilità per le banche di chiedere in prestito direttamente il denaro alla banca centrale a tassi di favore) a pari condizioni. Così facendo, era vantaggioso per le banche commerciali accumulare i titoli dei paesi membri più deboli, che pagavano tassi di interessi leggermente superiori, per poter guadagnare qualche punto base in più.

In seguito alla crisi di Lehman Brothers, Angela Merkel dichiarò che la garanzia che a nessun’altra importante istituzione finanziaria, interna al sistema, sarebbe stato consentito di fallire, doveva essere offerta da ciascun paese separatamente, e non dall’Unione europea in un’azione congiunta. È stata questa la prima picconata in un processo di disintegrazione che minaccia in questo momento di distruggere l’Unione europea.

I mercati finanziari hanno impiegato più di un anno per accorgersi delle implicazioni della dichiarazione della cancelliera Merkel, a dimostrazione che operano con conoscenze lungi dall’essere complete ed esaurienti. Solo nel dicembre del 2009, quando il governo greco appena eletto dichiarò che il precedente governo aveva truccato i conti e che il deficit dello stato superava il 15 percento del PIL, i mercati finanziari si sono resi conto che i titoli di stato, fino ad allora considerati privi di rischi, erano invece gravati da rischi notevoli ed erano esposti al default. Successivamente a questa scoperta, i premi di rischio (sotto forma di rendimenti maggiori che i governi erano costretti ad offrire per vendere i loro titoli, il cosiddetto spread) sono cresciuti in maniera drammatica. E questo a sua volta ha spinto le banche commerciali, i cui bilanci erano carichi di quei titoli, sull’orlo dell’insolvenza. La situazione ha innescato la crisi del debito sovrano e la crisi bancaria, che sono collegate tra di loro e si alimentano a vicenda. Sono questi i due fattori principali della crisi che l’Europa si trova oggi ad affrontare.

Esiste una stretta analogia tra la crisi dell’euro e la crisi bancaria internazionale del 1982. Allora il Fondo monetario internazionale e le autorità bancarie internazionali salvarono il sistema bancario mondiale prestando il denaro necessario ai paesi più pesantemente indebitati per consentire loro di evitare il fallimento, ma così facendo li spinsero in una recessione prolungata. L’America latina si ritrovò in una stagnazione trascinatasi per un intero decennio.

Oggi è la Germania a svolgere un ruolo simile a quello del Fondo monetario internazionale nel 1982. Il contesto è diverso, ma le conseguenze sono identiche. I creditori stanno effettivamente spostando tutto il fardello della rettifica della compensazione sui paesi debitori, evitando le proprie responsabilità per gli scompensi creati. È interessante notare come i termini “centro” e “periferia” si siano insinuati nell’uso corrente quasi di soppiatto, poiché appare chiaramente improprio descrivere Italia e Spagna come paesi periferici. In realtà, tuttavia, l’introduzione dell’euro ha relegato alcuni stati membri nella posizione di paesi meno sviluppati senza che le autorità europee, né gli stati membri stessi, se ne accorgessero. In retrospettiva, la crisi dell’euro trae origine proprio da questo.

Come negli anni Ottanta, anche oggi tutta la colpa e gli oneri sono stati addossati alla “periferia”, senza mai valutare adeguatamente le responsabilità del “centro”. In questo contesto, la parola tedesca Schuld è assai rivelatrice: essa significa al contempo debito e colpa. L’opinione pubblica tedesca accusa i paesi più pesantemente indebitati di essere causa dei loro stessi mali. Ma la Germania non può sottrarsi alla sua parte di responsabilità. Sono convinto difatti che la responsabilità, o Schuld, del “centro” sia ancor più grave oggi di quella che fu nella crisi bancaria del 1982. Nel creare l’euro, il “centro” è stato guidato dalle stesse false dottrine economiche che hanno prodotto la crisi finanziaria del 2007-8. Il Trattato di Maastricht dava per scontato che solo il settore pubblico fosse in grado di produrre deficit cronici, presumendo invece che i mercati finanziari sarebbero sempre stati in grado di correggere i propri eccessi. Sebbene questi presupposti dogmatici sul funzionamento dei mercati siano stati clamorosamente smentiti dalla crisi finanziaria del 2007-8, le autorità europee continuano a rispettarli. Per esempio, hanno trattato la crisi dell’euro come se fosse un semplice problema fiscale o di bilancio. Ma solo la Grecia rappresenta una vera crisi fiscale. Il resto dell’Europa è travagliato invece da difficoltà bancarie e da una forbice nella competitività che ha innescato a sua volta scompensi nella bilancia dei pagamenti. Le autorità non hanno capito la complessità della crisi, figuriamoci una possibile soluzione. Pertanto hanno cercato di prendere tempo.

E di solito l’espediente funziona. Il panico finanziario si placa e le autorità raccolgono i profitti del loro intervento. Ma stavolta no, perché i problemi finanziari sono andati di pari passo con un processo di sfaldamento politico. Quando l’Unione europea era in fase di creazione, i leader politici prendevano l’iniziativa di nuovi passi in avanti; ma allo scoppio della crisi finanziaria tutti i leader si sono aggrappati allo status quo, rendendosi conto che i cittadini ormai stentano a credere in una maggiore integrazione. In situazione di difficoltà, ciascun paese si è preoccupato di proteggere i propri esclusivi interessi nazionali. Era previsto che qualsiasi cambiamento nelle regole avrebbe trasferito il potere dalle autorità europee basate a Bruxelles per riconsegnarlo alle autorità nazionali. Pertanto, le parole dei trattati di Maastricht e di Lisbona sono state considerate vincolanti, come per esempio l’Articolo 123, che proibisce alla Banca centrale europea di prestare soldi ai singoli governi. Questo ha spinto molti di coloro che considerano lo status quo insostenibile o intollerabile ad adottare atteggiamenti anti europei. È stata questa la dinamica politica che ha reso la disintegrazione dell’Unione europea un argomento altrettanto convincente di quanto fosse stato il processo di creazione.

Angela Merkel ha interpretato correttamente lo stato d’animo del suo paese insistendo che ciascun governo deve farsi carico del proprio sistema bancario. In realtà la Germania ha mutato posizione dopo la riunificazione. Proprio come allora era stata disposta a fare notevoli sacrifici in nome della riunificazione, una volta realizzata questa operazione la Germania si è concentrata nel mantenere il pareggio di bilancio. Lungi dal contribuire un po’ più degli altri, la Germania si è guardata bene dal diventare il portafoglio del resto d’Europa. Anziché ribadire che la Germania non aveva altra politica tranne quella europea, la stampa tedesca ha cominciato ad accusare l’Unione europea di essere “l’unione dei salvataggi”, con il rischio di dissanguare il paese. Ad aggravare la situazione, la Bundesbank è rimasta aggrappata a una dottrina monetaria superata, che tuttavia è profondamente radicata nella storia tedesca. In seguito alla Prima guerra mondiale, la Germania patì un’esperienza traumatica a causa dell’inflazione, e pertanto ancora oggi vede nell’inflazione esclusivamente una minaccia alla stabilità, e ignora la deflazione, che in questo momento rappresenta invece il vero spauracchio per l’Europa.

Quando la riunificazione fece esplodere il debito tedesco, la Germania seppe introdurre riforme radicali del mercato del lavoro e numerose riforme strutturali, e adottò un emendamento costituzionale che impone al bilancio federale di raggiungere il pareggio entro il 2017. Le misure varate hanno funzionato a meraviglia. La Germania ha goduto di una ripresa economica trascinata dall’esportazione, nonché aiutata dal mercato immobiliare e dai consumi in risalita nel resto d’Europa. Oggi la Germania prescrive a tutti austerità fiscale e riforme strutturali come unico rimedio per la crisi dell’euro. Perché mai non dovrebbero funzionare per l’Europa di oggi, se hanno funzionato per la Germania di ieri? Per una buona ragione: le condizioni economiche sono molto diverse. Il sistema finanziario globale sta riducendo la sua leva eccessiva e le esportazioni rallentano in tutto il mondo. Il rigore fiscale in Europa è esacerbato da una tendenza globale e sta spingendo l’Unione nella trappola deflazionistica del debito. Quando troppi governi pesantemente indebitati si sforzano di ridurre il deficit di bilancio, la loro economia rallenta e si contrae, facendo paradossalmente lievitare il deficit come percentuale del PIL. Le autorità monetarie mondiali riconoscono questo pericolo. Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, e persino Masaaki Shirakawa, governatore della Banca del Giappone, hanno tutti adottato misure monetarie non convenzionali per evitare la trappola deflazionistica del debito.

L’opinione pubblica tedesca trova molto difficile capire che la Germania sostiene una politica sbagliata in Europa. L’economia tedesca non è in crisi, anzi, finora la Germania ha approfittato della crisi dell’euro, che ha tenuto basso il tasso di cambio e ha facilitato le esportazioni. Di recente la Germania ha goduto di tassi di interesse bassissimi e i capitali fuggiti dai paesi debitori si sono riversati in Germania, proprio nel momento in cui la “periferia” si è vista costretta a pagare grossi premi di rischio per accedere ai finanziamenti.

Non siamo certo davanti a qualche losco complotto, bensì alla conseguenza imprevista di un susseguirsi di eventi non pianificati. I politici tedeschi, tuttavia, hanno cominciato a fiutare i vantaggi che la situazione ha conferito alla Germania e questo sta influenzando le loro scelte economiche. La Germania si ritrova oggi in una posizione dove il suo atteggiamento è determinante per la politica europea. Perciò la responsabilità primaria per una politica di austerità che spinge l’Europa in depressione è da addossare alla Germania. Con il passar del tempo, vi sono sempre più ragioni per biasimare la Germania per le politiche che sta imponendo all’Europa, mentre i cittadini tedeschi si sentono ingiustamente incolpati. Siamo davanti a una tragedia di proporzioni storiche. Come nelle antiche tragedie greche, gravi malintesi da una parte e una vera e propria mancanza di comprensione dall’altra stanno portando a conseguenze involontarie ma fatali.

Se la Germania fosse stata disposta, all’inizio della crisi greca, a offrire il credito che poi è stato offerto in un momento successivo, la Grecia avrebbe potuto facilmente salvarsi. Ma l’Europa ha fatto solo il minimo indispensabile per evitare il collasso del sistema finanziario e questo non è bastato a invertire la rotta. Lo stesso è accaduto quando la crisi si è allargata agli altri paesi. In ciascuna fase, la crisi avrebbe potuto essere fermata ed evitata se la Germania fosse stata in grado di guardare oltre la curva e disposta a fare qualcosa in più del minimo indispensabile.

All’inizio della crisi, la rottura dell’euro era impensabile. Le attività e le passività denominate nella moneta comune erano talmente compenetrate che una rottura avrebbe portato a un collasso incontrollato. Ma con l’avanzare della crisi il sistema finanziario si è progressivamente riorientato sulla compagine nazionale. I regolatori hanno favorito il prestito interno, le banche hanno scaricato gli asset fuori dai confini nazionali e i manager del rischio si sono sforzati di bilanciare attività e passività all’interno dei confini nazionali, anziché nell’eurozona nel suo complesso. Se la tendenza continua, la disgregazione dell’euro sarà possibile senza un collasso totale, ma questo lascerà le banche centrali dei paesi creditori esposti a un gran numero di richieste di pagamento difficili da riscuotere dalle banche centrali dei paesi debitori.

Ciò è dovuto a un problema arcano insito nel sistema di esecuzione dei pagamenti chiamato TARGET 2. A differenza del sistema della Federal Reserve, che prevede un saldo annuale, il TARGET 2 accumula gli squilibri tra le banche dell’eurozona.

Non ci sono stati problemi fintanto che il sistema interbancario ha funzionato, perché le banche regolavano gli squilibri tra di loro attraverso il mercato interbancario. Ma il mercato interbancario non funziona più a dovere dal 2007 e dall’estate del 2011 si è vista una crescente fuga di capitali dai paesi più deboli. Quando un cliente greco o spagnolo fa un bonifico dal suo conto in una banca greca o spagnola verso una banca in Olanda, la Banca centrale olandese si ritrova un credito TARGET 2, corrispondente a una richiesta di pagamento dalla Banca centrale greca o spagnola. Queste richieste di riscossione sono cresciute in maniera esponenziale. Entro la fine di luglio di quest’anno la Bundesbank ha registrato richieste equivalenti a circa 727 miliardi di euro da riscuotere dalle banche centrali dei paesi periferici.

La Bundesbank si è resa conto del pericolo potenziale e il pubblico tedesco è stato allertato dall’appello accorato, ancorché incauto, lanciato da Hans-Werner Sinn, un economista tedesco. La Bundesbank è sempre più determinata a limitare le perdite che rischia di sostenere nel caso di rottura dell’euro. E ciò significa spianare il terreno proprio a questa eventualità, perché non appena una banca centrale si premunisce contro la rottura dell’euro, tutte le altre sono costrette a fare altrettanto.

E perciò la crisi si aggrava. Le tensioni sui mercati finanziari hanno toccato nuove vette, come provano i rendimenti irrisori o non esistenti sui titoli di stato tedeschi. Ancor più significativo è il fatto che il rendimento su un titolo di stato inglese a 10 anni non è mai stato così basso negli ultimi 300 anni, mentre gli interessi sui titoli di stato spagnoli sono schizzati verso l’alto.

L’economia reale dell’eurozona è in declino, mentre la Germania se la passa relativamente bene. Ciò significa che il divario si va allargando. Le dinamiche politiche e sociali spingono anch’esse verso la disintegrazione. L’opinione pubblica, così come si è espressa nei recenti risultati elettorali, si oppone sempre di più alle misure di austerità e la tendenza non si placherà finché la politica non avrà invertito la rotta. Qualcosa, a questo punto, deve pur cedere.

E adesso a che punto siamo?

Il summit di giugno è parso offrire l’ultima opportunità di fare marcia indietro in seno all’esistente struttura legale. Nel prepararlo, le autorità europee, sotto la guida di Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo – che raccoglie tutti i capi di stato o di governo degli stati membri dell’Unione – hanno capito che la strada imboccata porta diritta alla catastrofe e hanno deciso di esplorare vie alternative. Hanno inoltre compreso che i problemi delle banche e del debito sovrano sono intimamente collegati, come due gemelli siamesi, e non possono essere risolti separatamente. Si sono impegnati per avviare una revisione comprensiva delle normative, ma ovviamente hanno dovuto consultare la Germania a ogni passo. Ne hanno ricevuto l’appoggio sullo sviluppo di piani per un’unione bancaria, perché la Germania è comprensibilmente preoccupata dei rischi creati dalla fuga di capitali dai paesi “periferici”. Pertanto quell’aspetto del programma è stato sviluppato molto più dettagliatamente rispetto al problema del debito sovrano, malgrado l’esistenza del nesso tra le due tematiche.

Il costo di rifinanziare il debito nazionale rivestiva un’importanza cruciale per l’Italia. All’avvio del summit di giugno il primo ministro Monti ha dichiarato che l’Italia non avrebbe firmato nulla se prima non fosse stato affrontato quel problema. Per evitare il fiasco, la cancelliera Merkel ha promesso che la Germania avrebbe accolto qualsiasi proposta purché nella cornice della normativa esistente. E il summit si è salvato. È stato deciso di finalizzare i piani di un’unione bancaria, consentendo la creazione di un fondo di salvataggio europeo, l’ESM e l’EFSF, per ricapitalizzare le banche direttamente, e al termine di una sessione protrattasi per tutta la notte, i lavori sono stati sospesi. Mario Monti ha dichiarato vittoria. Ma nei negoziati successivi si è capito che nessuna proposta per ridurre lo spread può essere inserita nell’attuale struttura normativa. Il piano di usare l’ESM per ricapitalizzare le banche spagnole è stato inoltre indebolito al di là di ogni previsione quando la cancelliera Merkel ha dovuto assicurare il Bundestag che la Spagna sarebbe comunque rimasta responsabile di qualsiasi perdita. I mercati finanziari hanno reagito facendo risalire lo spread sulle obbligazioni spagnole fino a cifre record, causando anche un’impennata degli interessi sui titoli italiani. La crisi è divampata in pieno. Con la Germania immobilizzata dalla corte costituzionale, le cui decisioni sulla legalità dell’ESM saranno annunciate il 12 settembre, alla Banca centrale europea non è rimasto che gettarsi nella mischia e tappare le falle.

Mario Draghi, l’attuale presidente della BCE, ha annunciato che la BCE farà il possibile per tutelare l’euro “nell’ambito delle competenze della BCE”. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, da quel momento ha sempre fatto sentire la sua voce nel ribadire le restrizioni legali cui è sottoposta la BCE, ma il rappresentante del governo tedesco nel consiglio della BCE, Joerg Asmussen, si è fatto avanti a sostegno di interventi illimitati proprio perché la sopravvivenza stessa dell’euro è in pericolo. Questa è stata una svolta. La cancelliera Merkel sosteneva Mario Draghi, lasciando isolato il presidente della Bundesbank nel Consiglio della Bce. Il presidente Draghi ha sfruttato al meglio la sua opportunità. I mercati finanziari si sono rincuorati e hanno fatto segnare un recupero. Sfortunatamente, persino un intervento illimitato potrebbe non bastare a impedire che la divisione dell’area euro fra Paesi debitori e Paesi creditori diventi permanente. Essa non eliminerà lo spread, lo ridurrà solamente e la condizionalità imposta ai Paesi debitori dall’Efsf probabilmente li spingerà in una trappola deflazionistica. Di conseguenza, essi non saranno in grado di riguadagnare competitività fino a che non abbandoneranno il tentativo di ridurre il debito con l’austerità.

La linea di minor resistenza non porta all’immediata rottura dell’euro, bensì all’estensione indefinita della crisi. Una rottura disordinata sarebbe catastrofica per l’eurozona, e indirettamente per il mondo intero. La Germania, che se l’è cavata molto meglio degli altri paesi dell’eurozona, rischia un tonfo ancor peggiore, e pertanto continuerà a fare il minimo indispensabile per impedire la rottura dell’euro.

L’Unione europea che emergerà da questo processo si rivelerà diametralmente opposta all’ideale di unione europea quale società aperta. Sarà invece un sistema gerarchico costruito sulle obbligazioni del debito, anziché un’associazione volontaria di stati membri pari tra loro. Ci saranno due categorie di stati, creditori e debitori, e i creditori avranno in mano le leve del potere. In quanto paese creditore più forte, la Germania sarà in posizione dominante rispetto all’Europa. La differenziazione di classe diventerà permanente, poiché i paesi debitori saranno costretti a pagare cospicui premi di rischio per avere accesso ai finanziamenti e sarà sempre più difficile, se non impossibile, rimettersi al passo con i paesi creditori. Il divario nell’andamento economico, anziché restringersi, si andrà allargando. Tutte le risorse, sia umane che finanziarie, verranno attratte dal centro e la periferia verserà in condizioni recessive permanenti. La Germania riuscirà persino a risolvere in parte i suoi problemi demografici grazie all’arrivo di lavoratori diplomati e laureati dalla penisola iberica e dall’Italia, al posto degli immigrati scarsamente qualificati provenienti da Turchia e Ucraina. Ma la periferia coverà un forte senso di risentimento.

Il potere imperiale porta con sé grandi benefici, ma solo se si prodiga per risollevare coloro che vivono sotto la sua egida. Gli Stati Uniti emersero in posizione egemone nel mondo libero al termine della Seconda guerra mondiale. Se il sistema di Bretton Woods conferì all’America il primo posto tra nazioni pari tra loro, gli Stati Uniti si rivelarono una potenza solidale, che seppe guadagnarsi l’eterna gratitudine dell’Europa dando avvio al piano Marshall. È questa l’occasione storica che la Germania di oggi sta perdendo, inchiodando i paesi pesantemente indebitati alla loro Schuld.

Vale la pena ricordare che le durissime riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo la Prima guerra mondiale furono tra le cause che favorirono la nascita del Nazionalsocialismo. E la Germania beneficiò di un abbattimento dei suoi debiti in ben tre distinte occasioni: con il piano Dawes nel 1924, con il piano Young nel 1929 – troppo tardi per impedire l’ascesa di Hitler – e con l’Accordo sul debito di Londra nel 1953.

Oggi la Germania non ha nessuna ambizione imperiale, è chiaro. Paradossalmente, il desiderio di evitare in tutti i modi di estendere il proprio dominio sull’Europa spiega perché la Germania non sia riuscita a cogliere al volo l’occasione di agire come paese egemone solidale. Le misure prese dalla Bce il 6 settembre costituiscono il minimo necessario per preservare l’euro, ma ci avvicineranno anche a un’Europa a due livelli. I Paesi debitori dovranno sottoporsi alla vigilanza europea, mentre i Paesi creditori non dovranno; e la divergenza nella performance delle economie ne sarà accentuata. La prospettiva di una recessione prolungata e di una divisione permanente in paesi creditori e debitori è talmente penosa da risultare intollerabile. Ma quali sono le alternative?

Come uscire dalla crisi.

La Germania deve decidere se diventare un egemone solidale o lasciare l’euro. La prima alternativa sarebbe nettamente la migliore.

Ma questo ruolo che cosa comporterebbe per la Germania? In poche parole, richiederebbe di perseguire due nuovi obiettivi che sono però in contrasto con la politica attuale:

1) stabilire condizioni più o meno neutrali tra paesi debitori e paesi creditori, il che significa che i debitori saranno in grado di rifinanziare il debito del proprio governo in termini più o meno uguali.

2) Puntare a una crescita nominale non inferiore al 5 percento in modo che l’Europa possa liberarsi del suo debito eccessivo grazie alla crescita. Questo richiederebbe un livello d’inflazione temporaneamente più alto del 2 per cento che è oggi l’obiettivo della Bce.

Entrambi questi obiettivi sono raggiungibili, ma solo dopo un notevole progresso verso l’unione politica. Le decisioni politiche prese nel prossimo anno determineranno il futuro dell’Unione europea. Le misure annunciare dalla Bce il 6 settembre potrebbero preludere alla creazione di un’Europa a due livelli; in alternativa, potrebbero portare a un’unione politica più integrata, nella quale la Germania accetta gli obblighi che la sua posizione di leadership comporta.

Una zona euro a due livelli finirebbe per distruggere l’Unione europea, perché i Paesi privati dei loro diritti presto o tardi si ritirerebbero. Ma se un’unione politica non è raggiungibile, la seconda migliore opzione sarebbe una separazione ordinata tra Paesi debitori e Paesi creditori. Se la convivenza forzata non fa altro che spingere l’unione verso una recessione duratura, è meglio lasciarsi di comune accordo.

In una rottura amichevole dell’euro è molto importante stabilire qual è il partner che lascia, perché i debiti accumulati sono nella valuta comune. Se è il paese debitore a lasciare, il suo debito aumenta in valore, in linea con la svalutazione della moneta nazionale. Il paese in questione potrebbe ritrovare competitività, ma sarebbe costretto a dichiarare fallimento sul suo debito e questo produrrebbe disastri finanziari incalcolabili. Il mercato comune e l’Unione europea potrebbero gestire il default di un piccolo paese come la Grecia, specie perché la situazione è ben nota da tempo, ma non hanno nessuna possibilità di sopravvivere al distacco di un paese più grande, come la Spagna o l’Italia. E persino il fallimento della Grecia potrebbe rivelarsi fatale, incoraggiando la fuga di capitali e le manipolazioni speculative dei mercati finanziari contro altri paesi, e di conseguenza l’euro potrebbe ben presto sbriciolarsi come accadde con il sistema di cambio dello SME nel 1992.

In contrasto, se fosse la Germania a lasciare, abbandonando la moneta comune nelle mani dei paesi debitori, l’euro crollerebbe e il debito accumulato si svaluterebbe in linea con la moneta. In pratica, tutti i problemi finora considerati intrattabili sparirebbero. I paesi debitori ritroverebbero competitività e il loro debito calerebbe in termini reali, e con la Banca centrale europea sotto il loro controllo, svanirebbe anche il rischio di default. Senza la Germania, l’area euro non avrebbe nessuna difficoltà a invertire la rotta, manovra oggi ostacolata dalla cancelliera Merkel.

Per entrare nel dettaglio, l’area euro così ridotta potrebbe stabilire la propria autorità fiscale e avviare un proprio Fondo per la riduzione del debito secondo le direttive descritte di seguito. Anzi, una zona euro così ristretta potrebbe spingersi oltre, e convertire l’intero debito dei paesi membri in eurobond, senza limitarsi alla quota eccedente il 60 percento del PIL. Quando i tassi di cambio dell’euro ristretto si saranno stabilizzati, lo spread sugli eurobond scenderà a livelli analoghi a quello di altre valute a libera fluttuazione, come la sterlina britannica e lo yen giapponese. Tutto questo può sembrare inverosimile, ma solo perché gli equivoci alla radice della crisi hanno guadagnato tanta credibilità negli ultimi tempi. La zona euro, anche senza la Germania, per quanto sorprendente possa sembrare, otterrà un miglior piazzamento secondo gli indicatori standard della solvenza fiscale in confronto a Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti.

Deficit interno lordo come percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania 5,3; UK 8,7; Giappone 10,1; USA 9,6; zona euro esclusa la Germania 4,1.

Debito interno lordo come percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania 90; UK 98; Giappone 205; USA 103; zona euro compresa la Germania 88.

Conto corrente come percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania -1,6; UK -2,4; Giappone +1,5; USA -3,5; zona euro compresa la Germania +0,5.

P.S. Se si escludono Finlandia, Olanda e Slovacchia assieme alla Germania non si rilevano differenze significative in nessuno dei confronti sopra citati.

L’eventuale uscita della Germania causerebbe forti scompensi ma sarebbe un evento unico e gestibile, anziché dover continuare a far fronte a un effetto domino caotico e estenuante, che vedrebbe un paese debitore dopo l’altro costretto a uscire dall’euro sotto la spinta della speculazione e della fuga dei capitali. Non ci sarebbero cause legali promosse da possessori inferociti di obbligazioni. Persino i problemi immobiliari diventerebbero molto più gestibili. Con un significativo differenziale nei tassi di cambio, i tedeschi si precipiterebbero ad acquistare proprietà immobiliari in Irlanda e in Spagna. Dopo gli squilibri iniziali, la zona euro sarebbe in grado di abbandonare la recessione per ricominciare a crescere.

Il mercato comune riuscirebbe a sopravvivere, ma le posizioni relative della Germania e degli altri paesi creditori che avranno lasciato l’euro passerebbero dal lato vincente al perdente. Questi paesi incontreranno una feroce concorrenza sui loro stessi mercati interni da parte della zona euro, e pur non perdendo i loro mercati di esportazione, questi risulteranno tuttavia meno redditizi. Ci saranno anche perdite finanziarie sul possesso di asset denominati in euro, come pure sulle richieste di riscossione all’interno del sistema di esecuzione dei pagamenti TARGET 2.

L’ammontare delle perdite dipenderà dall’entità della svalutazione dell’euro.

La Germania potrebbe addirittura scegliere di restare membro del sistema TARGET 2 per consentire ai saldi di ridursi gradualmente man mano che il sistema di prestito interbancario ritornerà operativo, anziché accettare perdite immediate. Questo perché la Germania avrebbe un interesse vitale nel contenere la svalutazione entro determinati limiti. Certo, ci saranno molte difficoltà di transizione, ma il risultato eventuale sarà l’adempimento del sogno di Keynes, quello di un sistema monetario in cui creditori e debitori hanno pari interessi nel mantenere la stabilità.

Dopo lo shock iniziale, l’Europa riuscirà a sfuggire alla trappola deflazionistica del debito nella quale si trova attualmente immobilizzata. L’economia globale in genere e l’Europa in particolare si riprenderebbero ben presto e la Germania, dopo essersi adattata alle perdite subite, potrebbe ritrovare la sua posizione di grande produttore ed esportatore di manufatti ad alto valore aggiunto. Il miglioramento complessivo della situazione sarebbe vantaggioso anche per la Germania.

Tuttavia, le perdite finanziarie immediate e il rovesciamento della sua posizione relativa all’interno del mercato comune sarebbero talmente vaste che è poco realistico aspettarsi che la Germania lasci l’euro di sua spontanea volontà. La spinta a estrometterla dovrà venire dall’esterno.

In contrasto, la situazione sarebbe ancor più favorevole alla Germania se decidesse di comportarsi come un paese egemone solidale nei confronti dei suoi partner, e all’Europa verrebbe risparmiato lo scombussolamento creato dal ritiro della Germania dall’euro. Ma la strada per raggiungere il doppio obiettivo di un terreno di gioco uguale per tutti e una politica efficace di crescita appare assai più tortuosa. Proviamo a scendere nei particolari.

Il primo passo sarebbe quello di stabilire un’Autorità fiscale europea, autorizzata a prendere importanti decisioni economiche per conto degli stati membri. È questo l’elemento finora mancante, ma necessario per trasformare l’euro in una vera valuta con un rifinanziatore affidabile in caso di difficoltà. L’Autorità fiscale, in quanto partner della banca centrale, riuscirebbe laddove la BCE non arriva con le sue sole forze. Il mandato della BCE è tutelare la stabilità della moneta e le è stato espressamente proibito di finanziare i deficit dei singoli stati. Tuttavia non vi è nulla che proibisca agli stati membri di stabilire un’autorità fiscale. Sono i timori tedeschi di diventare i salvatori forzati dell’Europa a intralciare il cammino. Viste le dimensioni dei problemi europei, le paure della Germania sono comprensibili, ma non giustificano l’imposizione di una divisione permanente dell’area euro tra paesi creditori e debitori. Gli interessi dei creditori possono e devono essere protetti, garantendo loro il potere di veto su decisioni che minacciano di penalizzarli eccessivamente. Ciò è già riconosciuto nel sistema di voto dell’ESM, che richiede una maggioranza dell’80 percento per il varo di qualsiasi misura. Questa normativa dovrebbe essere incorporata nell’Autorità fiscale europea. Quando gli stati membri partecipano in maniera proporzionale, per esempio contribuendo una certa percentuale della loro IVA, sarebbe sufficiente raggiungere la semplice maggioranza.

L’Autorità fiscale europea si incaricherebbe immediatamente dell’EFSF e dell’ESM. Il grande vantaggio di questa Autorità sta proprio nel poter prendere decisioni giorno per giorno, come la BCE. Un altro vantaggio sarebbe quello di ristabilire la corretta distinzione tra responsabilità fiscali e monetarie. Per esempio, l’Autorità fiscale dovrebbe accollarsi il rischio di insolvenza su tutte le obbligazioni governative acquistate tramite la BCE. A quel punto, non ci sarebbe più motivo per sollevare obiezioni all’operatività illimitata della BCE sul libero mercato. (La BCE potrebbe decidere di fare questo passo autonomamente il 6 settembre, ma solo scavalcando la pressante opposizione della Bundesbank). Ancor più importante è il fatto che per l’Autorità sarebbe molto agevole favorire la partecipazione del settore pubblico nella ristrutturazione del debito greco, rispetto a quanto possa fare la BCE. L’Autorità potrebbe esprimere la volontà di convertire tutte le obbligazioni greche del settore pubblico in titoli di stato a zero coupon che cominceranno a maturare un rendimento da qui a dieci anni, a condizione che la Grecia raggiunga un surplus primario non inferiore al 2 percento. Un simile intervento rappresenterebbe una luce in fondo al tunnel che potrebbe aiutare la Grecia persino in questo stadio così avanzato.

Il secondo passo sarebbe di ricorrere all’Autorità fiscale per impostare condizioni di maggior parità di quanto non possa offrire la BCE da sola il 6 settembre. Ho proposto di mia iniziativa che l’Autorità dovrebbe introdurre un Fondo di riduzione del debito – una versione modificata del Patto europeo per la redenzione del debito proposto dalla stessa commissione di consiglieri economici della cancelliera Merkel e approvata sia dai Socialdemocratici che dai Verdi in Germania. Il Fondo per la riduzione del debito potrebbe accollarsi i debiti nazionali superiori al 60 percento del PIL a condizione che i paesi in difficoltà diano avvio alle riforme strutturali approvate dall’Autorità fiscale. Il debito non sarebbe cancellato, ma trattenuto dal Fondo. Se il Paese debitore non rispetta le condizioni concordate, il Fondo potrebbe imporre le penalità più appropriate. Secondo le regole del Fiscal Compact, il paese debitore si impegna a ridurre il suo debito eccessivo del 5 percento all’anno, dopo una moratoria di cinque anni. È per questo che l’Europa deve puntare a una crescita nominale non inferiore al 5 percento.

Il Fondo del debito potrebbe finanziare il suo acquisto di obbligazioni tramite la Bce oppure emettendo appositi Titoli per la riduzione del debito -un’obbligazione congiunta dei paesi membri – per poi trasmettere ai paesi in difficoltà i benefici di finanziamenti a tassi vantaggiosi. In entrambi i casi il costo per il Paese debitore sarebbe ridotto all’1% o anche meno. A questi titoli verrebbe assegnato un indice di rischio zero dalle autorità e trattati come collaterale di altissima qualità per le operazioni repo presso la BCE. Il sistema bancario ha urgente bisogno di asset liquidi a rischio zero. Le banche trattenevano oltre 700 miliardi di euro di surplus di liquidità presso la BCE, guadagnando un tasso di interesse dello 0,25 percento nel momento in cui ho suggerito questo schema. Da allora, la BCE ha ridotto a zero il tasso di interesse pagato su questi depositi. Questo assicura un mercato ampio e disponibile per i titoli a meno dell’1 percento. In contrasto, il piano che verrà annunciato dalla BCE il 6 settembre con molta probabilità non riuscirà a spingere il costo del finanziamento molto al di sotto il 3 percento.

Sfortunatamente questo schema è stato respinto su due piedi dai tedeschi, perché non conforme ai requisiti della corte costituzionale della Germania. A mio avviso le obiezioni sollevate sono infondate, perché la corte costituzionale respinge gli impegni che non hanno precisi limiti di tempo e di portata, mentre i Titoli per la riduzione del debito sarebbero ben circoscritti sotto entrambi questi aspetti. Se volesse comportarsi da paese egemone solidale, la Germania non avrebbe difficoltà ad approvare questo piano, che potrebbe essere introdotto senza alcuna modifica dei trattati. I Titoli per la riduzione del debito potrebbero rappresentare lo strumento capace di fare da ponte all’introduzione degli eurobond, e questo renderebbe le condizioni operative uguali per i paesi membri dell’Unione, una volta per tutte.

Rimane il secondo obiettivo: una politica di crescita efficace che punti a una crescita nominale non inferiore al 5 percento. Ciò è necessario per consentire ai paesi più pesantemente indebitati di rispettare le condizioni del Fiscal Compact senza cadere nella trappola deflazionistica del debito. Non sarà possibile raggiungere questo obiettivo fintanto che la Germania resterà fedele all’interpretazione asimmetrica della Bundesbank in materia di stabilità monetaria. La Germania deve accettare un’inflazione superiore al 2 percento per un periodo limitato, se vuole restare nell’euro senza distruggere l’Unione europea.

Come fare?

Che cosa si può fare per convincere la Germania a restare nell’euro senza distruggere l’Unione europea, oppure ad abbandonare l’euro, in modo che i paesi debitori risolvano da soli i loro problemi? La pressione esterna può riuscirci. Con François Hollande a capo del governo francese, la Francia si è fatta portavoce dell’Europa per invocare una politica alternativa. Formando un fronte comune con Spagna e Italia, la Francia potrebbe presentare un programma credibile sotto il profilo economico, e interessante sotto quello politico, in grado di salvare il mercato comune e rilanciare l’Unione come quell’ideale europeo che tanta presa aveva avuto in passato sull’immaginazione collettiva. Il fronte comune è in grado di mettere la Germania davanti alla scelta finale: guidare l’Europa o lasciare l’Europa. L’obiettivo sarebbe ovviamente non quello di escludere la Germania, bensì di convincerla a modificare radicalmente le sue posizioni.

Purtroppo la Francia non è in una posizione forte abbastanza per fare fronte comune con Italia e Spagna davanti all’opposizione determinata della Germania. La cancelliera Merkel non è solo un formidabile leader, ma anche un politico abilissimo che sa come mantenere divisi i suoi avversari. La Francia è particolarmente vulnerabile perché ha fatto ancor meno di Italia e Spagna in materia di austerità fiscale e di riforme strutturali. Lo spread piuttosto basso di cui godono attualmente le obbligazioni francesi è dovuto quasi interamente alla stretta associazione con la Germania. Le banche centrali asiatiche hanno acquistato obbligazioni francesi, specie da quando quelle tedesche hanno cominciato a vendere a rendimento negativo. Ma se la Francia dovesse allearsi troppo strettamente con Italia e Spagna, rischia di essere giudicata secondo i medesimi parametri e lo spread sulle sue obbligazioni potrebbe risalire fino a toccare livelli simili a quelli italiani e spagnoli.

Tutto sommato, i vantaggi di ritrovarsi nella stessa barca con la Germania si riveleranno illusori non appena l’Europa sarà colpita da una recessione prolungata. Con il progressivo allargamento della spaccatura tra Francia e Germania, i mercati finanziari non perderanno tempo a riclassificare la Francia assieme a Spagna e Italia, che resti fedele alla Germania oppure no. Pertanto la vera decisione della Francia sarà, da un lato, se rompere con la Germania e salvare l’Europa rilanciando la crescita, o se, dall’altro, far finta di essere una valuta forte per un breve lasso di tempo, prima di finire abbandonata al suo destino. Prendere le parti dei paesi debitori e sfidare la politica di austerità consentirebbe alla Francia di riappropriarsi della posizione di leadership che aveva conosciuto durante la presidenza di Mitterrand. Sarebbe questa una posizione molto più dignitosa che fare da passeggero in una macchina guidata dalla Germania. Tuttavia, la Francia dovrà dar prova di molto coraggio per staccarsi dalla Germania nel breve periodo.

L’Italia e la Spagna sono travagliate da altre debolezze. L’Italia si è dimostrata incapace di dotarsi di un governo efficace. Il suo attuale indebitamento risale agli anni anteriori all’euro; come paese membro ha goduto addirittura di migliore performance di bilancio della Germania – persino durante gli anni di Berlusconi. Ma l’Italia sembra aver bisogno di un’autorità esterna che le imponga una più attenta gestione dell’economia, e questo spiega come mai gli italiani sono sempre stati talmente entusiasti dell’Unione europea. La Spagna gode di ottima salute politica, ma il governo attuale si è dimostrato troppo debole e conciliante con la Germania, andando contro i suoi stessi interessi. Per di più, entrambi questi paesi potranno assicurarsi una certa riduzione dello spread come conseguenza dell’acquisto delle loro obbligazioni da parte della BCE, ed essa sarà abbastanza significativa da rimuovere l’incentivo a incoraggiare a ribellarsi allo strapotere della Germania.

La campagna per cambiare gli atteggiamenti tedeschi pertanto dovrà prendere una forma molto diversa dai negoziati intergovernativi che in questo momento stanno valutando gli strumenti da adottare. La società civile europea, la comunità imprenditoriale, il settore economico e l’opinione pubblica generale devono mobilitarsi e impegnarsi. Oggi molti paesi dell’eurozona vivono in condizioni di sofferenza, confusione e rabbia, che non di rado sfociano in espressioni di xenofobia, in atteggiamenti anti europei e in movimenti politici estremisti. Occorre invece stimolare i sentimenti pro europei, che in questo momento sono sopiti e non hanno occasione di manifestarsi, se vogliamo salvare l’Unione europea. Un movimento di questo genere incontrerebbe reazioni positive in Germania, dove la stragrande maggioranza è ancora pro europea, ma condizionata da false dottrine monetarie e fiscali.

Oggi l’economia tedesca non suscita preoccupazioni e anche la situazione politica è relativamente stabile: la crisi altro non è che un rumore confuso che giunge dall’estero. Solo un intervento molto forte riuscirebbe a scuotere la Germania dalle sue idee preconcette e costringerla a guardare in faccia le conseguenze della sua linea politica. E solo un movimento popolare che presenti una valida alternativa al predominio tedesco riuscirebbe in questo intento. In breve, la situazione attuale è come un incubo da cui si può sfuggire soltanto svegliando la Germania e rendendola consapevole degli equivoci e delle incomprensioni che stanno guidando le sue scelte politiche. Ci auguriamo che la Germania, davanti alla scelta, opterà di esercitare una leadership solidale. In caso contrario, dovrà fare i conti con le inevitabili perdite che le deriveranno

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