Sono sempre stato un
fervido sostenitore dell’Unione europea quale incarnazione ideale di una
società aperta, associazione volontaria di stati membri paritari che hanno
rinunciato a parte della loro sovranità per il bene comune. Ma oggi la crisi
dell’euro sta trasformando l’Unione europea in qualcosa di profondamente
diverso. Gli stati membri sono divisi in due categorie – creditori e debitori –
e i creditori sono al comando, con la Germania in testa. In base alla normativa
attuale, i paesi debitori pagano un cospicuo premio di rischio per finanziare i
propri deficit di bilancio e questo si riflette nel costo dei finanziamenti in
generale. Una situazione, questa, che ha trascinato in recessione i paesi
debitori esponendoli a un considerevole svantaggio competitivo, che minaccia di
diventare permanente. È questo il risultato non di un piano deliberato, bensì
di una serie di errori in politica economica contestuali all’introduzione
dell’euro. Si sapeva benissimo che l’euro era una moneta incompleta, dotata sì
di banca centrale ma non di un ministero del tesoro. I paesi membri tuttavia
non si resero conto che nel rinunciare al diritto di stampare la loro valuta si
esponevano al rischio di fallimento. I mercati finanziari se ne sono accorti
solo all’inizio della crisi greca. Le autorità finanziarie non hanno capito il
problema, e stentano tuttora a tratteggiare una possibile soluzione. Nel
frattempo, cercano di temporeggiare. Ma invece di migliorare, la situazione è
peggiorata, e la causa di tutto ciò è da ricercarsi in una profonda mancanza di
comprensione e di unità in seno all’Unione europea.
Sarebbe stato
possibile fermare il corso degli eventi e invertire la rotta in qualsiasi
momento, ma questo avrebbe richiesto un piano concordato e ampie risorse
finanziare per condurlo a buon fine. La Germania, il maggior paese creditore,
si è trovata ai comandi, ma si è rivelata riluttante ad accollarsi ulteriori
perdite e svantaggi: di conseguenza, ogni opportunità per risolvere la crisi è
andata perduta. Dalla Grecia, la crisi ha contagiato altri paesi in difficoltà
e ben presto è stata rimessa in questione la sopravvivenza stessa della moneta
unica. Ma siccome lo sgretolamento dell’euro produrrebbe danni incalcolabili a
tutti gli stati membri, e in particolar modo alla Germania, questa continuerà a
fare il minimo necessario per tenere insieme l’euro.
Le misure di
politica economica portate avanti sotto la leadership tedesca riusciranno
probabilmente a mantenere in piedi l’euro per un periodo indefinito, ma non per
sempre. La divisione permanente instauratasi in seno all’Unione europea tra
paesi creditori e debitori – con i creditori che dettano le loro condizioni –
appare politicamente inaccettabile. Se e quando l’euro verrà abbandonato, la
conseguenza principale sarà lo smantellamento del mercato comune e dell’Unione
europea. L’Europa intera si ritroverà in condizioni assai peggiori di quando
furono gettate le basi dell’unificazione, perché la rottura si lascerà alle
spalle uno strascico di ostilità e di risentimento reciproco. E più verrà
dilazionato l’abbandono dell’euro, più tragico sarà il risultato finale. La
prospettiva difatti appare talmente spaventosa che è venuto il momento di
valutare eventuali alternative fino ad oggi considerate impensabili.
A mio giudizio, la
strada migliore da seguire è quella di persuadere la Germania a scegliere tra
queste due strade: mostrarsi un paese egemone solidale con l’Unione, oppure
uscire dall’euro. In altre parole, la Germania deve guidare l’Europa o uscire
dall’Europa.
Poiché tutto il
debito accumulato è denominato in euro, è cruciale stabilire chi resterà a capo
della moneta comune.
Il debito emesso
sotto la legislazione interna può essere ri-denominato nella valuta interna, il
debito emesso sotto la legislazione estera non può essere ridenominato. Le
implicazioni sono state ampiamente analizzate da Jens Nordvig nella sua
analisi, insignita del Premio Wolfson per l’economia.
Se la Germania
uscisse dall’euro, la moneta unica si svaluterebbe. Il fardello del debito
resterebbe immutato in termini nominali, ma in termini reali si ridurrebbe. I
paesi debitori ritroverebbero la competitività perché le loro esportazioni
risulterebbero più economiche e le importazioni più costose. Anche il valore
immobiliare si apprezzerebbe in termini nominali, ovvero varrebbe di più in
euro svalutati. I paesi creditori, dal canto loro, si ritroverebbero a far
fronte a perdite negli investimenti nell’area euro, nonché sulle richieste di
riscossione accumulate all’interno del sistema di esecuzione dei pagamenti in
euro. L’ammontare di queste perdite dipenderà dall’entità della svalutazione,
pertanto i paesi creditori avranno interesse a mantenere la svalutazione entro
certi limiti.
Tale operazione
porterebbe alla realizzazione del sogno di John Maynard Keynes, che invocava un
sistema valutario internazionale nel quale sia i creditori che i debitori
condividono pari responsabilità per la tutela della stabilità. E l’Europa
riuscirebbe a sottrarsi alla minaccia della recessione. Lo stesso risultato
potrebbe essere raggiunto, con costi inferiori per la Germania, se la Germania
decidesse di agire come un paese egemone solidale. E ciò significherebbe:
1) offrire
condizioni operative più o meno paritarie tra paesi creditori e debitori, e
2) puntare a una
crescita nominale non inferiore al 5 percento. In altre parole, all’Europa sarà
consentito superare il suo indebitamento eccessivo grazie alla crescita.
Questo percorso però
implicherebbe un livello di inflazione maggiore rispetto a quanto la Bundesbank
sia disposta ad accettare.
Che la Germania
decida di guidare l’Europa o di lasciare l’Europa, ciascuna di queste
alternative appare preferibile al proseguire sull’attuale cammino. La difficoltà
sta nel persuadere la Germania che le sue decisioni in questo momento stanno
spingendo l’Europa verso una recessione prolungata che rischia di sfociare in
conflitti politici e sociali, fino a un’eventuale rottura non solo dell’euro,
ma anche dell’Unione europea. La domanda – alla quale tenterò di dare una
risposta – è la seguente: come fare a convincere la Germania a operare una
scelta precisa, vale a dire accettare tanto le responsabilità quanto le perdite
che un paese egemone solidale deve inevitabilmente accollarsi, oppure
abbandonare l’euro nelle mani dei paesi debitori che indubbiamente se la
caverebbero molto meglio con le loro sole forze?
Come siamo arrivati
a questo punto.
Ai suoi albori,
l’Unione europea incarnò quello che gli psicologi chiamano “un oggetto
fantasmatico”, ovvero un traguardo ambito che seppe catturare l’immaginazione
di molti, compresa la mia. Per me l’Europa unita rappresenta l’ideale
realizzato di una società aperta: l’unione di cinque grandi stati e diversi
stati minori, dove tutti condividono i principi di democrazia, libertà
individuale, diritti umani e rispetto della legalità. Nessuna nazione né
nazionalità occupa una posizione dominante. Benché la burocrazia di Bruxelles
sia stata spesso accusata di “scarsa democrazia”, i parlamenti eletti dei
singoli stati hanno sempre approvato i grandi passi via via compiuti nel corso
degli anni.
Il processo di
integrazione è stato promosso con forza da un piccolo gruppo di statisti
lungimiranti che praticavano un processo di ingegneria sociale a tassello, così
definito da Karl Popper. Ben sapendo che la perfezione è irraggiungibile, i
padri fondatori dell’Europa si erano posti obiettivi limitati e scadenze
precise, per poi mobilitare la volontà politica affinché venisse compiuto un piccolo
passo in avanti. Erano tuttavia consapevoli che l’inadeguatezza di quel piccolo
passo sarebbe stata subito palese e avrebbe richiesto un successivo sforzo. Il
processo si è evoluto, alimentato dai propri successi, proprio come una bolla
finanziaria. È così che la Comunità per il carbone e l’acciaio gradualmente si
è trasformata nell’Unione europea, un passo alla volta.
La Francia e la
Germania sono sempre stati i maggiori sostenitori dell’iniziativa. Quando
l’impero sovietico cominciò a vacillare, i leader tedeschi, rendendosi conto
che la riunificazione delle due Germanie era possibile solo nel contesto di
un’Europa ancora più unita, si sono mostrati pronti a ogni sacrificio pur di
ottenerla. Nel corso delle trattative, hanno sempre concesso qualcosa di più e
accettato qualcosa di meno rispetto agli altri, facilitando così gli accordi.
In quel periodo, gli statisti tedeschi affermavano che la Germania non aveva
una politica estera indipendente, al di fuori di una politica europea. E questo
ha prodotto un’enorme accelerazione del processo di integrazione, culminato con
la firma del Trattato di Maastricht nel 1992 e con l’introduzione dell’euro nel
2002.
Ma il Trattato di
Maastricht era gravato da numerosi difetti sin dal suo concepimento. Gli
architetti stessi dell’euro riconoscevano che si trattava di una costruzione
incompleta: la moneta unica era dotata di una banca centrale comune ma mancava
un comune ministero del tesoro in grado di emettere titoli condivisi da tutti
gli stati membri. Gli Eurobond incontrano ancora oggi forti resistenze in
Germania e in altri paesi creditori. Gli architetti dell’euro erano convinti,
tuttavia, che nel momento della necessità tutti gli stati membri avrebbero
espresso la volontà di varare le misure necessarie verso un’unione politica.
Dopo tutto, così è nata l’Unione europea. Sfortunatamente, l’euro aveva però
molte altre pecche, di cui né gli architetti né gli stati membri erano
pienamente a conoscenza. Queste sono emerse nel corso della crisi finanziaria
del 2007-8, che ha avviato il processo di sfaldamento.
Nella settimana
successiva alla bancarotta di Lehman Brothers, i mercati finanziari globali
crollarono e furono mantenuti in vita artificialmente. Per far questo, il
credito sovrano (sotto forma di garanzie della banca centrale e deficit di
bilancio) è andato a rimpiazzare il credito delle istituzioni finanziarie che
non era più accettato dai mercati. Proprio il ruolo centrale che è stato
addossato al credito sovrano ha svelato un difetto dell’euro, fino ad allora rimasto
nascosto e non ancora adeguatamente riconosciuto. Nel trasferire alla Banca
centrale europea quello che era stato in passato il loro diritto a stampare
moneta, gli stati membri hanno esposto il loro credito sovrano al rischio di
fallimento o default. I paesi sviluppati che controllano la loro moneta non
hanno alcun motivo di fallire, possono sempre stampare altri soldi. La loro
valuta perderà di valore, ma il rischio di fallimento è praticamente
inesistente. In contrasto, i paesi meno sviluppati che accettano prestiti in
valuta straniera devono pagare premi che riflettono il rischio di default. Ad
aggravare la situazione, i mercati finanziari possono realmente causare il
fallimento di questi paesi attraverso manipolazioni speculative dei mercati – vendita
a breve dei loro titoli per spingere ancora più in alto il costo dei prestiti,
aggravando così i timori di un fallimento imminente.
Quando fu introdotto
l’euro, i titoli di stato erano considerati privi di rischi. I regolatori
consentivano alle banche di acquistare quantitativi illimitati di titoli di
stato senza mettere da parte alcun capitale di garanzia, e la Banca centrale
europea accettava tutti i titoli di stato con la discount window (possibilità
per le banche di chiedere in prestito direttamente il denaro alla banca
centrale a tassi di favore) a pari condizioni. Così facendo, era vantaggioso
per le banche commerciali accumulare i titoli dei paesi membri più deboli, che
pagavano tassi di interessi leggermente superiori, per poter guadagnare qualche
punto base in più.
In seguito alla
crisi di Lehman Brothers, Angela Merkel dichiarò che la garanzia che a
nessun’altra importante istituzione finanziaria, interna al sistema, sarebbe
stato consentito di fallire, doveva essere offerta da ciascun paese
separatamente, e non dall’Unione europea in un’azione congiunta. È stata questa
la prima picconata in un processo di disintegrazione che minaccia in questo
momento di distruggere l’Unione europea.
I mercati finanziari
hanno impiegato più di un anno per accorgersi delle implicazioni della
dichiarazione della cancelliera Merkel, a dimostrazione che operano con
conoscenze lungi dall’essere complete ed esaurienti. Solo nel dicembre del
2009, quando il governo greco appena eletto dichiarò che il precedente governo
aveva truccato i conti e che il deficit dello stato superava il 15 percento del
PIL, i mercati finanziari si sono resi conto che i titoli di stato, fino ad
allora considerati privi di rischi, erano invece gravati da rischi notevoli ed
erano esposti al default. Successivamente a questa scoperta, i premi di rischio
(sotto forma di rendimenti maggiori che i governi erano costretti ad offrire
per vendere i loro titoli, il cosiddetto spread) sono cresciuti in maniera
drammatica. E questo a sua volta ha spinto le banche commerciali, i cui bilanci
erano carichi di quei titoli, sull’orlo dell’insolvenza. La situazione ha
innescato la crisi del debito sovrano e la crisi bancaria, che sono collegate
tra di loro e si alimentano a vicenda. Sono questi i due fattori principali
della crisi che l’Europa si trova oggi ad affrontare.
Esiste una stretta
analogia tra la crisi dell’euro e la crisi bancaria internazionale del 1982.
Allora il Fondo monetario internazionale e le autorità bancarie internazionali
salvarono il sistema bancario mondiale prestando il denaro necessario ai paesi
più pesantemente indebitati per consentire loro di evitare il fallimento, ma
così facendo li spinsero in una recessione prolungata. L’America latina si
ritrovò in una stagnazione trascinatasi per un intero decennio.
Oggi è la Germania a
svolgere un ruolo simile a quello del Fondo monetario internazionale nel 1982.
Il contesto è diverso, ma le conseguenze sono identiche. I creditori stanno
effettivamente spostando tutto il fardello della rettifica della compensazione
sui paesi debitori, evitando le proprie responsabilità per gli scompensi
creati. È interessante notare come i termini “centro” e “periferia” si siano
insinuati nell’uso corrente quasi di soppiatto, poiché appare chiaramente
improprio descrivere Italia e Spagna come paesi periferici. In realtà,
tuttavia, l’introduzione dell’euro ha relegato alcuni stati membri nella
posizione di paesi meno sviluppati senza che le autorità europee, né gli stati
membri stessi, se ne accorgessero. In retrospettiva, la crisi dell’euro trae
origine proprio da questo.
Come negli anni
Ottanta, anche oggi tutta la colpa e gli oneri sono stati addossati alla
“periferia”, senza mai valutare adeguatamente le responsabilità del “centro”.
In questo contesto, la parola tedesca Schuld è assai rivelatrice: essa
significa al contempo debito e colpa. L’opinione pubblica tedesca accusa i
paesi più pesantemente indebitati di essere causa dei loro stessi mali. Ma la
Germania non può sottrarsi alla sua parte di responsabilità. Sono convinto
difatti che la responsabilità, o Schuld, del “centro” sia ancor più grave oggi
di quella che fu nella crisi bancaria del 1982. Nel creare l’euro, il “centro”
è stato guidato dalle stesse false dottrine economiche che hanno prodotto la
crisi finanziaria del 2007-8. Il Trattato di Maastricht dava per scontato che
solo il settore pubblico fosse in grado di produrre deficit cronici, presumendo
invece che i mercati finanziari sarebbero sempre stati in grado di correggere i
propri eccessi. Sebbene questi presupposti dogmatici sul funzionamento dei
mercati siano stati clamorosamente smentiti dalla crisi finanziaria del 2007-8,
le autorità europee continuano a rispettarli. Per esempio, hanno trattato la
crisi dell’euro come se fosse un semplice problema fiscale o di bilancio. Ma
solo la Grecia rappresenta una vera crisi fiscale. Il resto dell’Europa è
travagliato invece da difficoltà bancarie e da una forbice nella competitività
che ha innescato a sua volta scompensi nella bilancia dei pagamenti. Le
autorità non hanno capito la complessità della crisi, figuriamoci una possibile
soluzione. Pertanto hanno cercato di prendere tempo.
E di solito
l’espediente funziona. Il panico finanziario si placa e le autorità raccolgono
i profitti del loro intervento. Ma stavolta no, perché i problemi finanziari
sono andati di pari passo con un processo di sfaldamento politico. Quando
l’Unione europea era in fase di creazione, i leader politici prendevano
l’iniziativa di nuovi passi in avanti; ma allo scoppio della crisi finanziaria
tutti i leader si sono aggrappati allo status quo, rendendosi conto che i
cittadini ormai stentano a credere in una maggiore integrazione. In situazione
di difficoltà, ciascun paese si è preoccupato di proteggere i propri esclusivi
interessi nazionali. Era previsto che qualsiasi cambiamento nelle regole
avrebbe trasferito il potere dalle autorità europee basate a Bruxelles per
riconsegnarlo alle autorità nazionali. Pertanto, le parole dei trattati di
Maastricht e di Lisbona sono state considerate vincolanti, come per esempio
l’Articolo 123, che proibisce alla Banca centrale europea di prestare soldi ai
singoli governi. Questo ha spinto molti di coloro che considerano lo status quo
insostenibile o intollerabile ad adottare atteggiamenti anti europei. È stata
questa la dinamica politica che ha reso la disintegrazione dell’Unione europea
un argomento altrettanto convincente di quanto fosse stato il processo di
creazione.
Angela Merkel ha
interpretato correttamente lo stato d’animo del suo paese insistendo che
ciascun governo deve farsi carico del proprio sistema bancario. In realtà la
Germania ha mutato posizione dopo la riunificazione. Proprio come allora era
stata disposta a fare notevoli sacrifici in nome della riunificazione, una
volta realizzata questa operazione la Germania si è concentrata nel mantenere
il pareggio di bilancio. Lungi dal contribuire un po’ più degli altri, la
Germania si è guardata bene dal diventare il portafoglio del resto d’Europa.
Anziché ribadire che la Germania non aveva altra politica tranne quella
europea, la stampa tedesca ha cominciato ad accusare l’Unione europea di essere
“l’unione dei salvataggi”, con il rischio di dissanguare il paese. Ad aggravare
la situazione, la Bundesbank è rimasta aggrappata a una dottrina monetaria
superata, che tuttavia è profondamente radicata nella storia tedesca. In
seguito alla Prima guerra mondiale, la Germania patì un’esperienza traumatica a
causa dell’inflazione, e pertanto ancora oggi vede nell’inflazione
esclusivamente una minaccia alla stabilità, e ignora la deflazione, che in
questo momento rappresenta invece il vero spauracchio per l’Europa.
Quando la
riunificazione fece esplodere il debito tedesco, la Germania seppe introdurre
riforme radicali del mercato del lavoro e numerose riforme strutturali, e
adottò un emendamento costituzionale che impone al bilancio federale di
raggiungere il pareggio entro il 2017. Le misure varate hanno funzionato a
meraviglia. La Germania ha goduto di una ripresa economica trascinata
dall’esportazione, nonché aiutata dal mercato immobiliare e dai consumi in
risalita nel resto d’Europa. Oggi la Germania prescrive a tutti austerità
fiscale e riforme strutturali come unico rimedio per la crisi dell’euro. Perché
mai non dovrebbero funzionare per l’Europa di oggi, se hanno funzionato per la
Germania di ieri? Per una buona ragione: le condizioni economiche sono molto
diverse. Il sistema finanziario globale sta riducendo la sua leva eccessiva e
le esportazioni rallentano in tutto il mondo. Il rigore fiscale in Europa è
esacerbato da una tendenza globale e sta spingendo l’Unione nella trappola
deflazionistica del debito. Quando troppi governi pesantemente indebitati si
sforzano di ridurre il deficit di bilancio, la loro economia rallenta e si
contrae, facendo paradossalmente lievitare il deficit come percentuale del PIL.
Le autorità monetarie mondiali riconoscono questo pericolo. Il presidente della
Federal Reserve, Ben Bernanke, il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn
King, e persino Masaaki Shirakawa, governatore della Banca del Giappone, hanno
tutti adottato misure monetarie non convenzionali per evitare la trappola
deflazionistica del debito.
L’opinione pubblica
tedesca trova molto difficile capire che la Germania sostiene una politica
sbagliata in Europa. L’economia tedesca non è in crisi, anzi, finora la
Germania ha approfittato della crisi dell’euro, che ha tenuto basso il tasso di
cambio e ha facilitato le esportazioni. Di recente la Germania ha goduto di
tassi di interesse bassissimi e i capitali fuggiti dai paesi debitori si sono
riversati in Germania, proprio nel momento in cui la “periferia” si è vista
costretta a pagare grossi premi di rischio per accedere ai finanziamenti.
Non siamo certo
davanti a qualche losco complotto, bensì alla conseguenza imprevista di un
susseguirsi di eventi non pianificati. I politici tedeschi, tuttavia, hanno
cominciato a fiutare i vantaggi che la situazione ha conferito alla Germania e
questo sta influenzando le loro scelte economiche. La Germania si ritrova oggi
in una posizione dove il suo atteggiamento è determinante per la politica
europea. Perciò la responsabilità primaria per una politica di austerità che
spinge l’Europa in depressione è da addossare alla Germania. Con il passar del
tempo, vi sono sempre più ragioni per biasimare la Germania per le politiche
che sta imponendo all’Europa, mentre i cittadini tedeschi si sentono
ingiustamente incolpati. Siamo davanti a una tragedia di proporzioni storiche.
Come nelle antiche tragedie greche, gravi malintesi da una parte e una vera e propria
mancanza di comprensione dall’altra stanno portando a conseguenze involontarie
ma fatali.
Se la Germania fosse
stata disposta, all’inizio della crisi greca, a offrire il credito che poi è
stato offerto in un momento successivo, la Grecia avrebbe potuto facilmente
salvarsi. Ma l’Europa ha fatto solo il minimo indispensabile per evitare il
collasso del sistema finanziario e questo non è bastato a invertire la rotta.
Lo stesso è accaduto quando la crisi si è allargata agli altri paesi. In
ciascuna fase, la crisi avrebbe potuto essere fermata ed evitata se la Germania
fosse stata in grado di guardare oltre la curva e disposta a fare qualcosa in
più del minimo indispensabile.
All’inizio della
crisi, la rottura dell’euro era impensabile. Le attività e le passività
denominate nella moneta comune erano talmente compenetrate che una rottura
avrebbe portato a un collasso incontrollato. Ma con l’avanzare della crisi il
sistema finanziario si è progressivamente riorientato sulla compagine
nazionale. I regolatori hanno favorito il prestito interno, le banche hanno
scaricato gli asset fuori dai confini nazionali e i manager del rischio si sono
sforzati di bilanciare attività e passività all’interno dei confini nazionali,
anziché nell’eurozona nel suo complesso. Se la tendenza continua, la
disgregazione dell’euro sarà possibile senza un collasso totale, ma questo
lascerà le banche centrali dei paesi creditori esposti a un gran numero di
richieste di pagamento difficili da riscuotere dalle banche centrali dei paesi
debitori.
Ciò è dovuto a un
problema arcano insito nel sistema di esecuzione dei pagamenti chiamato TARGET 2. A differenza del sistema
della Federal Reserve, che prevede un saldo annuale, il TARGET 2 accumula gli
squilibri tra le banche dell’eurozona.
Non ci sono stati
problemi fintanto che il sistema interbancario ha funzionato, perché le banche
regolavano gli squilibri tra di loro attraverso il mercato interbancario. Ma il
mercato interbancario non funziona più a dovere dal 2007 e dall’estate del 2011
si è vista una crescente fuga di capitali dai paesi più deboli. Quando un
cliente greco o spagnolo fa un bonifico dal suo conto in una banca greca o
spagnola verso una banca in Olanda, la Banca centrale olandese si ritrova un
credito TARGET 2, corrispondente a una richiesta di pagamento dalla Banca
centrale greca o spagnola. Queste richieste di riscossione sono cresciute in
maniera esponenziale. Entro la fine di luglio di quest’anno la Bundesbank ha
registrato richieste equivalenti a circa 727 miliardi di euro da riscuotere
dalle banche centrali dei paesi periferici.
La Bundesbank si è
resa conto del pericolo potenziale e il pubblico tedesco è stato allertato
dall’appello accorato, ancorché incauto, lanciato da Hans-Werner Sinn, un
economista tedesco. La Bundesbank è sempre più determinata a limitare le
perdite che rischia di sostenere nel caso di rottura dell’euro. E ciò significa
spianare il terreno proprio a questa eventualità, perché non appena una banca
centrale si premunisce contro la rottura dell’euro, tutte le altre sono
costrette a fare altrettanto.
E perciò la crisi si
aggrava. Le tensioni sui mercati finanziari hanno toccato nuove vette, come
provano i rendimenti irrisori o non esistenti sui titoli di stato tedeschi.
Ancor più significativo è il fatto che il rendimento su un titolo di stato
inglese a 10 anni non è mai stato così basso negli ultimi 300 anni, mentre gli
interessi sui titoli di stato spagnoli sono schizzati verso l’alto.
L’economia reale
dell’eurozona è in declino, mentre la Germania se la passa relativamente bene.
Ciò significa che il divario si va allargando. Le dinamiche politiche e sociali
spingono anch’esse verso la disintegrazione. L’opinione pubblica, così come si
è espressa nei recenti risultati elettorali, si oppone sempre di più alle
misure di austerità e la tendenza non si placherà finché la politica non avrà
invertito la rotta. Qualcosa, a questo punto, deve pur cedere.
E adesso a che punto
siamo?
Il summit di giugno
è parso offrire l’ultima opportunità di fare marcia indietro in seno
all’esistente struttura legale. Nel prepararlo, le autorità europee, sotto la
guida di Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo – che raccoglie
tutti i capi di stato o di governo degli stati membri dell’Unione – hanno
capito che la strada imboccata porta diritta alla catastrofe e hanno deciso di
esplorare vie alternative. Hanno inoltre compreso che i problemi delle banche e
del debito sovrano sono intimamente collegati, come due gemelli siamesi, e non
possono essere risolti separatamente. Si sono impegnati per avviare una
revisione comprensiva delle normative, ma ovviamente hanno dovuto consultare la
Germania a ogni passo. Ne hanno ricevuto l’appoggio sullo sviluppo di piani per
un’unione bancaria, perché la Germania è comprensibilmente preoccupata dei
rischi creati dalla fuga di capitali dai paesi “periferici”. Pertanto
quell’aspetto del programma è stato sviluppato molto più dettagliatamente
rispetto al problema del debito sovrano, malgrado l’esistenza del nesso tra le
due tematiche.
Il costo di
rifinanziare il debito nazionale rivestiva un’importanza cruciale per l’Italia.
All’avvio del summit di giugno il primo ministro Monti ha dichiarato che
l’Italia non avrebbe firmato nulla se prima non fosse stato affrontato quel
problema. Per evitare il fiasco, la cancelliera Merkel ha promesso che la
Germania avrebbe accolto qualsiasi proposta purché nella cornice della
normativa esistente. E il summit si è salvato. È stato deciso di finalizzare i
piani di un’unione bancaria, consentendo la creazione di un fondo di
salvataggio europeo, l’ESM e l’EFSF, per ricapitalizzare le banche
direttamente, e al termine di una sessione protrattasi per tutta la notte, i
lavori sono stati sospesi. Mario Monti ha dichiarato vittoria. Ma nei negoziati
successivi si è capito che nessuna proposta per ridurre lo spread può essere
inserita nell’attuale struttura normativa. Il piano di usare l’ESM per
ricapitalizzare le banche spagnole è stato inoltre indebolito al di là di ogni
previsione quando la cancelliera Merkel ha dovuto assicurare il Bundestag che
la Spagna sarebbe comunque rimasta responsabile di qualsiasi perdita. I mercati
finanziari hanno reagito facendo risalire lo spread sulle obbligazioni spagnole
fino a cifre record, causando anche un’impennata degli interessi sui titoli
italiani. La crisi è divampata in pieno. Con la Germania immobilizzata dalla
corte costituzionale, le cui decisioni sulla legalità dell’ESM saranno
annunciate il 12 settembre, alla Banca centrale europea non è rimasto che
gettarsi nella mischia e tappare le falle.
Mario Draghi,
l’attuale presidente della BCE, ha annunciato che la BCE farà il possibile per
tutelare l’euro “nell’ambito delle competenze della BCE”. Il presidente della
Bundesbank, Jens Weidmann, da quel momento ha sempre fatto sentire la sua voce
nel ribadire le restrizioni legali cui è sottoposta la BCE, ma il
rappresentante del governo tedesco nel consiglio della BCE, Joerg Asmussen, si
è fatto avanti a sostegno di interventi illimitati proprio perché la
sopravvivenza stessa dell’euro è in pericolo. Questa è stata una svolta. La
cancelliera Merkel sosteneva Mario Draghi, lasciando isolato il presidente
della Bundesbank nel Consiglio della Bce. Il presidente Draghi ha sfruttato al
meglio la sua opportunità. I mercati finanziari si sono rincuorati e hanno
fatto segnare un recupero. Sfortunatamente, persino un intervento illimitato
potrebbe non bastare a impedire che la divisione dell’area euro fra Paesi
debitori e Paesi creditori diventi permanente. Essa non eliminerà lo spread, lo
ridurrà solamente e la condizionalità imposta ai Paesi debitori dall’Efsf
probabilmente li spingerà in una trappola deflazionistica. Di conseguenza, essi
non saranno in grado di riguadagnare competitività fino a che non
abbandoneranno il tentativo di ridurre il debito con l’austerità.
La linea di minor
resistenza non porta all’immediata rottura dell’euro, bensì all’estensione
indefinita della crisi. Una rottura disordinata sarebbe catastrofica per
l’eurozona, e indirettamente per il mondo intero. La Germania, che se l’è
cavata molto meglio degli altri paesi dell’eurozona, rischia un tonfo ancor
peggiore, e pertanto continuerà a fare il minimo indispensabile per impedire la
rottura dell’euro.
L’Unione europea che
emergerà da questo processo si rivelerà diametralmente opposta all’ideale di
unione europea quale società aperta. Sarà invece un sistema gerarchico
costruito sulle obbligazioni del debito, anziché un’associazione volontaria di
stati membri pari tra loro. Ci saranno due categorie di stati, creditori e
debitori, e i creditori avranno in mano le leve del potere. In quanto paese
creditore più forte, la Germania sarà in posizione dominante rispetto
all’Europa. La differenziazione di classe diventerà permanente, poiché i paesi
debitori saranno costretti a pagare cospicui premi di rischio per avere accesso
ai finanziamenti e sarà sempre più difficile, se non impossibile, rimettersi al
passo con i paesi creditori. Il divario nell’andamento economico, anziché
restringersi, si andrà allargando. Tutte le risorse, sia umane che finanziarie,
verranno attratte dal centro e la periferia verserà in condizioni recessive
permanenti. La Germania riuscirà persino a risolvere in parte i suoi problemi
demografici grazie all’arrivo di lavoratori diplomati e laureati dalla penisola
iberica e dall’Italia, al posto degli immigrati scarsamente qualificati
provenienti da Turchia e Ucraina. Ma la periferia coverà un forte senso di
risentimento.
Il potere imperiale
porta con sé grandi benefici, ma solo se si prodiga per risollevare coloro che
vivono sotto la sua egida. Gli Stati Uniti emersero in posizione egemone nel
mondo libero al termine della Seconda guerra mondiale. Se il sistema di Bretton
Woods conferì all’America il primo posto tra nazioni pari tra loro, gli Stati
Uniti si rivelarono una potenza solidale, che seppe guadagnarsi l’eterna
gratitudine dell’Europa dando avvio al piano Marshall. È questa l’occasione
storica che la Germania di oggi sta perdendo, inchiodando i paesi pesantemente
indebitati alla loro Schuld.
Vale la pena
ricordare che le durissime riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo la
Prima guerra mondiale furono tra le cause che favorirono la nascita del
Nazionalsocialismo. E la Germania beneficiò di un abbattimento dei suoi debiti
in ben tre distinte occasioni: con il piano Dawes nel 1924, con il piano Young
nel 1929 – troppo tardi per impedire l’ascesa di Hitler – e con l’Accordo sul
debito di Londra nel 1953.
Oggi la Germania non
ha nessuna ambizione imperiale, è chiaro. Paradossalmente, il desiderio di
evitare in tutti i modi di estendere il proprio dominio sull’Europa spiega
perché la Germania non sia riuscita a cogliere al volo l’occasione di agire
come paese egemone solidale. Le misure prese dalla Bce il 6 settembre
costituiscono il minimo necessario per preservare l’euro, ma ci avvicineranno
anche a un’Europa a due livelli. I Paesi debitori dovranno sottoporsi alla
vigilanza europea, mentre i Paesi creditori non dovranno; e la divergenza nella
performance delle economie ne sarà accentuata. La prospettiva di una recessione
prolungata e di una divisione permanente in paesi creditori e debitori è
talmente penosa da risultare intollerabile. Ma quali sono le alternative?
Come uscire dalla
crisi.
La Germania deve
decidere se diventare un egemone solidale o lasciare l’euro. La prima
alternativa sarebbe nettamente la migliore.
Ma questo ruolo che
cosa comporterebbe per la Germania? In poche parole, richiederebbe di perseguire
due nuovi obiettivi che sono però in contrasto con la politica attuale:
1) stabilire
condizioni più o meno neutrali tra paesi debitori e paesi creditori, il che
significa che i debitori saranno in grado di rifinanziare il debito del proprio
governo in termini più o meno uguali.
2) Puntare a una
crescita nominale non inferiore al 5 percento in modo che l’Europa possa
liberarsi del suo debito eccessivo grazie alla crescita. Questo richiederebbe
un livello d’inflazione temporaneamente più alto del 2 per cento che è oggi
l’obiettivo della Bce.
Entrambi questi
obiettivi sono raggiungibili, ma solo dopo un notevole progresso verso l’unione
politica. Le decisioni politiche prese nel prossimo anno determineranno il
futuro dell’Unione europea. Le misure annunciare dalla Bce il 6 settembre
potrebbero preludere alla creazione di un’Europa a due livelli; in alternativa,
potrebbero portare a un’unione politica più integrata, nella quale la Germania
accetta gli obblighi che la sua posizione di leadership comporta.
Una zona euro a due
livelli finirebbe per distruggere l’Unione europea, perché i Paesi privati dei
loro diritti presto o tardi si ritirerebbero. Ma se un’unione politica non è
raggiungibile, la seconda migliore opzione sarebbe una separazione ordinata tra
Paesi debitori e Paesi creditori. Se la convivenza forzata non fa altro che
spingere l’unione verso una recessione duratura, è meglio lasciarsi di comune
accordo.
In una rottura
amichevole dell’euro è molto importante stabilire qual è il partner che lascia,
perché i debiti accumulati sono nella valuta comune. Se è il paese debitore a
lasciare, il suo debito aumenta in valore, in linea con la svalutazione della
moneta nazionale. Il paese in questione potrebbe ritrovare competitività, ma
sarebbe costretto a dichiarare fallimento sul suo debito e questo produrrebbe
disastri finanziari incalcolabili. Il mercato comune e l’Unione europea
potrebbero gestire il default di un piccolo paese come la Grecia, specie perché
la situazione è ben nota da tempo, ma non hanno nessuna possibilità di
sopravvivere al distacco di un paese più grande, come la Spagna o l’Italia. E
persino il fallimento della Grecia potrebbe rivelarsi fatale, incoraggiando la
fuga di capitali e le manipolazioni speculative dei mercati finanziari contro
altri paesi, e di conseguenza l’euro potrebbe ben presto sbriciolarsi come
accadde con il sistema di cambio dello SME nel 1992.
In contrasto, se
fosse la Germania a lasciare, abbandonando la moneta comune nelle mani dei
paesi debitori, l’euro crollerebbe e il debito accumulato si svaluterebbe in
linea con la moneta. In pratica, tutti i problemi finora considerati
intrattabili sparirebbero. I paesi debitori ritroverebbero competitività e il
loro debito calerebbe in termini reali, e con la Banca centrale europea sotto
il loro controllo, svanirebbe anche il rischio di default. Senza la Germania,
l’area euro non avrebbe nessuna difficoltà a invertire la rotta, manovra oggi
ostacolata dalla cancelliera Merkel.
Per entrare nel
dettaglio, l’area euro così ridotta potrebbe stabilire la propria autorità
fiscale e avviare un proprio Fondo per la riduzione del debito secondo le
direttive descritte di seguito. Anzi, una zona euro così ristretta potrebbe
spingersi oltre, e convertire l’intero debito dei paesi membri in eurobond,
senza limitarsi alla quota eccedente il 60 percento del PIL. Quando i tassi di
cambio dell’euro ristretto si saranno stabilizzati, lo spread sugli eurobond
scenderà a livelli analoghi a quello di altre valute a libera fluttuazione,
come la sterlina britannica e lo yen giapponese. Tutto questo può sembrare
inverosimile, ma solo perché gli equivoci alla radice della crisi hanno
guadagnato tanta credibilità negli ultimi tempi. La zona euro, anche senza la
Germania, per quanto sorprendente possa sembrare, otterrà un miglior
piazzamento secondo gli indicatori standard della solvenza fiscale in confronto
a Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti.
Deficit interno
lordo come percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania 5,3; UK 8,7;
Giappone 10,1; USA 9,6; zona euro esclusa la Germania 4,1.
Debito interno lordo
come percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania 90; UK 98; Giappone
205; USA 103; zona euro compresa la Germania 88.
Conto corrente come
percentuale del PIL: zona euro esclusa la Germania -1,6; UK -2,4; Giappone
+1,5; USA -3,5; zona euro compresa la Germania +0,5.
P.S. Se si escludono
Finlandia, Olanda e Slovacchia assieme alla Germania non si rilevano differenze
significative in nessuno dei confronti sopra citati.
L’eventuale uscita
della Germania causerebbe forti scompensi ma sarebbe un evento unico e
gestibile, anziché dover continuare a far fronte a un effetto domino caotico e
estenuante, che vedrebbe un paese debitore dopo l’altro costretto a uscire
dall’euro sotto la spinta della speculazione e della fuga dei capitali. Non ci
sarebbero cause legali promosse da possessori inferociti di obbligazioni.
Persino i problemi immobiliari diventerebbero molto più gestibili. Con un
significativo differenziale nei tassi di cambio, i tedeschi si precipiterebbero
ad acquistare proprietà immobiliari in Irlanda e in Spagna. Dopo gli squilibri
iniziali, la zona euro sarebbe in grado di abbandonare la recessione per
ricominciare a crescere.
Il mercato comune
riuscirebbe a sopravvivere, ma le posizioni relative della Germania e degli
altri paesi creditori che avranno lasciato l’euro passerebbero dal lato
vincente al perdente. Questi paesi incontreranno una feroce concorrenza sui
loro stessi mercati interni da parte della zona euro, e pur non perdendo i loro
mercati di esportazione, questi risulteranno tuttavia meno redditizi. Ci
saranno anche perdite finanziarie sul possesso di asset denominati in euro,
come pure sulle richieste di riscossione all’interno del sistema di esecuzione
dei pagamenti TARGET 2.
L’ammontare delle
perdite dipenderà dall’entità della svalutazione dell’euro.
La Germania potrebbe
addirittura scegliere di restare membro del sistema TARGET 2 per consentire ai
saldi di ridursi gradualmente man mano che il sistema di prestito interbancario
ritornerà operativo, anziché accettare perdite immediate. Questo perché la
Germania avrebbe un interesse vitale nel contenere la svalutazione entro
determinati limiti. Certo, ci saranno molte difficoltà di transizione, ma il
risultato eventuale sarà l’adempimento del sogno di Keynes, quello di un
sistema monetario in cui creditori e debitori hanno pari interessi nel
mantenere la stabilità.
Dopo lo shock
iniziale, l’Europa riuscirà a sfuggire alla trappola deflazionistica del debito
nella quale si trova attualmente immobilizzata. L’economia globale in genere e
l’Europa in particolare si riprenderebbero ben presto e la Germania, dopo
essersi adattata alle perdite subite, potrebbe ritrovare la sua posizione di
grande produttore ed esportatore di manufatti ad alto valore aggiunto. Il
miglioramento complessivo della situazione sarebbe vantaggioso anche per la
Germania.
Tuttavia, le perdite
finanziarie immediate e il rovesciamento della sua posizione relativa
all’interno del mercato comune sarebbero talmente vaste che è poco realistico
aspettarsi che la Germania lasci l’euro di sua spontanea volontà. La spinta a
estrometterla dovrà venire dall’esterno.
In contrasto, la
situazione sarebbe ancor più favorevole alla Germania se decidesse di
comportarsi come un paese egemone solidale nei confronti dei suoi partner, e
all’Europa verrebbe risparmiato lo scombussolamento creato dal ritiro della
Germania dall’euro. Ma la strada per raggiungere il doppio obiettivo di un
terreno di gioco uguale per tutti e una politica efficace di crescita appare
assai più tortuosa. Proviamo a scendere nei particolari.
Il primo passo
sarebbe quello di stabilire un’Autorità fiscale europea, autorizzata a prendere
importanti decisioni economiche per conto degli stati membri. È questo
l’elemento finora mancante, ma necessario per trasformare l’euro in una vera
valuta con un rifinanziatore affidabile in caso di difficoltà. L’Autorità fiscale,
in quanto partner della banca centrale, riuscirebbe laddove la BCE non arriva
con le sue sole forze. Il mandato della BCE è tutelare la stabilità della
moneta e le è stato espressamente proibito di finanziare i deficit dei singoli
stati. Tuttavia non vi è nulla che proibisca agli stati membri di stabilire
un’autorità fiscale. Sono i timori tedeschi di diventare i salvatori forzati
dell’Europa a intralciare il cammino. Viste le dimensioni dei problemi europei,
le paure della Germania sono comprensibili, ma non giustificano l’imposizione
di una divisione permanente dell’area euro tra paesi creditori e debitori. Gli
interessi dei creditori possono e devono essere protetti, garantendo loro il
potere di veto su decisioni che minacciano di penalizzarli eccessivamente. Ciò
è già riconosciuto nel sistema di voto dell’ESM, che richiede una maggioranza
dell’80 percento per il varo di qualsiasi misura. Questa normativa dovrebbe
essere incorporata nell’Autorità fiscale europea. Quando gli stati membri
partecipano in maniera proporzionale, per esempio contribuendo una certa
percentuale della loro IVA, sarebbe sufficiente raggiungere la semplice
maggioranza.
L’Autorità fiscale
europea si incaricherebbe immediatamente dell’EFSF e dell’ESM. Il grande
vantaggio di questa Autorità sta proprio nel poter prendere decisioni giorno
per giorno, come la BCE. Un altro vantaggio sarebbe quello di ristabilire la
corretta distinzione tra responsabilità fiscali e monetarie. Per esempio,
l’Autorità fiscale dovrebbe accollarsi il rischio di insolvenza su tutte le
obbligazioni governative acquistate tramite la BCE. A quel punto, non ci
sarebbe più motivo per sollevare obiezioni all’operatività illimitata della BCE
sul libero mercato. (La BCE potrebbe decidere di fare questo passo autonomamente
il 6 settembre, ma solo scavalcando la pressante opposizione della Bundesbank).
Ancor più importante è il fatto che per l’Autorità sarebbe molto agevole
favorire la partecipazione del settore pubblico nella ristrutturazione del
debito greco, rispetto a quanto possa fare la BCE. L’Autorità potrebbe
esprimere la volontà di convertire tutte le obbligazioni greche del settore
pubblico in titoli di stato a zero coupon che cominceranno a maturare un
rendimento da qui a dieci anni, a condizione che la Grecia raggiunga un surplus
primario non inferiore al 2 percento. Un simile intervento rappresenterebbe una
luce in fondo al tunnel che potrebbe aiutare la Grecia persino in questo stadio
così avanzato.
Il secondo passo
sarebbe di ricorrere all’Autorità fiscale per impostare condizioni di maggior
parità di quanto non possa offrire la BCE da sola il 6 settembre. Ho proposto
di mia iniziativa che l’Autorità dovrebbe introdurre un Fondo di riduzione del
debito – una versione modificata del Patto europeo per la redenzione del debito
proposto dalla stessa commissione di consiglieri economici della cancelliera
Merkel e approvata sia dai Socialdemocratici che dai Verdi in Germania. Il
Fondo per la riduzione del debito potrebbe accollarsi i debiti nazionali
superiori al 60 percento del PIL a condizione che i paesi in difficoltà diano
avvio alle riforme strutturali approvate dall’Autorità fiscale. Il debito non
sarebbe cancellato, ma trattenuto dal Fondo. Se il Paese debitore non rispetta
le condizioni concordate, il Fondo potrebbe imporre le penalità più
appropriate. Secondo le regole del Fiscal Compact, il paese debitore si impegna
a ridurre il suo debito eccessivo del 5 percento all’anno, dopo una moratoria
di cinque anni. È per questo che l’Europa deve puntare a una crescita nominale
non inferiore al 5 percento.
Il Fondo del debito
potrebbe finanziare il suo acquisto di obbligazioni tramite la Bce oppure
emettendo appositi Titoli per la riduzione del debito -un’obbligazione
congiunta dei paesi membri – per poi trasmettere ai paesi in difficoltà i
benefici di finanziamenti a tassi vantaggiosi. In entrambi i casi il costo per
il Paese debitore sarebbe ridotto all’1% o anche meno. A questi titoli verrebbe
assegnato un indice di rischio zero dalle autorità e trattati come collaterale
di altissima qualità per le operazioni repo presso la BCE. Il sistema bancario
ha urgente bisogno di asset liquidi a rischio zero. Le banche trattenevano
oltre 700 miliardi di euro di surplus di liquidità presso la BCE, guadagnando
un tasso di interesse dello 0,25 percento nel momento in cui ho suggerito
questo schema. Da allora, la BCE ha ridotto a zero il tasso di interesse pagato
su questi depositi. Questo assicura un mercato ampio e disponibile per i titoli
a meno dell’1 percento. In contrasto, il piano che verrà annunciato dalla BCE
il 6 settembre con molta probabilità non riuscirà a spingere il costo del
finanziamento molto al di sotto il 3 percento.
Sfortunatamente
questo schema è stato respinto su due piedi dai tedeschi, perché non conforme
ai requisiti della corte costituzionale della Germania. A mio avviso le
obiezioni sollevate sono infondate, perché la corte costituzionale respinge gli
impegni che non hanno precisi limiti di tempo e di portata, mentre i Titoli per
la riduzione del debito sarebbero ben circoscritti sotto entrambi questi
aspetti. Se volesse comportarsi da paese egemone solidale, la Germania non
avrebbe difficoltà ad approvare questo piano, che potrebbe essere introdotto
senza alcuna modifica dei trattati. I Titoli per la riduzione del debito
potrebbero rappresentare lo strumento capace di fare da ponte all’introduzione
degli eurobond, e questo renderebbe le condizioni operative uguali per i paesi
membri dell’Unione, una volta per tutte.
Rimane il secondo
obiettivo: una politica di crescita efficace che punti a una crescita nominale
non inferiore al 5 percento. Ciò è necessario per consentire ai paesi più
pesantemente indebitati di rispettare le condizioni del Fiscal Compact senza
cadere nella trappola deflazionistica del debito. Non sarà possibile
raggiungere questo obiettivo fintanto che la Germania resterà fedele
all’interpretazione asimmetrica della Bundesbank in materia di stabilità
monetaria. La Germania deve accettare un’inflazione superiore al 2 percento per
un periodo limitato, se vuole restare nell’euro senza distruggere l’Unione
europea.
Come fare?
Che cosa si può fare
per convincere la Germania a restare nell’euro senza distruggere l’Unione
europea, oppure ad abbandonare l’euro, in modo che i paesi debitori risolvano
da soli i loro problemi? La pressione esterna può riuscirci. Con François
Hollande a capo del governo francese, la Francia si è fatta portavoce
dell’Europa per invocare una politica alternativa. Formando un fronte comune
con Spagna e Italia, la Francia potrebbe presentare un programma credibile
sotto il profilo economico, e interessante sotto quello politico, in grado di
salvare il mercato comune e rilanciare l’Unione come quell’ideale europeo che
tanta presa aveva avuto in passato sull’immaginazione collettiva. Il fronte
comune è in grado di mettere la Germania davanti alla scelta finale: guidare
l’Europa o lasciare l’Europa. L’obiettivo sarebbe ovviamente non quello di
escludere la Germania, bensì di convincerla a modificare radicalmente le sue posizioni.
Purtroppo la Francia
non è in una posizione forte abbastanza per fare fronte comune con Italia e
Spagna davanti all’opposizione determinata della Germania. La cancelliera
Merkel non è solo un formidabile leader, ma anche un politico abilissimo che sa
come mantenere divisi i suoi avversari. La Francia è particolarmente
vulnerabile perché ha fatto ancor meno di Italia e Spagna in materia di
austerità fiscale e di riforme strutturali. Lo spread piuttosto basso di cui
godono attualmente le obbligazioni francesi è dovuto quasi interamente alla
stretta associazione con la Germania. Le banche centrali asiatiche hanno
acquistato obbligazioni francesi, specie da quando quelle tedesche hanno
cominciato a vendere a rendimento negativo. Ma se la Francia dovesse allearsi
troppo strettamente con Italia e Spagna, rischia di essere giudicata secondo i
medesimi parametri e lo spread sulle sue obbligazioni potrebbe risalire fino a
toccare livelli simili a quelli italiani e spagnoli.
Tutto sommato, i
vantaggi di ritrovarsi nella stessa barca con la Germania si riveleranno
illusori non appena l’Europa sarà colpita da una recessione prolungata. Con il
progressivo allargamento della spaccatura tra Francia e Germania, i mercati
finanziari non perderanno tempo a riclassificare la Francia assieme a Spagna e
Italia, che resti fedele alla Germania oppure no. Pertanto la vera decisione
della Francia sarà, da un lato, se rompere con la Germania e salvare l’Europa
rilanciando la crescita, o se, dall’altro, far finta di essere una valuta forte
per un breve lasso di tempo, prima di finire abbandonata al suo destino.
Prendere le parti dei paesi debitori e sfidare la politica di austerità
consentirebbe alla Francia di riappropriarsi della posizione di leadership che
aveva conosciuto durante la presidenza di Mitterrand. Sarebbe questa una
posizione molto più dignitosa che fare da passeggero in una macchina guidata
dalla Germania. Tuttavia, la Francia dovrà dar prova di molto coraggio per
staccarsi dalla Germania nel breve periodo.
L’Italia e la Spagna
sono travagliate da altre debolezze. L’Italia si è dimostrata incapace di
dotarsi di un governo efficace. Il suo attuale indebitamento risale agli anni
anteriori all’euro; come paese membro ha goduto addirittura di migliore
performance di bilancio della Germania – persino durante gli anni di
Berlusconi. Ma l’Italia sembra aver bisogno di un’autorità esterna che le
imponga una più attenta gestione dell’economia, e questo spiega come mai gli
italiani sono sempre stati talmente entusiasti dell’Unione europea. La Spagna
gode di ottima salute politica, ma il governo attuale si è dimostrato troppo
debole e conciliante con la Germania, andando contro i suoi stessi interessi.
Per di più, entrambi questi paesi potranno assicurarsi una certa riduzione
dello spread come conseguenza dell’acquisto delle loro obbligazioni da parte
della BCE, ed essa sarà abbastanza significativa da rimuovere l’incentivo a
incoraggiare a ribellarsi allo strapotere della Germania.
La campagna per
cambiare gli atteggiamenti tedeschi pertanto dovrà prendere una forma molto
diversa dai negoziati intergovernativi che in questo momento stanno valutando
gli strumenti da adottare. La società civile europea, la comunità
imprenditoriale, il settore economico e l’opinione pubblica generale devono
mobilitarsi e impegnarsi. Oggi molti paesi dell’eurozona vivono in condizioni
di sofferenza, confusione e rabbia, che non di rado sfociano in espressioni di
xenofobia, in atteggiamenti anti europei e in movimenti politici estremisti.
Occorre invece stimolare i sentimenti pro europei, che in questo momento sono
sopiti e non hanno occasione di manifestarsi, se vogliamo salvare l’Unione
europea. Un movimento di questo genere incontrerebbe reazioni positive in
Germania, dove la stragrande maggioranza è ancora pro europea, ma condizionata
da false dottrine monetarie e fiscali.
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