Ci voleva QUINTO STATO del bravissimo Giovanni Taurasi per farmi
rileggere Massimo Giannini, giornalista che detesto anche fisicamente. Vabbé, le
antipatie sono umane, mi perdonerete...Sono quelli come Giannini (ma l'elenco non è breve...Ezio Mauro, Antonello Caporale (oggi passato al Fatto...), Francesco Merlo, a suo tempo Giuseppe D' Avanzo, quando poi è arrivata la Spinelli ho capito che proprio era finita ) che mi hanno
allontanato da quello che è stato il "mio" giornale per 30 anni. Il
motivo lo trovo confermato anche in questo articolo . Giannini è un partigiano
col doppio petto. Elegante, curato,
fazioso. Come non scorgere la gioia, comprensibile e naturale in un militante,
meno in un professionista della critica, per il tracollo del PDL ? E come non
cogliere lo sforzo di vedere un successo politico nell'affermazione risicata di Crocetta, la dove al massimo ce n'è uno
numerico , striminzito e chissà se sufficiente, visto che la maggioranza il
nuovo governatore NON ce l'ha. Il successo "storico" invocato da Bersani, come ricorda Giannini, tale
non è visto che già era accaduto che Palazzo dei Normanni fosse conquistato
dalla sinistra. Durò poco, due anni, ma questo rischia di durare ancora
meno....E che dire del tracollo di voti, dimezzati rispetto alle politiche pur
perse nel 2008 ? Per non parlare che in Sicilia vince il centro sinistra, con
l'apporto DECISIVO dell'UDC, con il 10% dei voti. La sinistra-sinistra, quella
proposta a livello nazionale, PD-SEL, avrebbe perso nettamente. Dunque ?
In realtà, come ogni tifoso di calcio che si rispetti, per
Giannini l'importante è che l'avversario PERDA. Se accade per autorete, al 95
minuto, su un campo di fango, 11 contro 9, non importa.
Da noi è così. E infatti sono decenni che in Italia la lotta
politica non è ANCHE una lotta tra fazioni, ma SOLO.
Come leggevo in un commento sul profilo di Pierluigi Battista : in Sicilia sono 5 milioni di elettori, hanno votato due milioni, e il governatore è eletto da 600.000 , circa il 10% dell'elettorato...E sono gli stessi, grosso modo, che hanno governato da ultimo. Qualcosa non va.
Ecco comunque l'articolo di Massimo Giannini, che scrive anche cose reali
PRIMA dell’uragano di New York, arriva lo tsunami di
Sicilia. Basta che Beppe Grillo attraversi a nuoto lo Stretto di Messina, e
l’onda anomala investe l’isola. Devasta quasi tutto, a partire dalle vecchie
«casematte » del potere di centrodestra. Tra le macerie si erge un’alleanza di centrosinistra,
fragile e non autosufficiente. E si staglia un Movimento 5 Stelle, agile e
destabilizzante. Se questo esito del voto siciliano si proiettasse su scala
nazionale, ne verrebbe fuori un quadro politico indecifrabile. E un Parlamento
ingovernabile. Sul piano locale, queste elezioni regionali offrono tre spunti di
riflessione. La prima evidenza, la più inquietante, è il combinato disposto tra
la corsa dell’anti-politica e la fuga dalla politica. Tutti immaginavano che il
comico genovese, in trasferta in una terra a lui incognita, avrebbe ottenuto un
buon risultato. Ma non era affatto scontato che, con poco più di una settimana
di comizi nelle piazze e nelle valli sicule, Grillo riuscisse a diventare il
primo partito in quasi tutte le città, con percentuali che oscillano intorno al
18%. Non contano le proposte programmatiche sull’isola formulate dal leader
dell’M5S. Conta la voglia di cambiamento purchessia di chi lo ha votato, che fa
premio su tutto. Se a questo dato aggiungiamo il record di un’affluenza alle
urne che per la prima volta nella storia repubblicana resta sotto la soglia
psicologica del 50%, l’abisso che separa gli elettori dagli eletti (per
disincanto populista o per disinteresse astensionista) diventa davvero pauroso.
La seconda evidenza, la più stupefacente, è il crollo totale
del Pdl, che è alla base dell’insuccesso di Musumeci. La Sicilia è storicamente
un feudo della creatura berlusconiana, che qui è nata come Forza Italia, è
cresciuta, ha incubato le sue più disinvolte formule coalizionali ed ha
coltivato i suoi trionfi epocali. Dalla satrapia condivisa con il «socio»
centrista Totò Cuffaro al leggendario «cappotto » 61 a zero del 2001. Dalle
vette vertiginose del 46,6% ottenuto alle politiche del 2008, poi parzialmente
corretto al 33,4% delle regionali, oggi il Partito del Popolo delle Libertà
precipita al 12%. Una miseria di voti, racimolati nella terra dei Marcello
Dell’Utri, dei Renato
Schifani e soprattutto di quell’Angelino Alfano che qualcuno
vorrebbe degno ed unico erede dell’impero del Cavaliere, e che persino nella
sua Agrigento incassa l’ennesima umiliazione. Nonostante questo, il segretario
di Berlusconi (molto più che del suo partito) parla di un «risultato
straordinariamente positivo». Più che indignazione, suscita compassione. La
terza evidenza, la meno sconfortante (per chi ? per il Giannini tifoso ovvio... ndC) è la tenuta dell’asse Pd-Udc, che
consente almeno a Crocetta di governare la regione, magari attraverso un
ulteriore patto con il movimento di Miccichè e Lombardo. È il segno che
l’alleanza tra progressisti e moderati ha un suo senso, anche in una regione
generalmente «inospitale» per la sinistra. Bersani parla di «un risultato
storico», e a suo modo dice il vero.
A parte il dominio assoluto della Dc ai tempi della Prima Repubblica, nella Seconda in Sicilia ha sempre governato la
destra (con l’insignificante parentesi di Antonio Capodicasa, esponente
dell’allora Pds, che guidò Palazzo dei Normanni tra il ’98 e il 2000). Dunque,
per il centrosinistra aver piazzato comunque la sua bandiera nell’isola è un
passo avanti. Ma il segretario farebbe bene a non enfatizzare troppo il «successo». La ditta Pd-Udc è comunque la somma di
due debolezze: insieme (se si aggiunge il 6,5% della lista civica Crocetta)
fanno più del 30%, ma da soli i democratici calano a poco più del 13% e l’Udc
si ferma al 10,8% (contro, rispettivamente, il 25,4% e il 9,4% delle politiche
2008). Vuol dire che il centrosinistra vince sulle rovine del centrodestra,
cede consensi ai grillini e non intercetta quelli finiti nel frigorifero
dell’astensione.
La Sicilia è da sempre un «laboratorio », che anticipa e
consolida le tendenze generali. Questi tre effetti del voto locale avranno
dunque implicazioni significative sulla politica nazionale.
A destra si produce l’ennesimo paradosso.
Proprio il risultato siciliano (che sancisce plasticamente
la fine del ciclo berlusconiano e l’eutanasia di Alfano, un «delfino» mai nato)
offre a Berlusconi l’opportunità di rilanciarsi ancora una volta come unico
demiurgo della destra italiana. La destra dell’Editto di Villa Gernetto:
populista e forzaleghista, anti-europea e anti-repubblicana. La destra che
attacca il rigore della Merkel e il Fisco oppressore, accusa la Corte
costituzionale e la magistratura inquirente, e un giorno offre a Monti la guida
del Ppe italiano mentre il giorno dopo minaccia di togliergli la fiducia in
Parlamento. La destra che agita le primarie come una foglia di fico di un
impossibile «pluralismo interno », ma che vedrà di nuovo il Cavaliere come il
solo e il vero tragicomico Jocker di una campagna elettorale pericolosa per il
governo e rovinosa per il Paese.
A sinistra si profila un’opportunità, ma anche un problema.
L’idea di una vocazione maggioritaria del Pd, per quanto desiderabile e
suggestiva, non sembra in sintonia con gli umori del Paese. Il Partito
democratico ha dunque una sola chanche, che il risultato siciliano avalla e per
certi versi
propizia. Deve saper essere una forza capace di federarne
altre, usando l’unica risorsa della quale in questo momento sembra disporre: il
suo potere di coalizione. La sua forza di attrazione, che si deve poter
esplicare sia alla sua sinistra, sia al centro. È la fatica del riformismo. Chi
non capisce questo, e si ostina a porre veti insormontabili sulle alleanze e
paletti irrinunciabili sui programmi, rischia di condannare il centrosinistra
alla divisione, e quindi alla minorità.
Ma su tutto, resta una preoccupazione di fondo. Il voto
siciliano ci consegna un panorama di formazioni politiche che, singolarmente
prese, oscillano tra il 10 e il 20%. Tramontati i partiti di massa, esauriti i
partiti personali, restano partiti medio-piccoli che per provare a governare
possono solo provare a «consorziarsi ». Per il resto, un enorme bacino di
suffragi in libera uscita, ma senza vie d’uscita: una domanda di cambiamento
politico che non trova risposta nei partiti, incapaci di innovare persone e
proposte, e quindi finisce nel limbo del non voto. Se questo fosse il risultato
delle prossime elezioni nazionali, nella primavera del 2013, l’Italia ne uscirebbe
a pezzi. Sarebbe uno scenario che, a dispetto di una politica che vuole tornare
a guidare le sorti del Paese, sarebbe obbligata a ripetere l’esperimento in
corso, cioè quello di una Grande o Piccola Coalizione. Ma con l’aggravante di
un Parlamento balcanizzato, tra le convulsioni dei forzaleghisti e le
aggressioni di un centinaio di deputati grillisti. Una prospettiva sicuramente
favorevole a un Monti bis. Ma probabilmente sfavorevole all’Italia, che in
balia dell’onda anomala si confermerebbe l’unica democrazia «commissariata»
dell’Occidente.
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