Puntuale e acuto come sempre l'articolo di Angelo Panebianco che approfondisce il tema del crescente distacco tra America e Europa. Prima di lasciarvi all'editoriale , vorrei evidenziare tre punti :
1) Il ritorno alla politica isolazionista e il distacco dalla sponda atlantica inizia con Obama. L'idealista, il Sognatore applaudito dalle folle, è un pragmatico (finora di poco successo) che guarda più alla convenienza che alle affinità ideali. Romney in questo non è sostanzialmente diverso, ma almeno lui non si è mai proposto come un "dreamer".
2) Come sopra già accennato, le aperture alla Cina e al mondo Islamico non hanno prodotto al momento risultati apprezzabili. Forse che le distanze culturali e ideali siano veramente troppe per una politica coerente ? SI naviga a vista, senza una strategia, che magari è "impossibile". QUI e ORA, non sembra un granché ma forse non c'è alternativa con quei mondi.
3) La sciocchezza degli europei. Tutti pazzi per Obama. Quattro anni fa, ok, era plausibile...l'abbiamo scritto : giovane, sorriso affascinante, comunicatore e sognatore (a parole), pure nero. Dopo quattro anni gli americani si sono piuttosto disillusi, e infatti , almeno dai sondaggi, sarà un testa a testa dove alla fine il Presidente in carica la spunterà magari solo grazie al gioco dei Grandi Elettori, cioè la vittoria riportata in Stati che ne hanno di più, mentre il conteggio dei voti potrebbe essergli sfavorevole. Le regole a quel punto gli consentiranno di vincere ma con un viatico niente affatto entusiasmante : sarà il Presidente eletto dal sistema elettorale e NON dalla maggioranza degli elettori. Finora un risultato del genere è stato sfiorato ma MAI verificato negli USA. Se accadesse, qualcuno finalmente penserà che forse c'è da correggere qualcosa, se alla fine il voto di un californiano conta più di un texano. In Europa no. Se si votasse da noi la rielezione di Obama sarebbe plebiscitaria . Perché ? Visto che si tratta del presidente democratico che ha ricondotto l'America nella sua tentazione isolazionista, comunque quello che ha annacquato lo storico legame tra le democrazie occidentali..perché questo favore ?
Il sospetto è che si tratti di una questione di tifo : si preferisce Obama perché di "sinistra" e perché il suo "socialismo" in salsa americana si spera influenzi e rafforzi quello europeo. Legittimo, anche se l'entusiasmo è eccessivo : chiunque verrà eletto, a sentire i loro programmi, le loro idee, per noi in Europa cambierà nulla.
Buona Lettura
“America e Europa mai così lontane Il volto bipartisan dell’isolazionismo”
E se Barack Obama e Mitt Romney fossero due facce del
medesimo fenomeno, ossia la resa della America di fronte alla inevitabilità del
proprio declino? Il faccia a faccia del 23 ottobre fra i due sfidanti sulla
politica estera ha colpito i commentatori europei per l’assenza di riferimenti
all’Europa. Gli uni l’hanno interpretata come prova della nostra debolezza agli
occhi di coloro che guidano, o aspirano a guidare, la potenza americana. Gli
altri, come la dimostrazione che la fase più acuta della crisi dell’euro è alle
spalle e gli americani sono meno preoccupati di un eventuale tracollo europeo.
Ma, forse, nessuna di quelle interpretazioni coglie nel segno. Come non lo
hanno colto certi commenti di parte italiana, più o meno scandalizzati, sul
modo in cui Romney ha parlato di Italia e Spagna: esempi negativi, da non
imitare. Il fatto che l’Europa non venga citata (da entrambi) o lo sia solo in
negativo (da Romney) è forse la spia di una visione strategica che, al di là
delle ovvie e profonde differenze sugli altri temi, accomuna Obama e Romney e,
con essi, la gran parte dell’establishment statunitense. Il punto non è che non
sia stata citata l’Europa. Il punto è che gli Stati Uniti hanno rinunciato a
pensare a se stessi come Stato-guida dell’Occidente democratico.
Nella fase trionfante, egemonica, della loro storia, quella
che va dalla Seconda guerra mondiale alla conclusione della Guerra Fredda (e
oltre: si spinge fin dentro il primo decennio del XXI secolo), gli Stati Uniti
sono stati il Paese leader al centro di un vasto sistema di alleanze cementato
da interessi e da esigenze di sicurezza, ma anche da una visione per la quale
la potenza americana si identificava con la sorte della democrazia nel mondo.
Delle due opposte correnti che si sono tradizionalmente disputate l’influenza
sulla direzione della politica estera americana, quella isolazionista e quella
interventista-globalista, è stata la seconda a dominare ininterrottamente il
campo dalla Seconda guerra mondiale in poi, sopravvivendo anche alla fine della
Guerra Fredda. Dell’interventismo-globalista è sempre stata parte integrante,
fin dai tempi del presidente democratico Woodrow Wilson (1913-1921) e del suo
progetto di ordine internazionale, l’idea che bisognasse rendere il mondo safe
for democracy, sicuro per la democrazia. Il che implicava due conseguenze. La
prima era che gli Usa avrebbero dovuto mantenere un rapporto privilegiato con
le altre democrazie. La seconda era che avrebbero dovuto favorire, ovunque
possibile, la diffusione della liberaldemocrazia. A differenza degli
isolazionisti, gli interventisti-globalisti non hanno mai creduto che fosse
nell’interesse dell’America coltivare le virtù democratiche solo a casa
propria.
Esaurita la fase isolazionista del periodo fra le due
guerre, la concezione interventista-globalista riprese il sopravvento con
Franklin Delano Roosevelt nella Seconda guerra mondiale. E dominò l’azione
degli Stati Uniti nel Dopoguerra. La Guerra Fredda obbligò a brutti compromessi
con la realtà (l’appoggio a dittature in funzione antisovietica), ma la
direzione di marcia venne sempre confermata (salvo il parziale appannamento
nella fase più «europea» della politica estera americana, dominata da Henry
Kissinger). E ciò fornì propellente ideologico e forza morale all’azione di
contrasto al comunismo e all’Unione Sovietica. Il rapporto privilegiato con le
altre democrazie occidentali garantiva agli Stati Uniti il retroterra di cui il
suo ruolo internazionale necessitava. Quel legame, sia pure con alti e bassi,
resistette: da Ronald Reagan (il vero vincitore della Guerra Fredda) a George
Bush padre, fino a Bill Clinton. E se George Bush jr. l’aveva parzialmente
lacerato nella concitata fase del contrattacco seguito agli attentati dell’11
Settembre, poi, nel secondo mandato, anche a seguito delle difficoltà
incontrate in Iraq, aveva cercato di rimediare, ristabilendo un rapporto più
solidale, più ancorato alla tradizione, con le altre democrazie.
Con la vittoria di Obama tutto cambia. Il rapporto con le
democrazie (europee) cessa di essere una preoccupazione strategica
dell’Amministrazione. Ora sono le relazioni dell’America con l’Asia a contare.
Il realismo impone che ci si confronti con una nuova realtà mondiale nella
quale non c’è più spazio per un legame privilegiato con gli antichi alleati. È
paradossale il fatto che in Europa l’elezione di Obama sia stata accolta con un
entusiasmo che è forse lecito definire fuori misura, proprio nel momento in cui
l’Europa usciva dall’orizzonte politico del governo americano.
La personalità politica di Obama si combina con gli effetti
della crisi economica nel favorire radicali discontinuità sul piano
diplomatico-politico. La democrazia cessa di essere una bussola utile a
orientare l’azione internazionale. Lo stesso pragmatismo che guida l’azione di
Obama in politica interna ne ispira la politica estera. Prendendo atto dei
cambiamenti intervenuti, ciò che per lui l’America deve fare è rafforzare la
cooperazione con la Cina, aprire un dialogo con l’Islam (discorso del Cairo del
giugno 2009) a prescindere dalla natura politica delle forze che lo agitano,
stabilire rapporti di cooperazione con chiunque sia disposto a cooperare.
Niente più alleanza delle democrazie come retroterra e sostegno della azione
americana nel mondo. La fase dell’interventismo-globalista si è conclusa. Obama
in variante democratica, e Romney in variante repubblicana, sembrano
espressioni del nuovo isolazionismo americano. Un isolazionismo diverso da
quello degli Anni 20-30 del secolo scorso, che deve comunque fare i conti con
la globalizzazione e, quindi, con la necessità di cooperare con tutti gli Stati
che contano. Un isolazionismo che si sbarazza, come se fosse ciarpame
ideologico, della dimensione ideale propria della lunga fase
interventista-globalista. È una presa d’atto, complice la crisi economica, del
declino americano. Ma è anche un acceleratore di quel declino.
Si consideri quanto magri siano stati i risultati
dell’Amministrazione Obama. Le relazioni con la Cina restano complesse come
sempre: del tipo né con te né senza di te. I rapporti con l’Islam sono stati
improntati a opportunismo e a navigazione a vista. Obama rifiuta di appoggiare
i giovani iraniani in rivolta contro la teocrazia persiana nel 2009. Poi, preso
alla sprovvista, come tutti, dalle cosiddette rivoluzioni arabe, abbandona
l’alleato Mubarak per ingraziarsi le piazze arabe, ma senza preoccuparsi del
dopo Mubarak, appoggia l’intervento armato, voluto da francesi e inglesi,
contro Gheddafi ma è privo di una strategia di fronte alla guerra civile
siriana. È altrettanto duro del suo predecessore nella lotta agli estremisti
islamici ma si tratta di una caccia all’uomo, spesso militarmente efficace, che
non è guidata da una visione politica d’insieme. E l’annuncio, troppo precoce,
della data del ritiro dall’Afghanistan, demoralizza i combattenti e crea le
premesse per un fallimento degli obiettivi di guerra che erano stati propri
delle forze occidentali in quel teatro. La «mano tesa» del discorso del Cairo
non porta ai risultati voluti.
L’America che decide di non essere più il leader
dell’Occidente democratico, che sceglie gli interlocutori solo sulla base della
loro forza e delle proprie convenienze, è più forte o più debole di prima? Più
debole, sembra indicare il primo mandato di Obama. È un’America rassegnata, che
sceglie di liberarsi, come se fosse una zavorra, della antica relazione
speciale con le altre democrazie occidentali, immaginando un futuro multipolare
in cui, politicamente ridimensionata, dovrà muoversi solo per suo conto, a
prescindere dal destino di quelle democrazie e dell’antica idea-forza di un
mondo safe for democracy.
Si tratta, plausibilmente, di un calcolo che, assecondando
troppo gli umori del pubblico americano, accelera il declino. Quanta più forza
avrebbe l’azione dell’America se essa non abdicasse al suo ruolo di leader del
mondo occidentale? Si noti poi un aspetto che ci riguarda da vicino. Quanto più
la leadership americana si affievolisce, tanto più si indebolisce la
solidarietà fra gli europei (molti sono immemori del fatto che senza la Pax
Americana non ci sarebbe mai stato alcun processo di integrazione europea). Ma
se l’Europa affogasse nei suoi dissidi interni, oltre che un guaio per noi
europei, ciò sarebbe, alla fine un guaio anche per l’America.
Contrariamente a ciò che pensano coloro che hanno una
concezione determinista dei processi storici, il declino americano, e
soprattutto le sue modalità e i suoi tempi, non hanno alcun carattere di
ineluttabilità. Il declino può essere contenuto o accelerato a seconda delle
scelte che si fanno e delle visioni che le ispirano. Né Obama né Romney
sembrano avere la statura per comprenderlo.
Puntuale ed acuto Panebianco, ma anche un po' presuntuoso. UNCLE
RispondiEliminaZio, conosci editorialisti famosi che non lo siano ? Io no.
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