I lettori mi perdoneranno di questa full immersion americana, ma ormai siamo a due giorni dal election day . Il 6 novembre si eleggerà il Presidente di quella che, ancora oggi, è la Nazione più potente del mondo. AI tempi della Guerra Fredda era una cosa che ci coinvolgeva molto di più. Ora le due sponde dell'Atlantico si sono allontanate, l'Europa per gli USA ha perso importanza strategica ed economica, pur essendo ancora un continente ricco (ma in declino) , mentre per noi loro sono concorrenti sui nuovi mercati dove l'occidente spera di trovare milioni di nuovi consumatori. Come spesso (sempre per alcuni) , è l'Economia che detta le alleanze, e gli interessi dei due grandi continenti occidentali hanno oggi più punti divergenti che di contatto. Questo non vuol dire che rapporti e contatti non siano numerosi ed essenziali, ma non sarà un caso che nell'intera campagna elettorale, tradizionalmente poco centrata sulla politica estera, l'Europa sia stata decisamente poco rilevante, al punto che nell'ultimo dibattito tra Obama e Romney , che pure proprio sulle questioni internazionali era principalmente incentrato, di Unione Europea e dei suoi membri non si è detta una sola parola.
Nonostante questo, se mai arriverà un tempo in cui veramente il nuovo continente sarà così poco rilevante da lasciarci indifferenti alle sue elezioni presidenziali, quel giorno non è ora.
Ed infatti tutti i giornali nazionali più importanti intensificano i servizi sugli USA. Tra questi, ho letto il fondo di Mario Deaglio, sulla Stampa. Deaglio è un professore di Politica Economica , di cui conosco meglio i parenti : la moglie, il Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e il fratello, il giornalista Enrico. Se uno dovesse valutarli da questi legami, rinuncerebbe a leggere. E forse avrebbe ragione.
Ma io mi vanto di essere uno che cerca di leggere QUASI tutti (lo confesso, la lettera della Camusso scritta oggi al Corsera non ce l'ho fatta...) e faccio bene. Ascoltare, leggere in questi casi, anche coloro che sospetti non condividere il pensiero può essere arricchente, fornire uno spunto, un'idea che non avevi.
Ecco, il segreto è l'"ascolto". Più che il "confronto". Ma ci torneremo.
Deaglio prende le mosse dall'implicito biasimo di Romney per l'Italia, laddove ha ammonito gli americani che, votando Obama, forte sarebbe per loro il rischio di fare la fine "nostra".
Capisco che non faccia piacere. Però da qui a leggere che siamo NOI a dover temere di diventare come loro...beh mi sembra un eccesso di patriottismo. E, come ho già scritto, questo amore italico spunta fuori sempre e solo quando gli altri ci criticano. Perché in genere siamo degli ottimi fustigatori di noi stessi (con molte ragioni ahimè ). Ah, c'era un tempo quando il mondo ce ne poteva dire di tutti i colori e noi tacevamo. Inutile ricordare quando e perché, non è passato molto tempo.
Buona Lettura
“Speriamo di non finire come gli Usa”
Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti,
Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia
di finire come l’Italia.
Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire
come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy – per quanto correttamente
gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 – ha posto in
luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior
centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto
per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.
Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno
lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano
indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di
78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di
21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia,
scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento
del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento.
Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare
iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata,
un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali.
Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente
trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del
prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito
del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà,
come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più
complicato dalla crisi.
Contrariamente a quanto può far credere una lettura
ottimistica dei dati, gli Stati Uniti non sono ancora fuori dalla crisi. La
cura nella quale gli americani ostinatamente persistono, ossia la
«fabbricazione» di nuova liquidità da parte della banca centrale, riesce a
tenere a galla l’economia ma non a farla veramente ripartire. Le vendite di
autoveicoli, tanto per fare un esempio, sono in ripresa ma ancora lontane dalle
cifre degli anni dei record. Gli investimenti sono del 15 per cento sotto i
livelli precedenti la crisi (quelli in abitazioni risultano inferiori di oltre
metà ai massimi del 2005). Il prodotto lordo è cresciuto ma meno velocemente
della popolazione – per cui il potere d’acquisto medio degli americani nel 2011
è risultato ancora inferiore a quello del 2007 – e più velocemente
dell’occupazione. Per questo il numero dei disoccupati scende soprattutto
perché molti americani scoraggiati smettono di cercar lavoro; la diseguaglianza
dei redditi continua inoltre ad aumentare, creando un divario che rischia di
inghiottire la classe media.
Il tavolo di Obama o Romney sarà quindi piuttosto ingombro
di problemi, e il nuovo Presidente dovrà mettersi al lavoro subito perché il
cosiddetto «precipizio fiscale» è dietro l’angolo. A fine anno terminano
infatti importanti sconti fiscali e, in assenza di un accordo con il Congresso,
in un Paese in cui il tetto del debito pubblico è fissato per legge, oltre
all’inasprimento fiscale, potrebbero scattare, in maniera quasi automatica,
anche tagli «lineari» alla spesa pubblica che in poco tempo metterebbero in
ginocchio l’economia degli Stati Uniti e si ripercuoterebbero pesantemente
sull’intera economia mondiale. Naturalmente nessuno pensa che il Congresso sarà
così miope, ma il Fondo Monetario Internazionale ha già lanciato l’allarme:
evitare di cadere nel precipizio sarà il primo compito di chi lavorerà
nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca, tradizionale luogo di attività del
Presidente degli Stati Uniti.
Questa tempesta potrà essere evitata, ma l’economia
americana rimarrà con i suoi problemi di fondo, aggravati dalle preoccupazioni
borsistiche. La caduta di circa il 10 per cento nelle quotazioni di Google nel
mese di ottobre è un segnale d’allarme sul fronte di Internet che si aggiunge
al disastro della quotazione di Facebook e a un certo numero di risultati poco
lusinghieri di altre grandi società nel terzo trimestre; è quindi legittimo
avere dei dubbi sull’effettiva capacità della nuova informatica di creare
grandi profitti. Un equilibrio precario, insomma, un insieme di interrogativi
che sono stati incautamente accantonati nel corso della campagna elettorale e
ai quali il nuovo Presidente dovrà dare una risposta in tempi estremamente
brevi.
L’Europa è stata quasi assente dal dibattito della campagna
elettorale, se si eccettuano le accuse rituali – e largamente gratuite –
all’euro che, con la sua particolare crisi, secondo il presidente Obama,
sarebbe la causa dell’attuale rallentamento dell’economia. Si dovrebbe
ricordare al Presidente la vecchia massima secondo la quale si vede facilmente
la pagliuzza nell’occhio del vicino e si ignora la trave nel proprio. Forse
sarebbe un bene per tutti, senza che con questo si voglia fare alcuna
recriminazione o attribuire colpe, che il vincitore delle elezioni del 6
novembre si rendesse conto che la crisi è essenzialmente una crisi del sistema
americano e che i rimedi devono partire dall’America. (interessante questa teoria. mi sarebbe piaciuto che il professore l'avesse spiegata oltre che enunciata ndC)
Detto questo per gli europei sarebbe leggermente preferibile
una vittoria elettorale di Obama: entrambi i candidati, infatti, hanno avuto
scarsi contatti con l’Europa e non sembrano nutrire al suo riguardo alcuna
particolare simpatia. Obama e la sua squadra, tuttavia, hanno avuto quattro
anni per imparare a collaborare con l’Europa. Se invece vincesse Romney, con i
suoi orizzonti pressoché esclusivamente americani, si dovrebbe ricominciare
tutto da capo, con il rischio di nuove incomprensioni.
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