Credo sia interessante, ancorché sempre piuttosto complessa - caratteristica dell'autore che ha nella profondità la sua qualità precpua, in genere a scapito della semplicità e della immediata chiarezza - , l'analisi odierna di Adriano Sofri sul concetto di PERDONO, al termine in particolare di guerre e dittature.
Il concetto di perdono è molto difficile per quanto la parola sia abusata, essendo l'istinto di vendetta assai più naturale e più forte.
Io rimasi molto colpito dalla frase - citata da Anais - che definiva la GIUSTIZIA come la VENDETTA che RINUNCIA.
( Max Horkheimer)
Trovo che abbia una sua suggestiva verità.
Attratto dal tema PERDONO - VENDETTA, non potevo non leggere quindi il contributo di Sofri, che vi propongo.
CHE COSA FARE DOPO GUERRE E DITTATURE
Ci
sono paesi sequestrati dal proprio passato. In Kashmir si fanno guerra
India e Pakistan, due potenze atomiche (tre, con la Cina). Il governo
turco non riesce a pronunciare il genocidio degli armeni. La battaglia
di Kosovo Polje, 1389, divide i serbi dai kosovari come se fosse
avvenuta ieri. Sui rapporti fra Cina e Giappone pesa come un macigno il
rifiuto giapponese di riconoscere lo “Stupro” di Nanchino, 1937-38. Che
cosa si fa quando una guerra fra gli Stati, o una guerra civile, o una
tirannide, finiscono, per preparare una nuova convivenza? La questione
antica mette in causa coppie di contrari. La vendetta fu un primo passo
verso la giustizia, e ne divenne poi la negazione. Ma qual è il
contrario della vendetta, il perdono o la giustizia? Per Gesù, il
perdono: “Fu detto: Occhio per occhio e dente per dente… Io dico di
perdonare non fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Ma il
perdono è della vittima, e di nessun altro in suo nome. La giustizia
esercitata per conto della società è un’altra cosa. Leggo una citazione
di Yosef Hayim Yerushalmi: “E’ possibile che il contrario di oblio non
sia memoria, ma giustizia?” L’oblio è oltraggioso, ma anche la memoria
può soffocare. Nei paesi in cui ci si misura con il trapasso dall’abuso e
la violenza alla democrazia si sono scelti soprattutto i nomi di verità
e riconciliazione. La verità allude alla memoria e alla giustizia,
senza esaurirle. La riconciliazione allude al perdono, senza usurparne
intimità e gratuità. Si chiamò così, prima, nel Cile dopo la sconfitta
di Pinochet (quella del film NO). Poi fu la volta dell’Argentina, dove
però si chiamò Comisión nacional sobre la desaparición de personas”. In
un caso e nell’altro si ebbe fretta di sigillare i risultati (parziali
ma agghiaccianti) con provvedimenti di impunità. In Argentina, la legge
che metteva un “Punto final” al perseguimento dei crimini, nel 1985, ha
aspettato vent’anni d’essere dichiarata incostituzionale. La Commissione
era presieduta da Ernesto Sábato (nel paese delle Madri, contava una
donna su 13 membri). Fu in Sudafrica che la Commissione per la Verità e
la Riconciliazione, tra il 1995 e il 1998, si guadagnò una risonanza
esemplare. Non soppiantava i tribunali, ma li relegava al compito
proprio della giustizia penale. Prometteva l’amnistia in cambio della
verità (con la manica stretta: 7112 domande, 849 accolte, rigettate
5392). Nel tribunale i protagonisti sono giudici e imputati, le vittime
aspettano. Nella Commissione potevano finalmente raccontare,
riconoscersi autrici della nuova comunità. Furono ascoltate 22 mila
testimonianze di vittime delle violenze politiche degli anni fra il 1960
e il 1993, e 7 mila confessioni. La pena è personale, come il
risarcimento della vittima, la conciliazione è collettiva, riguarda il
bene comune. Tutto il paese guardava e ascoltava. C’è un famoso poemetto
di Ingrid de Kok, “Quel che bisogna sapere del dolore”: “L'arcivescovo
presiede la prima udienza. Il primo giorno, dopo poche ore di
testimonianze, l'arcivescovo ha pianto. Ha appoggiato il capo grigio Sul
lungo tavolo Di carte e protocolli E ha pianto. Cameramen nazionali E
internazionali Hanno ripreso il suo pianto, Le lenti appannate, le
spalle singhiozzanti, La richiesta di aggiornamento”. L’arcivescovo era
Desmond Tutu. (In molti paesi le Commissioni sono presiedute da
religiosi: in Cile la commissione “sulla prigionia politica e la
tortura”, con monsignor Valech, in Perù col rettore della università
pontificia, Lerner, in Sierra Leone col vescovo metodista Humper, a
Timor Est col vicepresidente padre Araujo). Il vice di Tutu, Alex
Boraine, ha raccontato: “Tutu era così ansioso che queste persone, che
avevano sofferto in modo inverosimile, perdonassero, che quasi le
spingeva. Alla fine di una sessione, ho discusso con lui. Sosteneva che a
noi spettava di aiutare queste vittime a perdonare. Gli ricordai la
storia di una donna cattolica dell’Irlanda del Nord, che alla fine si
era rivolta al suo prete: ‘Per favore, la smetta di dirmi di perdonare.
Io ora devo fare i conti con la mia rabbia, la mia sofferenza e quello
che ho perso in questo conflitto. Verrà il momento in cui sarò pronta a
perdonare, ma non adesso’. Tutu era un uomo straordinario, capì
immediatamente e non cercò più di spingere una vittima a perdonare i
carnefici”.
L’esperienza della TRC è stata mitizzata, come succede.
Che un grande paese sull’orlo di una guerra civile ne sia uscito in
pace, con un patrimonio di verità enunciata –dall’una e dall’altra parte
- è un grande acquisto. La “riconciliazione” ha dato meno frutti, e del
resto è un concetto, a declinarlo in positivo, che sfuma nella
giustizia sociale. Ma resta un’aspirazione decisiva per uscire dal
vicolo cieco dell’odio e del rancore. Non era un modello al tempo in cui
il mondo usciva dalla Seconda Guerra. Norimberga –che fu giustizia dei
vincitori, e dentro limiti giuridici inadeguati, e contribuì a
concentrare sui capi una responsabilità larghissima - inaugurò la
ricerca di una giustizia internazionale, e la Germania seppe farla
fruttare negli anni a venire. L’Italia della “Norimberga mancata”
(Battini) fu invece la sede della prima amnistia del dopoguerra europeo,
giugno 1946, e non cessò più di evocare, anche in parodia, il copione
della guerra civile e della pacificazione...
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