Sono tante le ragioni compiutamente spiegate da vari e autorevoli analisti che sconsigliano decisamente un attacco americano in Siria. Oggi anche Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera.
In buona sostanza, Assad è un dittatore sanguinario, come lo erano Saddam e Gheddafi (meno Ben Alì e Mubarak, ma sempre autocrati). Su questo non si discute. Forse, se l'Occidente fosse intervenuto subito in maniera risoluta, quando la repressione del capo di Damasco aveva messo in campo l'esercito contro la crescente protesta, poi sconfinata in ribellione e ora guerra civile, le cose non sarebbero arrivate a questo punto, ma di questo non c'è nessuna controprova. Quello che è certo, è che da quelle parti la democrazia è cosa che non esiste ne è esportabile, quindi tolto di mezzo Assad, come è accaduto per i suoi colleghi, i paesi restano preda di una guerra tra bande (Libia), o tra etnie religiose diverse (sciiti e sunniti), con infiltrazioni di terroristi islamici.
Insomma, non se ne viene a capo. Tanto vale, lasciare che continuino ad ammazzarsi tra di loro, limitandosi a predicare continuamente, e vanamente, che gli eccidi cessino, che si giunga ad un armistizio e poi ad un negoziato.
Molto, molto realpolitik. In Jugoslavia non andò così, ad un certo punto Clinton si stancò dei massacri, gli autori di Srebrenica e Sajevo sono stati giustamente puniti e la Serbia si avvia a entrare nell'Unione Europea.
Ma dicono che la situazione non è paragonabile e sicuramente è vero. Solo una cosa.
Facciamola finita con gli appelli umanitari, con l'occidente che non può tollerare la morte di civili, donne e bambini.
Possiamo accettare TUTTO.
In fondo, per quelli proprio più sensibili, basta cambiare canale.
SIRIA, IL NO INGLESE ISOLA L'AMERICA
La fragilità delle potenze
Il no del Parlamento britannico a un intervento militare del Regno Unito in Siria rende il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ancora più solo, e più debole, di fronte alla decisione che (forse) sta per prendere. C'è un solo argomento forte a favore dell'intervento militare americano in Siria. Ma ce ne sono tanti altri a sfavore. L'argomento a favore è che, a causa degli errori commessi nel corso del tempo, se Obama rinunciasse ad attaccare la Siria azzererebbe la già scarsa credibilità degli Stati Uniti. Gli avversari, dall'Iran alla Russia, e gli alleati, dalla Turchia all'Arabia Saudita, lo aspettano al varco, vogliono vedere se l'America è ormai solo una tigre di carta. Quando, non sapendo che pesci pigliare in Siria, e per procrastinare le decisioni, Obama dichiarò che non avrebbe tollerato l'uso di armi chimiche, si mise nelle mani di Assad, il dittatore siriano. L'uso del gas c'è stato (o così sembra) e Obama adesso non sa come fare a tirarsi indietro. Si aggiunga che la vicenda egiziana è stata per l'Amministrazione una bruciante sconfitta diplomatica. Obama ha il problema di ricostruire almeno un po' della perduta credibilità.
A fronte di questo argomento a favore dell'intervento, ce n'è una lista intera che lo sconsiglierebbe. Cominciamo dal più importante. Le guerre devono avere chiari obiettivi politici. E qui l'obiettivo proprio non si vede. Non è vero che l'attacco americano in Siria andrebbe collocato nell'ambito delle cosiddette «guerre umanitarie» come la Somalia (1992-93) e il Kosovo (1999). Le guerre solo umanitarie non sono mai esistite. In Somalia (senza successo: l'America fu costretta al ritiro) e in Kosovo, gli Stati Uniti intervennero non solo per salvare popolazioni ma anche con un obiettivo politico: l'unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda mandava a dire alle teste calde sparse per il mondo che essa non avrebbe tollerato il caos. Ricondurre all'ordine, con la forza delle armi, singole situazioni locali era un mezzo per bloccare le minacce all'ordine internazionale. Ma in Siria non c'è un ordine locale da ricostituire, la situazione è sfuggita di mano. In Siria si affrontano bande di tagliagole. Un intervento militare contro una delle bande in lotta o rafforza la banda contrapposta, magari portandola alla vittoria, o accresce ancor di più il caos e il numero di vittime. Fare guerre in cui non possono esserci chiari obiettivi è un errore. Persino nella guerra di Libia francesi e inglesi un obiettivo politico lo avevano: sottrarre agli italiani l'influenza sul Paese.
Si aggiunga che l'opinione pubblica americana è contraria all'intervento. Una democrazia che va alla guerra senza avere dietro di sé l'opinione pubblica è indebolita in partenza. Basta un «incidente», per esempio un massacro non voluto di civili, o un attentato di risposta che uccida un certo numero dei propri soldati, e subito i governanti della democrazia in guerra si trovano in gravi difficoltà a casa propria.
C'è poi il fatto che nelle guerre è difficile calibrare la forza e prevederne gli effetti. L'intervento americano in Siria dovrebbe essere così efficace da rappresentare una vera punizione per il regime siriano (e un deterrente contro futuri usi del gas) ma non così efficace da aprire la strada alla vittoria dei suoi nemici. Più facile a dirsi che a farsi. A meno che Obama (senza dichiararlo) non stia pensando a un regime change, l'eliminazione di Assad e la sua cricca, magari per compiacere sauditi e turchi. Per cosa? Per consegnare il potere ad Al Qaeda e ad altri gruppi jihadisti?
L'America avrebbe dovuto decidere il che fare in Siria molto tempo fa, nella fase iniziale della guerra civile. Se fosse intervenuta allora avrebbe potuto esercitare una influenza forte sui ribelli, e avrebbe potuto colpire, oltre che il regime, anche le formazioni qaediste prima che consolidassero il loro controllo su importanti porzioni del territorio. Oppure, avrebbe potuto dichiarare subito, senza ambiguità, che in uno scontro fra il radicalismo sunnita e quello sciita non aveva intenzione di prendere partito. Da più parti si è accusato di cinismo il politologo Edward Luttwak per il quale non conviene all'Occidente schierarsi. Ma in politica internazionale la scelta, per lo più, non è fra il bene e il male ma fra un male minore e un male maggiore.
In Siria l'Iran si sta dissanguando e, finché Assad resiste, la partita per l'egemonia regionale fra iraniani e sauditi resterà aperta. Così come la competizione sotterranea fra le potenze sunnite: con la Turchia e il Qatar che appoggiano, anche in Siria, i Fratelli Musulmani, e i sauditi schierati con i salafiti. Prima o poi, se l'equilibrio non verrà alterato sui campi di battaglia, dovrà essere siglato un armistizio. Non è forse l'unica soluzione possibile? Per non parlare delle imprevedibili ripercussioni di un intervento americano in Siria sugli equilibri libanesi, giordani, iracheni, o sulla competizione fra pragmatici e intransigenti entro la classe dirigente iraniana.
Sembra saggia la decisione dell'Italia di tenersi fuori, di non accodarsi, questa volta, ai soliti francesi (sempre a caccia della Grandeur , soprattutto quando i sondaggi sono sfavorevoli al presidente in carica). Secondo un vecchio adagio, sono due le ragioni per le quali un uomo (o un gruppo di uomini e donne) fa qualcosa: una buona ragione e la ragione vera. La «buona ragione» dell'Italia è il richiamo all'Onu e alla cosiddetta legalità internazionale. La «ragione vera» è che il disastrato governo delle larghe intese non reggerebbe a un intervento militare. Per una volta, la ragione vera del non intervento italiano sembra stare dalla parte della ragione.
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