SOFRI : IN SIRIA UN'AZIONE DI POLIZIA CHE SEPARI I CONTENDENTI
Ho riportato l'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera che ho trovato sensato, ancorché sconsolante.
Nulla si può ormai fare, le cose sono andate troppo in là, la linea dei buoni e dei cattvi, sempre difficile da trovare, è ormai scomparsa.
Dunque astenersi da ogni azione diretta, insistere indefessamente con pressioni non militari, confidando di arrivare prima ad un armistizio e poi ad un negoziato.
Ho letto poi l'intervento, sullo stesso argomento, di Adriano Sofri, il quale auspica una terza via, difficile certo, ma forse con qualche possibilità in più di realizzare l'obiettivo di limitare la quotidiana strage di gente innocente. Sofri invoca un'azione di "polizia", che non è l'intervento finalizzato ad appoggiare uno o l'altro contendente, piuttosto quello di aiutare e proteggere le popolazioni inermi. In che modo però realizzare questo intervento ? A Sarajevo Clinto diede ordine di bombardare le postazioni serbe che cingevano d'assedio la città finché non si fossero ritirate. Riuscì nell'intento. Ma in Siria ? Si bombardano le forze assedianti ? Dell'uno e dell'altro fronte ? E quando lo scontro è ormai dentro i centri abitati ? Questi e altri interrogativi vengono in mente, e francamente è arduo trovare risposte convincenti.
Resta, di fronte ad immagini di cudeltà impressionante, il pensiero che qualcosa vada fatto, che non sia lecito lasciare che le cose continuino così.
Perché, come conclude Adriano Sofri, nelle guerre civili, lasciare che "si ammazzino tra di loro" non vede solo la morte dei contendenti, l'uno contro l'altro armati. A pagare di più sono gli inermi, e in particolare donne e bambini.
La Siria e il mondo
Dunque i parlamenti hanno ancora una loro parola. Cameron, “umiliato”,
ha subito dichiarato che vi si atterrà. Non era mai successo, dicono,
che primo ministro e Camera dei Comuni si fossero contrapposti su una
questione “di guerra”. Be’, era ora, e non per un gioco di schieramenti
costituiti. I tory che votano contro il loro premier, i laburisti che
sconfessano inesorabilmente la decisione cui Blair li trascinò in Iraq,
sono una dimostrazione straordinaria di autonomia del parlamento e dei
suoi membri. E inaspettata: perché non solo in Italia, dove il
parlamento si nomina come un casting da avanspettacolo, una democrazia
esausta ha abituato a credere che le decisioni si prendono, e i
parlamenti, come l’intendenza, seguiranno. Alle Nazioni Unite non può
avvenire, per statuto. E lo stato del mondo sconsiglia di considerare
l’Assemblea generale alla stregua di un parlamento nazionale. Ma in
democrazia il passaggio da un voto parlamentare che non sia la ratifica
gregaria, e che esiga d’essere informato, è una condizione essenziale.
Tanto più su un tema che l’inerzia di due anni e mezzo ha reso
enormemente più arduo, perché ora si fronteggia una guerra civile, nella
degradazione di tutte le parti e nella disperazione di chi non ha parte
né casa. Occorre riflettere ai termini nuovi del problema. La guerra
civile è la nuova, contagiosa strada che prende la transizione politica,
nei paesi già coloniali. Nella guerra civile viene giuridicamente, e
definitivamente, superato il confine della sovranità nazionale, anche
per chi non lo volesse creder umanamente, cioè moralmente, superato
dalla brutalità del sovrano contro i suoi sudditi o una loro parte.
Perché la guerra civile delegittima il sovrano senza legittimare il
ribelle, come nelle sognate insurrezioni contro una tirannide, che
mettono il popolo da una parte e la corte dall’altra. Nella guerra
civile svanisce l’autorità, nemmeno quel dualismo di potere che un tempo
si vagheggiava come una tappa verso un potere nuovo; e gli uni e gli
altri –e le ulteriori divisioni dentro altri e uni- non sanno se non
odiare e distruggere. Dall’esterno, questo modifica radicalmente la
ragione di ogni intervento: non è un caso che non si sappia contro e in
favore di chi intervenire, e specialmente in favore di chi, avendo il
tiranno la responsabilità di una lunga prepotenza -43 anni di
“repubblica”, fra padre e figlio- rinnovata nel sangue. Non si
interviene per “liberare” un paese, ma per separare i contendenti e
proteggere le vittime di ambedue (o tre o quattro…). Esattamente come in
ogni azione di polizia, che non interviene a distribuire ragioni o
torti, ma a impedire che continui la commissione del delitto. Dunque si
riconosca intanto, proprio se si sostiene che non vi siano buoni e
cattivi, che una polizia è urgente. Poi i riluttanti passeranno ad
addurre che una polizia internazionale non esista. E’ vero - e fra i
motivi per cui non esiste c’è anche l’obiezione “di principio”, cioè
pregiudiziale, a che esista, mossa non da bravi anarchici, ma da
statalisti che manderebbero in galera la zia. Detto che non esiste, due
sono le conseguenze. O rinunciare a ogni misura, proclamando che non
agire sia meglio: e non agire comporta che la sequela di carneficine e
violazioni cresca come una pianta selvatica in un giardino abbandonato.
Oppure risolversi ad agire nel modo che è possibile, cioè prendendo la
strada meno dannosa, dove non si può la migliore. Fare quello che il
fine cui si mira esige, e il fine è il soccorso alle vittime e la
riduzione se non l’interruzione della violenza; e con quei mezzi che non
contraddicano il fine, cioè il maggior consenso possibile di
istituzioni internazionali, governi, parlamenti e opinione pubblica, la
più scrupolosa proporzione nelle armi impiegate, la premura estrema per
l’incolumità e la dignità delle persone di tutte le parti in causa (o di
nessuna). Questa somma di condizioni fa sì che la decisione non possa
derivare da una regola universale, ma debba ogni volta misurarsi con la
situazione concreta. Dunque con la situazione della Siria in preda a una
guerra civile il 1° settembre del 2013, che è diversa da quella della
Siria di un anno fa o di due, e fra uno o due anni, come da quella del
contesto internazionale. Da questo punto la discussione è giustificata e
necessaria: ma la necessità di un’azione di polizia e dunque di ciò che
più le si avvicini, o meno se ne distanzi, è la premessa ineludibile.
Esemplifico su me: ho invocato un intervento armato che mettesse fine
all’assedio di Sarajevo e alla strage post-jugoslava; ho creduto
necessario un intervento in Kosovo ed errato il modo in cui si attuò,
sgombrando il terreno da ogni interposizione e ricorrendo ai
bombardamenti dall’alto; sono stato dubbioso di un intervento in
Afghanistan dove una popolazione, e specialmente bambine e donne, era
lasciata in balia di un fanatismo feroce fino a poco prima foraggiato
dagli Stati Uniti; sono stato contrario all’intervento in Iraq e
all’esportazione della democrazia che pretendeva di ispirarlo; ho
auspicato un intervento in Libia che proteggesse Bengasi da un massacro
imminente. Posso aver avuto ragione o torto in ciascuna di queste
circostanze (benchè ce ne siano che non consentono dubbi postumi se non
alla malafede, come la Bosnia) ma il criterio è stato uno solo. Gli
interventi dall’esterno nel territorio di uno Stato possono chiamarsi
militari solo per la dimensione, non per la qualità. Non di “guerre” si
tratta, com’è evidente se non altro per la plateale sproporzione di
forze, ma di azioni di polizia. Le quali non sono guerre in scala più
piccola, ma del tutto altra cosa: e almeno dovrebbero. Di questo c’è
scarsissima traccia nella discussione. C’è chi indice e proclama guerre
per maschia vocazione, c’è chi per non tradire l’amore alla pace si
rassegna a star inerte davanti alla strage di innocenti. Segnano il
passo rumorosamente, guerristi e pacisti, senza che almeno i pensieri
avanzino di un metro. Le guerre civili non sono un arcaismo, sono il
frutto novissimo di regimi che hanno avuto il tempo di acquistarsi una
parte dei popoli e inimicarsene un’altra. Quando una popolazione subisce
i colpi di capi o usurpatori che nessuna legalità interna può
arrestare, diventa lecito e anche doveroso intervenire con una forza
esterna. Questa convinzione ha dato vita a un tribunale penale
internazionale, e a quello che va sotto il nome di dovere di ingerenza e
di protezione. Pur sancito internazionalmente, questo insieme di
convinzioni è tuttavia oggetto di controversie e obiezioni. Ma la guerra
civile è altra cosa, eccede la stessa, dannatissima, sovranità
nazionale. La abolisce, e insedia in suo luogo il mattatoio. Pretendere
di “rispettarne” una qualche autonomia è come stringersi nelle spalle
quando le bande mafiose si fanno guerra: “Lascia che si ammazzino fra di
loro”. E né le bande mafiose né le fazioni della guerra civile si
ammazzano fra di loro: ammazzano bambini, donne, uomini e altri animali.
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