domenica 1 settembre 2013

PER OSTELLINO, IL GIACOBINISMO DELLA MAGISTRATURA HA ORIGINE NELLA COSTITUZIONE


Salvate il soldato Montesqieu è bellissimo come incipit !
Così come bellissimo e interessantissimo è il contributo di Ostellino, che va letto con un pochino di attenzione, non trattando temi ordinari e ricorrendo a termini non sempre semplicissimi. Ma è uno sforzo che vale senz'altro la pena di fare, per comprendere il processo logico intellettuale che il valente opinionista segue per arrivare alle sue conclusioni che provo a sintetizzare così :
1) alle origini dello Stato Democratico i poteri fondanti erano DUE, non tre : Esecutivo e Legislativo, e il secondo doveva avere una posizione privilegiata, essendo espressione del consenso popolare.
2) I giudici, quindi la magistratura, non erano un POTERE dello stato, ma un organo dello stesso con una funzione indispensabile ma "procedurale". Il potere legislativo partoriva un ordinamento giudiziario, con delle norme che regolavano i rapporti dei cittadini con lo Stato e tra di loro, e i giudici avevano il compito di verificare ed eventualmente sanzionare il mancato rispetto di queste norme. FINE.
3) Lo sconfinamento odierno di questo organo dello Stato, (nei cenacoli serali tipici delle vacanze, anche i filo magistrati, purché non "travagliati" , ammettono la tracimazione della classe dei giudici, ma la giustificano come una temporanea necessità, il famoso vuoto da riempire...come se non fosse evidente che una volta preso potere, nessuno poi lo restituisce pacificamente), alla fine non può essere considerato propriamente tale, perché nella stessa Costituzione esso trae in qualche misura la sua legittimazione. Ostellino cita l'art. 3, che infatti è il grimaldello più spesso usato dai giacobini, a qualunque classe sociale siano iscritti. 
 «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Una norma di chiara matrice comunista (la Carta non ce l'ha portata Mosè dal Monte Sinai, è frutto di un laborioso e faticosissimo compromesso tra le forze politiche dominanti al tempo, e quelle liberali erano le più nobili ma sicuramente le meno forti). 
E così, quando una norma non piace alla maglietta (mal) celata sotto la toga, i giudici la tacciano di incostituzionalità (ma alcuni arrivano a disapplicarla da soli, senza nemmeno passare la questione ai Giudici delle Leggi), confidando che alla Consulta troveranno valenti colleghi dello stesso colore.
Considerazioni desolanti, ma che purtroppo non riesco a smentire. 
Comunque, da leggere

  "Salvate il soldato Montesquieu" 

Sulla questione dei rapporti fra i poteri legislativo ed esecutivo, da una parte, e l'ordine giudiziario, dall'altra, bisognerebbe, almeno, evitare di ingannare noi stessi. Invocarne la divisione e la separazione fa ottenere l'applauso di chi finge di conoscere Montesquieu, ma non ha alcun senso. Nella letteratura antiassolutistica settecentesca, e in quella democratico-liberale ottocentesca, il legislativo e l'esecutivo erano i soli poteri dello Stato (massimo quello legislativo). Oggi, l'ordine giudiziario è, da noi, identificato con la magistratura — il corpo burocratico-amministrativo di dipendenti dello Stato che si sono aggiudicati un «posto sicuro» per la vita vincendo un pubblico concorso — se non, addirittura, con un sindacato (Magistratura democratica) che, peraltro, assomiglia più a un partito politico che a un organo dell'amministrazione della giustizia. Lo Spirito delle leggi non è un manuale per studenti universitari di Giurisprudenza adottabile dal Parlamento e, se applicato, utile a realizzare meccanicamente la distinzione e la separazione fra poteri e ordine. È un trattato politico o, se vogliamo, la più sistematica descrizione del dispotismo nel quale può degenerare un sistema politico. Lo Spirito delle leggi è il complesso di fattori — filosofici, sociologici, morali, storici, persino climatici, eccetera — che, secondo Montesquieu, si concretano nella produzione legislativa. Per cercare di capire l'attuale stato dei rapporti fra i poteri dello Stato e l'ordine giudiziario che chiamiamo impropriamente magistratura — confondendo la funzione giurisdizionale con lo strumento tecnico — bisognerebbe, dunque, leggere lo Spirito delle leggi come trattato politico. Che piaccia o no, non siamo una nomocrazia — un Ordinamento giuridico che non si prefigge particolari fini — ma una telocrazia, un Ordinamento giuridico preposto al perseguimento di specifici fini e programmi. È dalla natura delle leggi o, meglio, dell'Ordinamento giuridico che le presiede che promana il conflitto. Per la cultura liberale, le leggi non dovrebbero proporsi fini e programmi etico-politici, ma essere unicamente monocratiche, regolare i rapporti privati fra cittadini e fra questi e lo Stato, punendo chi (eventualmente) le violasse; l'Ordinamento giuridico generale non dovrebbe, a sua volta, essere programmatico, indicare e perseguire un qualche programma, ma procedurale, cioè non dire «chi» governa, ma «come» si governa. La nostra Costituzione, all'articolo 3, fissa, però, fra gli obiettivi che la Repubblica dovrebbe realizzare — «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»fini perseguiti, coercitivamente, dagli Stati di socialismo reale, ma che non sono realizzabili in una «società aperta», e in una economia libera, per evidente impraticabilità materiale e formale. Così, la parte della magistratura di ispirazione neogiacobina, collettivista e dirigista, si sente in dovere non solo di esercitare una funzione di supplenza del legislativo e dell'esecutivo in materia di fini e di mezzi, ma addirittura — come è già accaduto — di intervenire, con le proprie sentenze, sugli equilibri interni alla classe politica in favore di quelle forze che interpretano più rigorosamente il dettato costituzionale.
Che piaccia o no, in punta di Costituzione, hanno ragione i magistrati politicamente interventisti e hanno torto coloro i quali ne denunciano le intromissioni politiche. Il difetto sta nel manico, ma nessuno pare avere il coraggio di dire che — per eliminarlo — bisogna mettere mano alla Costituzione

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