lunedì 26 agosto 2013

"LA SOLITUDINE DEI MODERATI". IL DESOLANTE FUTURO SECONDO GALLI DELLA LOGGIA

 
Desolante, per noi di centro destra, "moderati", avversari risoluti della sinistra statalista e radicale, quella dell'"uguaglianza" verso il basso, assistenziale e non meritocratica, lo scenario disegnato da Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale di oggi sul Corsera.
Il bravo e noto politologo parla di quell'elettorato che, nell'Italia repubblicana dei partiti di massa, cattolici e comunisti, non aveva trovata una casa unitaria, disperdendosi in piccole capanne, magari anche ben frequentate, ma politicamente marginalissime. Di qui il voto "male minore", dato, specie dagli anni 70 in poi ( la DC di De Gasperi l'avrei votata anche io, ancorché dispiaciuto del poco liberalismo dell'uomo) , allo scudo crociato. Il famoso turarsi il naso di montanelliana memoria (mai fatto, sempre stoicamente e stolidamente PLI).
Nel 1994 i liberali ebbero l'illusione che stavolta ci fosse un partito che li rappresentasse e potesse avere finalmente una forza propria, e riformatrice. Sappiamo com'è andata. Alla fine il centro destra berlusconiano non ha fatto che riproporre l'ultimo centrosinistra di Craxi, Andreotti e Forlani (CAF), e molti di noi (io nel 2008, dopo lo sconcio del governo Prodi) hanno ripreso a votare in una tristissima ottica "contro", rassegnati a che non ci fosse un "per".
C'è molta gente a sinistra che ipocritamente e falsamente dice di auspicare la fine di Berlusconi perché in Italia ci sia finalmente "una destra moderna ed europea".
In realtà confidano che sparito il Cavaliere, quella parte, che pure in Italia sarebbe maggioritaria, si disperda in tanti partitini e fazioni, così che la  minoranza di sinistra, però folta e sufficientemente compatta, non abbia più avversari.
Prospettiva fosca, ma realistica.

"LA SOLITUDINE DEI MODERATI"  

 

Se le cose continueranno a essere come sono oggi (ed è molto probabile), Berlusconi ha verosimilmente una sola via possibile per restare davvero al centro della vita politica italiana. Ma è una via che ha le tinte cupe dell'Apocalisse: andare ai «domiciliari», far saltare il governo, puntare al più presto alle elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale, vincerle. Una via non solo carica d'incognite per lui temibilissime (a cominciare dalle reazioni del presidente della Repubblica per finire con le ripercussioni sull'immagine e sulla tenuta economica del Paese), ma interamente all'insegna del «tutto o niente». E il «tutto o niente», se può sedurre la psicologia del giocatore, può anche condurre lo stesso alla rovina totale.
Esclusa l'Apocalisse non resta che il Tramonto: a oltre 75 anni di età (ma anche a 45 forse non farebbe differenza) non si può fare il leader effettivo di un partito e di un Paese nelle condizioni in cui si troverebbe Berlusconi stando ai «domiciliari». Dunque il Tramonto. E con esso la domanda inevitabile: che effetto avrebbe la scomparsa del Sole sulle sorti del Pdl? È ragionevole pensare che l'effetto sarebbe la sua virtuale dissoluzione. Un partito personale ben difficilmente riesce a fare a meno del fondatore-padrone, e Berlusconi lascia dietro di sé il vuoto, a cominciare dall'assenza di qualunque meccanismo collaudato in grado di prendere decisioni minimamente vincolanti per tutti. Esito più probabile, pertanto, una rissa inconcludente e feroce di cacicchi e cacicche minacciati di disoccupazione, di tutti contro tutti, con implosione finale del Pdl.Ma che ne sarà a questo punto della vasta area elettorale che per un ventennio si è riconosciuta nel Pdl? Oggi come oggi è difficile immaginare che essa possa essere riorganizzata e integrata da un'iniziativa che parta dal Centro. Che sia questa la sola ipotesi ragionevole non vuol dire che sia anche quella che si realizzerà. In realtà, infatti, se Berlusconi è al tramonto, sul Centro si direbbe che la luce del giorno non sia mai neppure spuntata. Dalla batosta elettorale in poi da lì non è venuto assolutamente niente; da quel giorno Casini, Monti e i loro parlamentari avvizziscono, tristemente appollaiati su un inutile dieci per cento, peraltro ormai ridottosi nei sondaggi a poco più della metà. Il tramonto berlusconiano, insomma, rischia di corrispondere per milioni di elettori, per l'area dello schieramento politico non di sinistra che vede insieme la Destra e il Centro, e che si è soliti chiamare «moderata», a una profonda crisi di rappresentanza politica. È una crisi che viene da lontano, che caratterizza in un certo senso l'intera storia della Repubblica, anche se per mezzo secolo essa è stata tenuta celata dalla presenza surrogatoria del partito cattolico, della Democrazia cristiana. Ma se ci si pensa con attenzione — Dc a parte, che aveva natura e origine diverse, e a parte le formazioni monarco-fasciste ereditate dal passato precedente — una tale area in settant'anni non ha espresso che due formazioni significative: l'Uomo Qualunque (che visse una brevissima stagione dal 1944 al 1947) e Forza Italia. Diverse per consistenza e durata ma entrambe con un fondo comune: fatto di un'insuperabile gracilità organizzativa, della inconsistenza e della contraddittorietà della piattaforma politica, del loro carattere personalistico, di una più o meno strisciante tentazione populista. E al dunque sempre dando l'impressione di un che d'improvvisato e di provvisorio, di una certa labilità, di mancanza di radici; e sempre con una classe politica raccogliticcia e mediocre. Politicamente è questo tutto ciò che sono stati capaci di esprimere i moderati italiani. Verrebbe quasi da concludere che dietro tali forze politiche non sia mai esistito e non esista ancora oggi alcun retroterra sociale. Ciò che però non è vero, naturalmente. Una società italiana moderata, un'Italia di centrodestra, esiste eccome. Ma il fatto si è che sia per abitudine che per vizio essa si tiene lontana dalla politica: non da ultimo per lo sciocco pregiudizio che se ne possa fare a meno, che la politica debba, e possa, ridursi alla buona amministrazione. La cultura e lo stile di vita di questa Italia moderata la spingono sì, poi, al coinvolgimento sociale, ma solo nella dimensione dell'associazionismo specifico (professionale e di scopo): assai meno la spingono a spendersi in quell'impegno generale nella società — tipicamente preliminare alla politica — per il quale essa non ha vocazione e non prova in genere alcun gusto. Infine, non prefiggendosi poi di cambiare il mondo, non credendolo né utile né possibile, e ricavando per giunta una certa soddisfazione dalla propria attività quotidiana, essa è perlopiù scettica verso tutte le «grandi cause» e le relative mobilitazioni. Salvo casi eccezionali non si sente a proprio agio con assemblee, comizi, ordini del giorno: tutte cose, invece, che fanno la delizia dell'Italia progressista. Per una tale metà del Paese, così pervasivamente, antropologicamente, antipolitica, il rischio è quello di identificarsi solo nella contrapposizione alla sinistra, di essere sensibile solo a questa parola d'ordine: e di trovare leader esclusivamente capaci di vellicare questa contrapposizione. Laddove, viceversa, alla debole strutturazione politica attuale dell'Italia moderata si dovrebbe, e forse si potrebbe rimediare (cominciare a rimediare), cercando di darle un fondamento in strati culturali i quali, sia pure nascosti, probabilmente esistono al fondo di gran parte di essa. Se non altro come fantasmi di un passato lontano. Un certo senso dello Stato e dell'interesse pubblico, l'idea della Nazione come vincolo di solidarietà e scudo necessario nell'arena internazionale, e poi l'orizzonte della compostezza, del saper leggere e scrivere, del giocare pulito, e sopra e prima di tutto la necessità di essere liberi in modo non distruttivo. Illusioni? Anticaglie? E perché, le idee dei modernissimi intelligentoni di Scelta civica erano per caso più interessanti o più convincenti (alzi la mano chi ne ricorda qualcuna)? E forse sono oggi più profonde e lasciano meglio sperare quelle dell'onorevole Gennaro Migliore o dell'onorevole Pippo Civati?

Nessun commento:

Posta un commento