Devo al mio Amico e Maestro, Domenico Battista, storico e fiero esponente delle Camere Penali, il piacere della lettura di un articolo di due anni fa di Guido Vitiello che bene spiega la deriva di certi uomini di sinistra, passati dalla cultura libertaria (rimasta invece nel solo campo radicale e dei nostalgici del primo Manifesto) ad una finta legalità che in realtà si traduce in giustizialismo in salsa anti berlusconiana.
Ciò li ha fatti diventare alleati, se non amici, di quelli che erano i loro avversari peggiori di ieri : i giudici.
E hanno trovato come gazzettiere ufficiale un uomo della peggiore destra, quella del west, dove la giustizia si faceva con processi sommari (se si facevano) e con la forca appesa all'albero più vicino.
Un pezzo che non avevo letto ai tempi, e che è da archiviare tra gli imperdibili del blog.
Buona Lettura
L’esercito degli sbirri avvilenti
La mutazione della sinistra anarco-chic in soldatini del verbalino
E cos’è spuntato fuori, da questa seminagione? Un corrusco esercito di petulanti, monomaniaci, insopportabili soldatini col verbalino. Grilli parlanti che mandano a mente le sue liste di proscrizione dei cattivi d’Italia, che divorano i suoi tomi come nemmeno il Giovanni dell’Apocalisse divora il libro dell’angelo. Che non riescono a condurre uno straccio di ragionamento politico senza tirare in ballo la fedina penale di questo o quel parlamentare, che diventa senza possibilità di replica “il prescritto Tizio” o “il pregiudicato Caio”. E che, soprattutto, a forza di applaudire nelle notti estive il suo teatro di narrazione itinerante su Mani pulite, hanno incorporato una visione tutta fumettistica e disneyana della storia italiana, dove c’è Zio Paperone, la Banda Bassotti e – grazie al cielo – l’incorruttibile Commissario Basettoni.
Per quanto umanamente e intellettualmente avvilente, la cosa sarebbe trascurabile se non fosse che il contagio si è diffuso dove proprio non ci saremmo mai aspettati: in quello che possiamo chiamare, in mancanza di meglio, il mondo dei bobos romani. Artisti e teatranti, cinefili e studenti di lettere o del Dams, operatori dello spettacolo (sic) e giovani scrittori che sciamano da un festival a un reading, da un reading a un book party, da un book party a una prima teatrale, e da una prima teatrale di nuovo a un festival.
E’ il mondo ai margini del quale mi capita di vivere da dieci anni, qui nel quartiere romano di San Lorenzo, roccaforte studentesca e popolare. Ma le cose non vanno diversamente a Testaccio, al Pigneto e ovunque mettano il nido i bourgeois-bohémiens della capitale. Erano, e senz’altro dicono ancora di essere, anarchici, di sinistra o comunisti libertari: i famigerati radical chic, forse troppo bistrattati, già che essere radicali è cosa buona ed essere chic lo è ancora di più. Tempo fa li si poteva vedere, alla birreria Rive Gauche o al vezzeggiatissimo Bar Marani, con sottobraccio il manifesto, giornale aristocratico e operaio, velleitario e imprevedibile, non privo d’intelligenze libertarie e perfino di qualche garantista. Oggi brandiscono come segno d’identità la gazzetta dell’estremismo piccoloborghese e del risentimento giudiziario, con i suoi titoli sottolineati in nero, le manette in copertina e quella grafica abominevole che fa apparire aggraziato perfino il mensile dell’arma dei carabinieri, e se ne stanno chini a leggere con certe ghigne di corvacci e collitorti. Non parlano che di legalità, prescrizioni, manette.
Il contagio è stato lento, ma inesorabile. Ancora pochi anni fa ti fermavano per strada perché firmassi petizioni per la grazia a Sofri. Oggi, se sentono il nome di Sofri, storcono il naso, mettono in fila qualche castroneria maliziosa sulla sua vicenda processuale (la fonte: sempre la stessa) e passano oltre. Magari se ne vanno in giro con le magliette made in Jail, della cooperativa di detenuti di Rebibbia, se però gli parli di amnistia o d’indulto ti dicono che sì, in linea di principio sarebbero pure d’accordo, ma se il prezzo è veder uscire di cella l’ultimo giapponese del craxismo, l’ultimo faccendiere o tangentista, gli dispiace tanto ma è meglio tenere settantamila disgraziati in carcere ad agosto. Però – guai a metterlo in dubbio – sono anarchici, di sinistra, comunisti poetici e libertari. I più franchi ti confessano che loro non erano così, ma vent’anni di Berlusconi li hanno incattiviti. Ma anche questo è un alibi: chiunque, quando vuole indulgere al peggio che ha in sé e invecchiare – perché di questo si tratta: irrigidirsi come un vecchio tronco – cerca un pretesto, un suo personale incendio del Reichstag, che faccia apparire il suo incarognimento come una fatalità.
Non è neppure colpa di Travaglio, beninteso: ciascuno risponde per sé del proprio rincitrullimento, o della propria conversione alla più truce destra legalitaria. Ma è certo che con il suo gessato e il suo buon uso dei congiuntivi – terra incognita per il suo grande sponsor politico – è stato un impareggiabile public relationman per rendere accettabile l’inaccettabile. Tutto si bevono, e senza batter ciglio, i vecchi cari bobos, anche quel gergo da sottocultura fascista fatto di “topi che abbandonano la nave”, anche gli insulti fisiognomici da bullo della classe, anche i nomignoli storpiati da terza media. Soprattutto, a Travaglio e ai suoi si deve un prodigio degno del cavallo di Troia, chiamiamolo pure il cavallo di Ingroia: l’aver portato in trionfo nei campi dei libertari i loro nemici giurati di sempre, i magistrati. Erano emissari del potere, anelli della catena di comando (o di repressione) che va dal ministro allo sbirro. Ora sono amiconi, da portarsi sul palco del concerto del Primo maggio, come Gherardo Colombo, o sul divanetto della Dandini, come Piercamillo Davigo, a predicare legge e ordine tra larghi sorrisi, comici e bande musicali. L’anarchico Brassens, seguìto dall’anarchico De André, affidava i magistrati alle robuste attenzioni erotiche di un gorilla scappato dallo zoo. Ora poco manca che, ascoltando “Bocca di Rosa”, i nostri libertari parteggino per i gendarmi. Sergio Staino ci aveva visto lungo, in una tavola di qualche anno fa: un inquisitore-avvoltoio (il “Beriatravaglio”) si appollaiava sulla spalla di Bobo e, seminando sospetti a mezza bocca, lo ossessionava con inciuci e dietrologie giudiziarie, finché il buon compagno era costretto a concludere: “Non sogno più il sol dell’avvenire e il mio mito non è più Che Guevara ma il giudice Borrelli”. E si chiedeva: “Sarò ancora di sinistra?”.
Così, una dopo l’altra, sono scomparse le vecchie facce – a volte balorde, spesso irritanti, ancor più spesso simpatiche e squinternate – dei comunisti libertari e degli utopisti anarcoidi, e ci ritroviamo i musacci torvi di un esercito di indignati permanenti, che non sanno, come diceva McLuhan, che l’indignazione è la strategia ideale per rivestire di dignità un imbecille. Tutto questo, se solo ne fossimo in grado, meriterebbe un nuovo “discorso dei capelli” come quello di Pasolini, che aveva visto riemergere sotto le chiome dei contestatori la galleria di ritratti del vecchio potere: “Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali”.
Creando una barriera tra sé e i padri, rifiutando un vero confronto con essi, i contestatori si erano condannati a riprodurne vizi e fattezze. Oggi le cose stanno alla rovescia: questi nuovi “capelloni” magari sono a loro volta figli di capelloni, e convinti di seguire le orme dei genitori; e invece, sotto i dreadlock e i pizzetti, sotto le camiciole eque e solidali e le maglie in cotone biologico del Nepal, stanno rispuntando certi ceffi compiaciuti e sprezzanti di giudici, sbirri e notai.
E io non posso neppure prendermi lo sfizio di affacciarmi sulla mia piazza dei Sanniti e gridare, come Eugène Ionesco nel maggio parigino, “Tra qualche anno sarete tutti notai!”. Perché, di tutta evidenza, lo sono già.
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