I lettori perdoneranno se il Camerlengo indulge ad un moto d'orgoglio nel proporre l'opinione di Michele Ainis, costituzionalista ed editorialista del Corriere della Sera , il quale oggi spiega un concetto che i fedeli del blog hanno trovato già scritto in passato e in diversi articoli : deve essere ripristinata l'immunità parlamentare come era stata prevista in Costituzione nel 1946.
Uno strumento essenziale ad un corretto bilanciamento dei poteri, oggi clamorosamente pendente a favore della casta magistratuale.
Ovviamente forcaioli, manettari e giacobini insorgeranno ma stavolta non potranno appellarsi alla solita solfa della incostituzionalità, dell'attentato alla Carta più bella del mondo e tutto il vasto repertorio che conosciamo.
L'art. 68 c'era, e prevedeva che anche solo per indagare un parlamentare bisognava richiedere l'autorizzazione al Parlamento, figuriamoci processarlo. Si violava il principio d'uguaglianza ? Pazienza, la costituzione è piena di questi compromessi, stabilendo di volta in volta il valora a cui dare priorità. In questo caso, sottrarre gli eletti dal popolo dalla trappola della denuncia penale di avversari di qualsivoglia genere era reputato prioritario. Del resto, determinati privilegi sono rimasti a favore del Capo dello Stato, e si potrà anche gridare all'"ingiustizia" ma non certo all'incostituzionalità, visto che è la Costituzione a prevederli.
Nel 1993, sull' onda del giacobinismo furente innescato dai furbi inquirenti di tangentopoli (tre su cinque hanno dismesso la toga sfruttando, due in politica uno nella società civile, facendo congressi e conferenze per ogni dove, la popolarità acquisita ), l'immunità fu drasticamente ridimensionata, e la tracimazione giudiziaria, già in corso, è divenuta imbattibile.
Forse è anche per questo che di riforma della giustizia si parla sempre, anche nei governi di centrosinistra, e poi non si fa MAI ?
Buona Lettura
"La Giustizia e l'autogol della Politica sull'immunità"
Il conflitto tra politica e giustizia è il frutto avvelenato della Seconda Repubblica. Ce lo trasciniamo dietro da vent'anni, ma non se ne vede mai la soluzione. Per forza: a mettere pace servirebbe una riforma di sistema, invece tutti pensano a «sistemare» (in un senso o nell'altro) Silvio Berlusconi. Ed è un errore, perché questa baruffa tra poteri dello Stato è cominciata prima che lui scendesse in campo. A occhio e croce questa baruffa continuerà anche dopo, quando Berlusconi sarà uscito dal campo. A meno che non riusciremo a separare i due pugili sul ring, giudici e politici. Dopotutto è la vecchia idea di Montesquieu, su cui abbiamo edificato il nostro Stato di diritto: «che il potere arresti il potere». Ma in Italia non c'è separazione fra politica e giustizia. C'è piuttosto un condominio, un territorio di competenze sovrapposte. Quando è successo? E come? Con una doppia revisione costituzionale, battezzata durante Tangentopoli. Nel 1992 venne pressoché reciso il potere di clemenza delle Camere: da allora serve la maggioranza dei due terzi. Significa che è più facile correggere la Costituzione (dove basta la maggioranza assoluta) che sfollare le carceri attraverso un'amnistia. E infatti nei 21 anni successivi ne abbiamo celebrata una soltanto (l'indulto del 2006), quando nei 150 anni precedenti ne erano state concesse 333, oltre un paio l'anno. Insomma, per castigare l'abuso abbiamo finito per vietare l'uso. Ma al tempo stesso il Parlamento ha perso l'ultima parola sulla giustizia dei reati e delle pene, decretando il primato della magistratura. Poi, nel 1993, interviene la resa. Quando la politica riscrive l'articolo 68, rinunziando alle vecchie immunità. Nel testo dei costituenti c'era l'autorizzazione a procedere, ossia il visto obbligatorio delle Camere per sottoporre a processo penale ciascun parlamentare; e c'era l'autorizzazione agli arresti, anche in seguito a una sentenza definitiva di condanna. Insomma, con le vecchie regole sul caso Berlusconi avrebbe deciso il Parlamento. Ma al di là di Berlusconi, con le vecchie regole ogni potere aveva la sua regola. Certo, a dirla così rischi il linciaggio. Non è forse vero che l'immunità parlamentare offende il principio d'eguaglianza? Vero, ma nessuno potrà mai tacciarla come un'idea incostituzionale, dato che a concepirla furono i costituenti. Anzi: relatore era Mortati, il maggiore fra i nostri costituzionalisti. E l'idea a sua volta replica una pagina di storia. Quando nel 1790 venne incriminato il deputato Lautrec, l'Assemblea nazionale francese reagì con un decreto: i parlamentari potranno essere arrestati «conformemente alle ordinanze» deliberate dai medesimi parlamentari. Da qui il rafforzamento delle assemblee legislative, da qui una diga fra politica e giustizia. Ecco, è di quella diga che c'è ancora bisogno. Magari con qualche variante in corso d'opera, per evitare gli abusi passati: un tempo certo per decidere da parte delle Camere (altrimenti l'inerzia si trasformerà in consenso tacito all'autorizzazione), una motivazione congrua sul fumus persecutionis, l'interruzione della prescrizione. D'altronde in ultima istanza resterebbe pur sempre la Consulta. Invece adesso ci resta solo un po' di nostalgia per i bei tempi andati. Succede per le immunità, succede per la legge elettorale, dove in tanti rimpiangono il vecchio Mattarellum. D'altronde se mettessimo a confronto la Costituzione timbrata nel 1947 e quella sfigurata da 15 restyling, difficilmente premieremmo la seconda. Si stava meglio quando si stava peggio.
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