sabato 28 settembre 2013

HA RAGIONE OSTELLINO : GRATTA GRATTA, SOTTO L'ANTIBERLUSCONISMO, TROVI L'ILLIBERALISMO.


Com'era da immaginare, l'appello di PIero Ostellino della settimana scorsa perché gli opininionisti e gli autori di stampo Liberal (che NON è liberale) prendessero posizione contro la violenza verbale degli inquisitori a caccia dei "servi di Berlusconi", che per essere tali basta non essere contro il Cavaliere, sempre e comunque, che questo vuole la fede, è andato pressoché deserto. Si è levata la voce  a di Marcello Veneziani, che però Liberal NON è !, e quindi non vale. 
Un elemento importante sottolinea oggi lo scrittore : in realtà la natura degli antiberlusconiani cela qualcosa di più profondo e di peggiore : sotto l'ossessione psichiatrica antiberlusoide si cela un profondo e celato illiberalismo.  E' assolutamente vero, nella sua assoluta semplcità.
Ostellino, infine, estende la sua posizione, coinvolgendo il suo giornale, il Corriere della Sera, raro esempio di media importante che cerca di tenere la barra al centro, che vuol dire senza pregiudizi e preconcetti.
Non sempre riesce, lo ammette lo stesso Ostelino, però il tentativo è lodevole e non del tutto infruttuoso.
Se si è ottimisti, il bicchiere si può vedere metà pieno.
Buona Lettura

"La denuncia civile in un clima da 1922" 

 
Chi mi insulta e mi accusa di essere servo di Berlusconi, sa che non sono berlusconiano. Utilizza l'antiberlusconismo — che è la modalità d'essere del progressismo salottiero e modaiolo, trasformista e incolto — come arma polemica e mimetica. Mi detesta non perché sarei berlusconiano. Ma perché sono liberale. Lo dice bene Marcello Veneziani — a proposito: grazie! — denunciando che nessun intellettuale liberal abbia accolto il mio appello contro l'intolleranza degli antiberlusconiani («Ostellino, i liberal e gli intolleranti», il Giornale di mercoledì scorso). Ad alimentare l'antiliberalismo mimetizzato da antiberlusconismo è, del resto, proprio un certo giornalismo a metà strada fra il vecchio azionismo — che aveva pur sempre una sua (elitaria) dignità culturale e, qui, ha i toni della lingua di legno —, il calcolo editoriale e gli interessi del proprio editore: chiamare una cosa in modo da farla sembrare un'altra. Liberal, negli Stati Uniti, non sta per liberale, bensì per progressista, se non per socialista; i liberali sono chiamati conservative, in omaggio a una tradizione di conservatorismo antigiacobino e liberale che risale a Burke, Locke, Montesquieu, Tocqueville, Benjamin Constant.
In un clima ostile che ricorda il '22, il Corriere cerca d'essere quel referente culturale e civile che non è riuscito ad essere il berlusconismo politico, «un'emulsione di populismo e di liberalismo» (Giovanni Orsina: Il berlusconismo, ed. Marsilio). Nella versione originaria, e parzialmente liberale, il primo berlusconismo aveva risposto alla domanda di libertà di una parte della società civile, ma ha finito col generare la reazione dell'altra parte, quella «pedagogica e ortopedica», costruttivista e illiberale. Il berlusconismo ha tradito le proprie premesse (e promesse), degenerando nel populismo; il Paese è dominio della cultura costruttivista. Forte del proprio rigore istituzionale — che lo induce a battersi per la stabilità del sistema, a fianco del presidente della Repubblica, e a sostenere il governo in carica —, ma anche attento a non apparire schierato a favore di alcuna parte politica, il Corriere, come giornale d'informazione è lo specchio della realtà effettuale e, come giornale d'opinione, cerca d'esserne la coscienza critica. Fa cultura politica che non indulga a una realtà virtuale e utopica, espressione di quel dover essere chiamato «politicamente corretto» che non è esigenza d'imparzialità e di correttezza, ma anch'esso una modalità di compromissione col pensiero antiliberale. È difficile dire quanto a lungo le condizioni del Paese ci consentiranno di rimanere un'isola di tolleranza. Ci si batte, a volte riuscendoci, a volte no — nessuno è perfetto —, interpretando la domanda della parte del Paese che crede nella «società aperta». Il consenso di cui godiamo, rispetto all'ostilità di chi ci minaccia, ci conforta.

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