domenica 22 settembre 2013

LO SPETTACOLO DEI POLLI DI RENZI E DEI TACCHINI DI BERSANI


Sarà pure una bella cosa non avere l'uomo solo al comando, come in tanti dicono in casa PD, ma se il risultato è la babele dei democratici, bè, manco la DC era un caos similare (se non altro che quelli il potere ce l'avevano, e la sua spartizione serviva poi a tenere insieme il tutto). 
Dicono meglio loro che la dittatura di fatto di Berlusconi sul centro destra, ma sanno di dire una sciocchezza. Il Problema del centro destra non è di avere un leader forte e carismatico (come lo erano De Gasperi, Togliatti, Berlinguer, Craxi, per citare i più riconosciuti trasversalmente) , ma che questo sa sì vincere le elezioni, ma non riesce poi a governare (colpa sua, degli alleati, del sistema....quello che sia, il fatto negativo resta). 
In effetti seguire la vicenda del congresso  e pensare ad una sorta di melodramma scritto male è tuttuno.
Sono loro quelli di "ora tocca a noi governare l'Italia ?". Ma se l'Italia dei Borgia rispetto alle loro faide era un posto sicuro ??
Io, e lo ribadisco spesso, ho degli amici che sento veri in quel partito, ma sono persone lontane anni luce da certi loro compagni.
Che stanno a fare insieme ? Non so rispondere. Immagino che ognuno, da solo, si senta debole, sicché (toscanismo voluto...) ritenga di dover venire a patti con i numerosi altri per garantire una forza politica non coesa ma elettoralmente più forte. In effetti, se un giorno le vincessero queste elezioni, magari la conquista consolidata di Palazzo Chigi porterebbe ad una spartizioni di poltrone e prebende che calmerebbe l'attuale sabba.
Proprio come accadeva ai detestati DC (ironia del destino, è un ex presidente dei giovani democristi che oggi è premier del paese ).
L'articolo di Polito ben commenta il pessimo spettacolo dell'assemblea nazionale dei "migliori".



  "Un talk show senza copione"


Qual è il male oscuro del Pd? Quale demone del masochismo lo induce a mostrare in pubblico sempre la sua faccia peggiore, fatta di caos e divisione? E come può sperare di convincere gli elettori a farsi dare le chiavi dell'Italia se non è in grado di badare a se stesso? Sono le solite domande. Ma uno se le deve rifare dopo aver seguito il talk show dell’assemblea nazionale del partito, convocata per prendere la fatale decisione sulle regole del congresso e alla fine incapace di prenderla, al punto che il segretario Epifani ha dovuto rifugiarsi in corner e rinviarla ancora. Anche le risposte possibili sono le solite. La prima dice che il Pd è dilaniato dal correntismo, si può ormai dire dal frazionismo perché i polli di Renzi e i tacchini di Bersani da tempo si comportano come se non fossero più nello stesso partito. Ammirati da tanta furiosa dialettica, alcuni commentatori ne deducono che il Pd è l’unico «partito vero» che ci sia rimasto. Se è così lo preferiremmo finto. Un’altra risposta è che per il Pd la democrazia interna è diventata «la bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta», per dirla con Lucio Dalla. La sua vita è del tutto sregolata e anarchica dal lunedì al venerdì, e poi si pretende che il sabato rientri nel formalismo giuridico più asfissiante: basti pensare che ieri il patatrac è avvenuto per mancanza del numero legale. La terza risposta possibile è che il conflitto di personalità è più cruento che in un partito personale. Anche Alfano e la Santanchè si odiano, ma quando vanno nell’ufficio del capo devono sorridersi. Nel Pd l’ufficio del capo non c’è.  
E dovrebbe essere ormai chiaro che l’assenza di autorità non è un tratto di superiore civiltà, è piuttosto la condizione primordiale della guerra di tutti contri tutti descritta da Hobbes.  
Ma queste spiegazioni, ancorché vere, sono tutte parziali, e pure sommate non fanno una risposta. Ciò che davvero lacera e consuma il Pd è una radicale diversità di opinioni sulla propria funzione, sulla missione che è chiamato a svolgere, sul servizio che deve rendere all’Italia. Infatti tutto l’arzigogolo intorno alle regole, la data del congresso, il modo di svolgerlo, il candidato segretario e/o il candidato premier, gira intorno alla seguente domanda: il Pd sostiene il governo che guida, vuole assicurargli lunga vita e pieno successo, così da ripresentare Letta alle prossime elezioni e vincerle? O il Pd considera già fallito il governo che guida, si sente in campagna elettorale e dunque non vuole perdere terreno nel gioco tattico col Pdl a chi l’attacca di più, così da presentare Renzi alle prossime elezioni e vincerle? Il Pd è ancora al governo o già all’opposizione? Deve pensare a salvare l’Italia o a salvare se stesso? Il dilemma è ieri apparso chiaro nel dibattito. Renzi, il quale aveva accettato il ricatto dei big sulle modifiche allo statuto pur di strappare una data (l’8 dicembre) che almeno teoricamente tenesse aperta una finestra elettorale, ha usato parole molto dure con Letta. Se non sai tenere il 3% di deficit, che ci stai a fare? E perché, se non ce la fai, dai la colpa a me e a Berlusconi, additati come responsabili dell’«instabilità politica»? Un argomento oggettivamente forte, e che nelle prossime settimane può diventare sempre più forte. Ma anche pericoloso, perché lo stesso Renzi lo ha condito della suggestione, mai prima ventilata nel Pd, di liberarsi di quel vincolo del 3%. Un approccio molto «berlusconiano» al problema italiano, e che fa tremare al pensiero di una eventuale campagna elettorale giocata, da una parte e dall’altra, alla vigilia del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea, di nuovo ai margini dell’Europa.

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