mercoledì 9 ottobre 2013

"PERDERE ? E' COME MORIRE". LA CULTURA DELLA SCONFITTA SECONDO CONTE, IL MENO BATTUTO DEGLI ULTIMI 30 ANNI


Mi ha incuriosito il titolo di spalla, che infatti ripropongo come principale nel mio post, dell'articolo odierno su La Stampa dedicato a Conte : Perdere ? E' come morire. 
Sicuramente rende l'idea, anche se per fortuna il mister delimita drasticamente la cosa, contenendola in un range temporale di appena due ore.
Certo, se l'allenatore bianconero ricorda (e credo si sia anche ispirato al guru rossonero ) Sacchi nella cura maniacale del lavoro, del collettivo, dell'orchestra che conta più dei solisti, se ne discosta, e parecchio, quanto a "cultura della sconfitta". Concetto peraltro più predicato che praticato, perché il grande Arrigo (veramente rivoluzionò il calcio italiano, offrendo una vera e convinta alternativa al catenaccio , e comunque al principio granitico "primo non prenderle" ) quando perdeva rosicava, e parecchio. 
Altra similitudine che temo possa rivelarsi tra i due, è la disaffezione della squadra. E' vero che Conte fa più "gruppo" rispetto al Mister del (fantastico) Milan Olandese, sembra avere un rapporto di maggiore confidenza, vicinanza coi suoi giocatori (Sacchi era più "dirigenziale") , però è anche vero che l'avere così tanto il fiato sul collo può portare a livelli di "rottura" di un meccanismo sempre tirato al massimo. E infatti Sacchi si logorò presto. Speriamo non sia così, però è un fatto che la Juve non gira più con la brillantezza del primo anno, e forse insistere con gli stessi giocatori porta ad una usura anche mentale. 
Intanto però la Stampa regista un record lusinghiero del Mister : il meno battuto degli ultimi 30 anni.
E snocciola i numeri.


Conte già davanti ai big della panchina
È il meno battuto degli ultimi 30 anni

Se perdere è un po’ come morire, disse lui, Antonio Conte sta vivendo alla grande. E, va da sè, se la passa piuttosto bene anche la Juve, che il tecnico pilota per la terza stagione: fanno 106 partite e appena 9 sconfitte, parziale mai visto negli ultimi trent’anni. Ultimo arrivato nel jet set delle panchine europee, ora l’allenatore bianconero ha il pedigree migliore di tutti, perfino del favoloso Guardiola ai tempi del mondo incantato del Barça. Pep aveva il record, con l’8,50% di sconfitte sulle 247 uscite con i blaugrana, ma domenica sera contro il Milan Conte l’ha superato: 8,49%, ai confini dell’imbattibilità. Come invincibile per tutto il campionato fu la Juve nella sua stagione d’esordio, annus mirabilis 2011/12.  
Poi certo, tante sono le unità di misura del successo, dalle vittorie ai titoli razziati, e nel club dei migliori tecnici, da Ferguson a Lippi, c’è gente che ha stipato la bacheca: qui però contano pure gli anni di militanza e la squadra, in molti casi squadrone, che ti ritrovi. Nel dubbio, anche in questo ramo, Conte e la Juve non sono messi male: iscritti a sette competizioni, ne hanno vinte quattro. Ma il non perdere è qualcosa di esistenziale: «Quando perdo è come fossi morto, per un paio d’ore», ha ripetuto. Va di pari passo l’ossessione per la vittoria. Altro concetto più volte ribadito dall’allenatore juventino: «Quello che conta, a casa mia, sono le vittorie. Chi vince scrive e fa la storia, gli altri possono solo fare chiacchiere». 
Del resto, Conte non è uno da mezze misure e il primo con cui essere categorico è se stesso. Basti il suo incipit di carriera, ormai aneddoto: «La panchina bianconera è un obiettivo perché la Juve è una grande squadra. Ci vogliono tempo, fortuna e risultati, ma se non ci arrivo entro tre o quattro anni, lascio perdere». Detto nel novembre 2008. Considerata poi la Juve che si ritrovò per le mani («Un settimo posto può essere un caso, due no»), è andato più in fretta anche dei sogni. Arrivando a un campionato dalla leggenda, il terzo scudetto filato. «La storia è bella, non te la tocca nessuno, però è nel presente che costruisci il futuro». Dev’essere per questo se all’inizio dell’estate e pochi giorni fa ha lucidato le sue regole: «Se non hai stimoli nella mia squadra non giochi, neanche se sei stato il migliore in campo nell’ultima partita». E contro la poca concentrazione affiorata in quest’avvio di stagione non ha mollato i principi costituzionali: «L’impegno, il rispetto delle regole e dei ruoli, l’attaccamento al bene comune della squadra». Postilla: altrimenti non andiamo da nessuna parte. Anche se quest’anno è davvero dura, ripete Conte ogni giorno, anche nello spogliatoio, tanto perché nessuno si faccia illusioni. 
È dura anche rivedersi le partite, perché quando un giocatore sbaglia una scelta, il tecnico s’incavola come se volesse cambiare ciò che è già successo. Meno male che vige sempre una regola: «Cerco di non rivedere la gara la sera stessa, sono troppo sfinito: se ho vinto vado a cena, sennò rosico a casa». Negli ultimi due anni, pochissimo. Nove volte in due stagioni e un paio di mesi: appena il doppio rispetto alla miglior annata del Barcellona, la seconda di Guardiola (4 sconfitte). 
Per arrivare fin qui, Conte ha studiato un po’ tutti, partendo da Van Gaal e Sacchi. Ne è uscito un tecnico cresciuto in fretta, con tutto il suo vocabolario: possesso, pressing alto, riconquista immediata della palla, difesa in avanzamento. Uno dei segreti, suo e dei bianconeri, è il non fermarsi mai: 4-2-4, 4-3-3, 3-5-2, ora oggetto di elaborazioni. Alla ricerca della prossima evoluzione, come spiega spesso ai suoi: «Cosa serve nel calcio moderno? Più velocità, intensità, tecnica. E sempre più chilometri da percorrere». Arrivando vivi alla meta: ovvero, senza sconfitte.

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