mercoledì 13 novembre 2013

LA CONFERMA VIENE DA FALCHI E COLOMBE : DUE DEBOLEZZE NON FANNO MAI UNA FORZA


A me è piaciuto molto il libro di Orsina, storico che si è cimentato in un'analisi del Berlusconismo in Italia, partorendo un'opera che, se non altro, ha il pregio dell'originalità : dice e scrive anche cose non stralette.
L'uomo ha poi uno stile pacato, ragionato, non da ideologo come invece altri scrittori, anche storici, chiaramente militanti.
Queste sue qualità le ritrovo nell'editoriale scritto sulla Stampa di oggi dedicato alla particolare situazione di Berlusconi e del PDL. Due debolezze non fanno mai una forza.
Io l'ho letto con interesse e piacere, per questo lo propongo.



Due strategie fragili a confronto

Se all’indomani di Tangentopoli il sistema politico italiano ha assunto una struttura bipolare, molto del merito spetta a Berlusconi e all’operazione, fulminea ma sorprendentemente duratura, con la quale ha raccolto la frammentata e dispersa destra italiana.  

La parola «merito» non è stata usata a caso: non si danno paesi civili nei quali non vi sia un assetto per lo meno tendenzialmente bipolare. Anche se, senza dubbio, il nostro bipolarismo si è dimostrato immaturo, polarizzato e inefficiente.
La più profonda forse delle linee di frattura che attraversano oggi il principale partito del centro destra, e che potrebbero portarlo ben presto alla scissione, riguarda proprio la sostanza, e perciò i prossimi destini, del bipolarismo. Il Cavaliere, notoriamente ben più sensibile alle questioni personali che ai meccanismi istituzionali, proietta in un futuro indefinito un dato di fatto innegabile della storia d’Italia degli ultimi vent’anni: il centro destra «c’est moi».  

La via verso la maturazione del sistema politico italiano che egli aveva disegnato promuovendo la rielezione di Napolitano e le grandi intese – e che, avendo il bipolarismo radici personali, non poteva che passare attraverso la legittimazione della sua persona – è fallita prima per ragioni giudiziarie, poi per le scelte politiche del Partito democratico. Ma di fronte a questo fallimento Berlusconi ha deciso di confermare testardamente la proprio centralità quasi-istituzionale, facendo di questa conferma uno strumento sia di rivendicazione della legittimità dell’ultimo ventennio, sia di orientamento politico per i prossimi mesi – se non anni.  
 
Di fronte a quel fallimento, invece, l’ala «governativa» del Pdl ha scelto di prendere atto della fine della centralità del Cavaliere, e di passare oltre. Ambizioni personali, desiderio di accelerare il mutamento generazionale, ansia di ereditare il patrimonio politico berlusconiano? Certo, è naturale: chi non ambisce ad accrescere il proprio potere è bene non faccia politica. Ai governativi, tuttavia, non manca un ragionamento – il quale, a partire dalla rivendicazione e valorizzazione del ventennio berlusconiano, e passando per il venir meno del suo protagonista indiscusso, giunge alla conclusione che l’unico modo per salvaguardare l’eredità bipolarista del Cavaliere passa per la riforma del sistema elettorale e, ancor più, della costituzione. E, di conseguenza, proietta il governo almeno fino al 2015. 

Sono due strategie fragili. L’intestardirsi di Berlusconi sulla propria centralità quasi-istituzionale, e perciò la decisione di rifiutare le grandi intese che non hanno saputo salvaguardarla, è per tanti versi comprensibile. Ma la presenza politica del Cavaliere non sarà certo garantita dalla crisi di governo. Poi, una parte importante dell’elettorato moderato sembra chiedere stabilità. Infine, e soprattutto, pare del tutto assente una strategia per il dopo che non conduca o al riproporsi degli equilibri attuali, e quindi al deteriorarsi ulteriore di un tessuto politico e istituzionale già insopportabilmente logoro; oppure alla netta vittoria elettorale di un Partito democratico guidato da Renzi. Berlusconi non vuole consegnarsi alla storia. Bene, nessun uomo politico lo vuole, e tanto meno può volerlo uno con la sua personalità. Su chi per non consegnarsi alla storia disperde la propria eredità, però – per poi finirvi consegnato comunque, fatalmente –, il giudizio della storia in genere è assai duro. 

Il punto debole della strategia dei «governativi» non è nel loro ragionamento astratto, ma nella concreta possibilità che quel ragionamento si traduca in realtà. Nell’immediato, certo, la sopravvivenza del governo Letta e della legislatura, e l’eventualità quindi che il processo di riforma costituzionale sia portato a conclusione, sono nelle loro mani. Sul medio periodo tuttavia, e in particolare da metà dicembre, quando la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sulla legge elettorale, e soprattutto il Partito democratico avrà scelto il suo nuovo segretario, il gioco si farà molto più largo e difficile. E in questo contesto proprio la decisione di Berlusconi di raggiungere Grillo all’opposizione potrebbe far crescere la pressione sul Pd fino a farla diventare insopportabile. Soprattutto nel momento in cui i democratici dovessero avere un leader neoeletto, ambizioso, impaziente, assai poco desideroso – si presume – di immolarsi per un governo che lui, il suo partito e i suoi elettori non considerano cosa propria. 

Se la riforma delle istituzioni non dovesse concretizzarsi, la sopravvivenza del bipolarismo potrà allora incardinarsi soltanto sulla tenuta dei partiti. Ma il Pdl va verso la scissione – e per colmo di paradosso, proprio a motivo di un dissenso profondo su come far sopravvivere il bipolarismo. Se così sarà, e tanto più se il divorzio a destra sarà traumatico e non consensuale, allora tutto il peso del sistema politico italiano, che per vent’anni è stato sopportato da Berlusconi, cadrà sul Partito democratico. Saprà reggerlo?

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