Chi, come me, legge abitualmente Davide Giacalone sa che l'Italia, con tutti i suoi grossi guai, conserva ancora alcuni punti di forza che la portarono, non secoli fa, a diventare la quinta potenza industriale dell'occidente. Nel 2007, poco più di un lustro, il nostro indice di "felicità", secondo uno studio ONU che si ripete peridodicamente (abbiamo riportato i dati dll'ultimo : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/12/lonu-fa-la-classifica-della-felicita.html ), era a livello di Francia Germania e GB, davanti alla Spagna e agli altri paesi europei con esclusione di quelli del Nord e naturalmente la Svizzera. Tre gli "assi" che Giacalone non si stanca di ripetere :
1) in Europa continuiamo ad essere la terza nazione più industrializzata e la seconda economia manifatturiera
2) siamo forti nell'export grazie alla qualità di alcuni settori e alla capacità di altri di ristrutturarsi nella nuova economia globale, nonostante gli handicap del nostro sistema
3) conseguenza dei primi due punti, e anche, diciamolo, alcuni accorgimenti sulla spesa (che cresce, ahinoi, ma meno di quanto non fosse lasciata fare un tempo. Il numero degli impiegati statali per esempio sta diminuendo, tramite il blocco del turn over. Non è la panacea però è già qualcosa) fanno sì che l'Italia continui ad avere un avanzo primario che altri paesi si sognano. Vuol dire che al netto dei costi degli interessi per il debito pubblico, le nostre entrate sopravanzano, sia pur di poco, le uscite (come spesa pubblica). Il guaio è che noi abbiamo ben 80 miliardi di costo del debito, e per abbatterlo seriamente con la sola "austerità" , è un po' come volere svuotare il mare.
Questo non vuol dire che stiamo bene, che quell'avanzo primario lo paghiamo con lacrime e sangue, cioè una tassazione che il buon Giacomo Zucco, leader del Tea Party italiano, l'unico serio movimento antitasse nel nostro paese, ricorda essere arrivato al 70% di imposizione REALE (che anche quella statistica, vicino al 50%, mica scherza...), considerato che l'Istat i conti li fa allargando il PIL al sommerso dove, notoriamente, le tasse NON si pagano. Quindi il peso dell'imposizione in concreto si concentra su una base di cittadini pagatori inferiore a quella da loro calcolata a fini statistici. E quelle tasse, oltre ad essere ingiuste e disumane (ma si può lasciare ad un altro più della metà di quello che si guadagna, chiunque esso sia ?? ) , sono un fattore castrante di ogni serio tentativo di ripresa e crescita economica.
Ciò posto, anche considerato le lodevoli parole antidepressive di Giacalone, non si può non rimanere stupiti di fronte ai dati di questa ricerca dell'Università di Friburgo che colloca l'Italia addirittura al secondo gradino dei paesi virtuosi, calcolando, al posto del debito "esplicito", quello IMPLICITO, che tiene conto degli impegni di spesa che verranno comunque a scadere. L'Italia il debito alto l'ha costruito soprattutto nel passato, ora lo sta pagando, salato. Però Germania e Francia (soprattutto quest'ultima che non ne vuol sentire di riformare il suo welfare) negli ultimi anni lo hanno visto crescere assai più del nostro e se anche loro non hanno sforato il muro del 100% rispetto al PIL probabilmente lo devono ad artifici contabili del tipo le obbligazioni emesse dalla KfW (la Cassa depositi e prestiti tedesca). Le norme europee consentono di escludere dal computo del debito pubblico quello delle società pubbliche che coprono i propri costi per oltre il 50% con ricavi di mercato. La KfW rientra in questo criterio, ma ciò non toglie che se qualcosa le andasse storto, sarebbe il governo federale a garantire le sue obbligazioni , esattamente come gli altri Bund. Se teniamo conto di questo “dettaglio”, il debito pubblico tedesco in effetti raggiunge il 97% del Pil. La “soglia psicologica” del 100% è dietro l’angolo.
Insomma, non solo anche i primi della classe sono lontani dal mitico traguardo del 60% (nel rapporto tra debito e PIL) ma se ne stanno allontanando. Noi almeno da un po' stiamo pressoché fermi, con peggioramenti dovuti NON alla crescita dei debiti ma alla riduzione del Prodotto.
Come bene rappresenta Giacalone, questo non significa assolutamente che allora possiamo pensare di andare avanti come facciamo. Semplicemente che dobbiamo fare cose diverse da quelle che continuiamo a fare, sapendo che c'è una spesa improduttiva da tagliare con le cesoie e non col bisturi, e un problema fiscale da risolvere. E NON nei modi immaginati da quelli di sinistra, sempre impegnati in opere di ingegneria creativa per trovare nuove forme (magari con nomi fantasiosi) di tosatura.
La forza del debito
Il nostro debito pubblico è fra i più affidabili d’Europa. Qui lo avete letto più volte, e magari qualcuno è stato tentato di chiamare la neurodeliri per venire a bloccarci e soccorrerci. Bhe, adesso l’ambulanza mandatela all’università di Friburgo (Germania), il cui centro studi ci mette in cima alla lista dei virtuosi, appena sotto la Lettonia e comunque sopra alla Germania. Hanno seguito un percorso diverso da quello che abbiamo usato noi, ma giungendo a conclusioni sovrapponibili. Anche dal punto di vista di ciò che è necessario fare per tradurre l’affidabilità in forza capace di spingere lo sviluppo e la crescita della ricchezza.
A Friburgo, coordinati dal prof. Bernd Raffelhuschen, hanno fatto due colonne: nella prima hanno messo il rapporto fra il debito pubblico (esplicito) e il prodotto interno lordo, classifica che ci mette fra gli appestati; nella seconda hanno messo il “debito implicito”, vale a dire gli impegni di spesa che dovranno essere comunque onorati. Poi li hanno sommati. Il risultato è che l’Italia si classifica seconda, con un debito totale che ammonta al 73% del pil (troppa grazia!). La Germania è quarta, al 154%. La Francia sedicesima, con un debito totale che raggiunge il 449%. Il Regno Unito al ventiduesimo posto: 640. Non sono conti inediti, sono stati fatti sulla scia della contabilità generazionale, che si deve a Laurence Kotlikoff, della Boston University. Ma sono tali la lasciare allibiti, pur essendoci più volte sentiti dare dei beoti per non avere proclamato la nostra già avvenuta bancarotta.
Nello stesso giorno è arrivato il rapporto di Standard & Poor’s sull’Italia, ove, bontà loro, non ci declassano ulteriormente (il nostro debito è considerato alla soglia della spazzatura, ma ancora un passo indietro), però confermano di vedere nero, per il futuro. Su cosa basano tale previsione? Sulla troppo scarsa crescita, a sua volta causa dell’insostenibilità del debito nel medio periodo. Il che è vero da anni, anche se i governi succedutisi, compreso l’attuale, sprecano fiato nel vano tentativo di negare l’evidenza. La domanda è: c’è un nesso, fra queste due analisi? Quale delle due è marziana? Il nesso c’è, nessuna delle due è totalmente in errore. Capire aiuta moltissimo a compiere scelte non inutili e a non perdere tempo. Come si sta facendo.
Che la nostra crescita sia asfittica da lustri è evidente, così come la micidiale botta recessiva che abbiamo preso. Ci aiuta Alexander Kockerbeck, oggi consulente in Germania, fino a poco tempo fa responsabile della valutazione dei debiti sovrani, per Moody’s (uno del ramo, insomma): nel valutare l’affidabilità di un debito il peso assegnato agli indicatori di crescita è esagerato. Inoltre, aggiunge, la crescita di molti europei è in realtà drogata dalla spesa pubblica, mentre gli italiani sono in avanzo primario da tanto di quel tempo che di droga ne circola poco e niente. Detto in altre parole: in tutti questi anni la nostra crescita è bassa, ma vera. Ed è qui il punto fondamentale, questo è il fulcro per azionare la leva che faccia ripartire (alla grande) l’Italia: le aziende capaci di crescere hanno già imparato le regole della globalizzazione, hanno imparato a gestire un cambio forte, si sono ristrutturate (anche lasciando non pochi morti per strada), sicché quel che serve all’Italia non è tornare alla logica della spesa improduttiva per alimentare la domanda interna (cosa che porterebbe anche a un aumento delle importazioni di prodotti altrui, esportando ricchezza collettiva), ma l’abbattimento fiscale a favore di quelle aziende produttive e il riaccesso al credito. Sono queste le due armi vincenti.
Non servono i brodini dati con il cucchiaino, capaci solo di riaprire mini emorragie di spesa e far propaganda. Serve l’abbattimento del debito esplicito (per dirla alla friburghese, che mi piace assai), meno spesa per interessi, meno fisco. E serve che cessi la follia per cui una piccola impresa tedesca si finanzia pagando tassi al 3.61%, mentre quella italiana al 5.12, con le grandi che accedono al credito pagando il 2.86 in Germania e il 4.36 in Italia. Che sarebbe ancora meno peggio della realtà, perché il credito, da noi, non si trova. Ci fosse una classe dirigente degna (mica solo governativa, perché questa roba dovrebbe essere in cima a cattedre e giornali) dovremmo trarre forza dal ragionamento di Friburgo per rompere l’assedio di chi ha tutto l’interesse a indebolire i nostri competitori. Non dimentichiamoci che dati come questi, assieme ai ragionamenti che qui andiamo facendo sulla forza dell’Italia, non sono attenuanti, ma aggravanti dell’ignavia politica. Non servono a dire “tiriamo avanti”, ma, semmai, “basta con il farci straziare”. I dolori che abbiamo subito ci mettono in una condizione di vantaggio. Non sfruttarlo, e non farlo subito, è una colpa enorme. Inaccettabile.
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