In una vigilia di Natale piuttosto mesta, dove anche la novità Renzi sta un po' stufando in attesa di vedere cosa farà, che quello che dice ormai lo abbiamo ascoltato tutti, bello lo spazio che il Corriere della Sera dedica a Gigi Riva, che nel prossimo campionato mondiale in Brasile per la prima volta, dopo oltre 20 anni, non seguirà in qualità di dirigente la nazionale azzurra. E' stata una decisione sua, che il prossimo anno compirà 70 anni. In tanti, tra cui Prandelli, hanno provato a dissuaderlo, che Riva ha un'autorevolezza ed una capacità empatica preziosa, specie coi giocatori più difficili, che farebbe tanto comodo al Mister che in squadra ha un tipetto come Balotelli. Lui ha declinato, sia per acciacchi fisici che per l'accresciuta difficoltà a sostenere lo stress. Intervistato, ha spiegato che ormai le partite (delle squadre a cui tiene, immagino, che sono appunto la nazionale e il Cagliari) non riesce più a seguirle in diretta.
Rombo di Tuono, come lo aveva soprannominato Gianni Brera che amava coniare delle "etichette" che poi restavano appiccicate ai calciatori (Rivera aveva quello assai meno guerriero e lusinghiero di "abatino" ), è un personaggio anomalo nel panorama italiano, e non solo calcistico.
Un "Hombre Vertical" come ama definire Gianni Mura, decano dei giornalisti sportivi, i personaggi tutti di un pezzo, e retti. La sua fedeltà al Cagliari è rimasta leggendaria, diversa da quella di altre bandiere (ormai sono pezzi d'epoca) che però o militavano in grandi squadre ( Juve, Milan, Inter) o sono state aiutate da vagonate di milioni (ieri miliardi) per rimanere nel club di origine. Non per sminuire personaggi come Baresi, Maldini, Del Piero o Totti, per citare alcuni tra i più famosi, ma solo per sottolineare la eccezionalità di Riva, che ha trascorso tutta la sua carriera nel Cagliari, giocando 13 campionati, 315 partite e segnando ben 164 gol ( più di uno ogni due partite, e le difese all'epoca, con l'arcigna marcatura a uomo e il libero in aggiunta allo stopper, erano più difficili da superare). Ha vinto un solo scudetto, nel 1970, ma a Cagliari, una sorta di miracolo. In Nazionale giocò 42 partite con ben 35 gol , una media eccezionale (quasi un gol a partita), e tuttora, nonostante il numero di presenze assai maggiori dei suoi successori, nessuno ha ancora battuto il suo record di marcature ( nè al momento, purtroppo per i nostri colori, sembra di intravedere "minacce" a questo record., che Balotelli è giovane e forte, ma anche tanto matto).
Riva non è stato un atleta esemplare, alla Zanetti per intenderci : fumava come un turco, la sera tirava tardi, nel ritiro era tra i pokeristi nottambuli della squadra). Con il fisico che si ritrovava - e un calcio anche molto meno stressante dell'attuale - se lo potè permettere.
Il suo palmares non è ricco, però nobile : lo scudetto che abbiamo detto, un titolo di campione d'Europa e di vicecampione del mondo con la nazionale italiana, tre classifiche di capocannoniere della serie A (recordman azzurro di segnature lo abbiamo già ricordato).
Se non fu un atleta dalla vita disciplinatissima, fu un modello assoluto di lealtà sportiva, in campo e fuori.
A Cagliari è un totem.
Francamente, fa un po' sorridere l'accusa di "falso ideologico" che gli hanno appioppato per essere andato a trovare il presidente Cellino, in carcere per i guai dello stadio, firmando un foglio di carta dal quale risultava un "assistente" del deputato del PDL Pili. Come se qualcuno a Cagliari, penitenziario compreso, non conoscesse Riva e potesse scambiarlo per il portaborse di un peone del parlamento di Roma. Ma magari qualcuno in procura a Cagliari era indispettito della solidarietà di Gigi al presidente della squadra della città.
La vita attuale di Riva, descritta nel servizio, è molto normale, colorata per lo più dall'affetto di una città che gli è rimasta grata non solo per le vittorie ma per la fedeltà e l'amore da lui dimostrati per l'isola e i suoi abitanti.
E' una cosa bella, che in genere la gratitudine è sentimento che, non alimentato decade.
Non per la gente sarda, difficile da conquistare, ma poi di memoria (io lo so).
Il personaggio- «La mattina colazione al bar, leggo i giornali«»
Gigi Riva, ritiro di un campione
«Non riesco a vedere le partite»
«Prandelli mi ha chiamato, ma per me era troppo stress». «Prima devo conoscere il risultato, poi seguo la replica»
Riva in una foto del 1968 (Ansa)La
tristezza va e viene, come la depressione che rallenta certe giornate.
«Capita di tanto in tanto, è una questione di testa. Non ho avuto una
grande infanzia, tutto parte da lì, e il resto me lo sono creato da
solo». Nel resto, c’è la vigilia di Natale senza i due figli e le
nipoti: «Il 24 lo trascorrono con la madre, noi ci vediamo la sera del
25. Non da me però, che con quattro bambine dai sette mesi ai tredici
anni poi la casa bisogna rimetterla in ordine!».
Gigi Riva è un amabile chiacchierone. Se lo chiamate e sta per andare a fare una passeggiata da solo in centro, si mette comodo e rimanda di un’ora l’uscita. Se lo chiamate prima della pennica, dice che può stare solo cinque minuti e dopo quaranta è ancora lì che racconta. E se lo stuzzicate sulla volta in cui è stato iscritto nel registro degli indagati per falso ideologico (assolto), il 9 aprile scorso, non si sottrae: «Bello scherzo... Volevo andare a trovare Massimo Cellino in carcere e Mauro Pili disse che mi ci faceva entrare lui. Poi però mi ha fatto firmare come segretario. Figuriamoci, con i questurini che mi chiedevano del calcio».
La verità è che Gigi Riva è una leggenda vivente. E non soltanto in Sardegna, dove vive da cinquant’anni. «Arrivai nel 1963, orfano di entrambi i genitori. Mio padre aveva fatto tre guerre: quella del ‘15-’18 e quella d’Africa e aveva lavorato in una galleria ferroviaria durante la Seconda guerra mondiale: è morto di tumore ai polmoni; mia madre pure è morta di cancro, dopo tanti sacrifici per me e le mie tre sorelle. A Cagliari trovai una nuova famiglia». Erano i tifosi. Ricambiò l’amore incondizionato portando la squadra in serie A e regalando l’unico scudetto, nel 1970, in un campionato già segnato dalla formidabile punizione trasformata in gol ai danni del Milan con un siluro di sinistro a 130 chilometri orari. Gianni Brera lo soprannominò Rombo di tuono.
Confessa che non va più allo stadio a vedere i rossoblù. «Troppa ansia, soffro. Anche quando scendevo in campo io, se magari ero stato squalificato, non restavo mai in tribuna: prendevo la macchina e guidavo fino a Costa Rei o a Muravera. Ora ascolto il risultato finale e il giorno dopo mi guardo la partita. Faccio così anche con gli Azzurri, per vedere se Cassano ha fatto il bravo e se Balotelli ha reagito alle provocazioni».
In Nazionale è ancora suo il record di reti: 35 in quarantadue partite. «Ma si giocava molto meno. Adesso mi sembra quasi che vogliano mascherare i problemi del Paese con il calcio, tenendo le persone inchiodate al televisore per non far aprire il frigo vuoto». È stato team manager azzurro per più di vent’anni, fino a maggio, quando ha motivato le dimissioni con due parole: «Sono stanco». Spiega: «Era diventato molto stressante per me: durante i match dovevo prendere il Lexotan per calmarmi. Prandelli mi ha chiamato un paio di volte chiedendomi di ripensarci. Il direttore generale della Figc Antonello Valentini ogni tanto ci riprova. Ma le mie ossa rotte si stanno facendo sentire. I problemi all’anca, con l’artrosi, sono peggiorati e la fisioterapia non basta. Non riesco più a fare le scale, mi devo fermare a metà. Non voglio fare il dirigente che zoppica...». Il suo favorito, oggi, è Giuseppe Rossi: «Perché è simpatico, educato, sulle labbra ha sempre il sorriso e in mano un pallone o una pallettina». Il miglior allenatore è Cesare Prandelli: «Umanamente eccezionale, la sua storia personale parla per lui. Sa prendere i giocatori nel modo giusto, sa punirli. Ed è un uomo buono».
Le giornate sono ritmate da piccole consuetudini. «Colazione nel bar sotto casa, dove c’è Eva che mi maltratta. Prendo caffè e brioche e vado nel mio studio, leggo i giornali - Corriere , Gazzetta e L’Unione Sarda - e controllo se qualcuno mi ha scritto su Internet, rispondo a tutti. Passo a salutare un amico, commentiamo le notizie. Tutte le sere ceno da Giacomo, che ha un ristorante di pesce, ma a me prepara il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia. E faccio il nonno».
Gigi Riva non ha mai lasciato la Sardegna, malgrado potesse scegliere con quale club giocare. «Gli avversari ci gridavano “ladri, banditi e pecorai”. Gli arbitraggi con le grandi erano sempre a nostro svantaggio. Eppure vedevo questi pullman di tifosi che arrivavano a Milano o a Torino dalla Germania, dall’Olanda, dall’Inghilterra. Nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio. Come potevo andarmene? Ricevevo tantissime lettere, pure da Graziano Mesina, latitante: le sue le bruciavo. Mi era simpatico. Ma ci sono rimasto male per l’ultimo arresto: della favola che lo avvolgeva non è rimasto niente».
La voce si incupisce quando parla dei giovani. «Qui, in particolare, sembra di essere tornati indietro di decenni, quando bisognava emigrare per le miniere del Belgio. Oggi un ragazzo non può più permettersi di scegliere di andare a Londra».
L’ultimo sgambetto gliel’ha fatto L’Unione Sarda . «Gli indipendentisti dell’Irs vorrebbero candidarmi alle Regionali. Ora, a parte il fatto che non intendo fare nulla, mi ha offeso che abbiano scritto che non potrei correre per la poltrona di governatore perché non sono sardo. Io?».
Gigi Riva è un amabile chiacchierone. Se lo chiamate e sta per andare a fare una passeggiata da solo in centro, si mette comodo e rimanda di un’ora l’uscita. Se lo chiamate prima della pennica, dice che può stare solo cinque minuti e dopo quaranta è ancora lì che racconta. E se lo stuzzicate sulla volta in cui è stato iscritto nel registro degli indagati per falso ideologico (assolto), il 9 aprile scorso, non si sottrae: «Bello scherzo... Volevo andare a trovare Massimo Cellino in carcere e Mauro Pili disse che mi ci faceva entrare lui. Poi però mi ha fatto firmare come segretario. Figuriamoci, con i questurini che mi chiedevano del calcio».
La verità è che Gigi Riva è una leggenda vivente. E non soltanto in Sardegna, dove vive da cinquant’anni. «Arrivai nel 1963, orfano di entrambi i genitori. Mio padre aveva fatto tre guerre: quella del ‘15-’18 e quella d’Africa e aveva lavorato in una galleria ferroviaria durante la Seconda guerra mondiale: è morto di tumore ai polmoni; mia madre pure è morta di cancro, dopo tanti sacrifici per me e le mie tre sorelle. A Cagliari trovai una nuova famiglia». Erano i tifosi. Ricambiò l’amore incondizionato portando la squadra in serie A e regalando l’unico scudetto, nel 1970, in un campionato già segnato dalla formidabile punizione trasformata in gol ai danni del Milan con un siluro di sinistro a 130 chilometri orari. Gianni Brera lo soprannominò Rombo di tuono.
Confessa che non va più allo stadio a vedere i rossoblù. «Troppa ansia, soffro. Anche quando scendevo in campo io, se magari ero stato squalificato, non restavo mai in tribuna: prendevo la macchina e guidavo fino a Costa Rei o a Muravera. Ora ascolto il risultato finale e il giorno dopo mi guardo la partita. Faccio così anche con gli Azzurri, per vedere se Cassano ha fatto il bravo e se Balotelli ha reagito alle provocazioni».
In Nazionale è ancora suo il record di reti: 35 in quarantadue partite. «Ma si giocava molto meno. Adesso mi sembra quasi che vogliano mascherare i problemi del Paese con il calcio, tenendo le persone inchiodate al televisore per non far aprire il frigo vuoto». È stato team manager azzurro per più di vent’anni, fino a maggio, quando ha motivato le dimissioni con due parole: «Sono stanco». Spiega: «Era diventato molto stressante per me: durante i match dovevo prendere il Lexotan per calmarmi. Prandelli mi ha chiamato un paio di volte chiedendomi di ripensarci. Il direttore generale della Figc Antonello Valentini ogni tanto ci riprova. Ma le mie ossa rotte si stanno facendo sentire. I problemi all’anca, con l’artrosi, sono peggiorati e la fisioterapia non basta. Non riesco più a fare le scale, mi devo fermare a metà. Non voglio fare il dirigente che zoppica...». Il suo favorito, oggi, è Giuseppe Rossi: «Perché è simpatico, educato, sulle labbra ha sempre il sorriso e in mano un pallone o una pallettina». Il miglior allenatore è Cesare Prandelli: «Umanamente eccezionale, la sua storia personale parla per lui. Sa prendere i giocatori nel modo giusto, sa punirli. Ed è un uomo buono».
Le giornate sono ritmate da piccole consuetudini. «Colazione nel bar sotto casa, dove c’è Eva che mi maltratta. Prendo caffè e brioche e vado nel mio studio, leggo i giornali - Corriere , Gazzetta e L’Unione Sarda - e controllo se qualcuno mi ha scritto su Internet, rispondo a tutti. Passo a salutare un amico, commentiamo le notizie. Tutte le sere ceno da Giacomo, che ha un ristorante di pesce, ma a me prepara il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia. E faccio il nonno».
Gigi Riva non ha mai lasciato la Sardegna, malgrado potesse scegliere con quale club giocare. «Gli avversari ci gridavano “ladri, banditi e pecorai”. Gli arbitraggi con le grandi erano sempre a nostro svantaggio. Eppure vedevo questi pullman di tifosi che arrivavano a Milano o a Torino dalla Germania, dall’Olanda, dall’Inghilterra. Nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio. Come potevo andarmene? Ricevevo tantissime lettere, pure da Graziano Mesina, latitante: le sue le bruciavo. Mi era simpatico. Ma ci sono rimasto male per l’ultimo arresto: della favola che lo avvolgeva non è rimasto niente».
La voce si incupisce quando parla dei giovani. «Qui, in particolare, sembra di essere tornati indietro di decenni, quando bisognava emigrare per le miniere del Belgio. Oggi un ragazzo non può più permettersi di scegliere di andare a Londra».
L’ultimo sgambetto gliel’ha fatto L’Unione Sarda . «Gli indipendentisti dell’Irs vorrebbero candidarmi alle Regionali. Ora, a parte il fatto che non intendo fare nulla, mi ha offeso che abbiano scritto che non potrei correre per la poltrona di governatore perché non sono sardo. Io?».
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